Intervista di "Ristretti"

 

Nils Christie un grande criminologo che crede poco all’utilità del carcere

La mediazione penale e le tante possibili alternative alla galera

 

(Realizzata nel mese di marzo 2004)

 

A cura di Francesco Morelli

 

Docente di criminologia dell’Università di Oslo e maggior esponente della "Teoria abolizionista", Nils Christie è arrivato a Padova per tenere alcune conferenze sul tema della mediazione penale. L’ho incontrato al primo degli incontri programmati, al Dipartimento di sociologia. Sono abituato a partecipare a convegni per "addetti ai lavori", quindi con la presenza di un numero limitato di persone, ma ad ascoltare Christie eravamo davvero in pochi, ed è stato un peccato. Ci siamo seduti intorno a un tavolo (non aveva senso una disposizione più accademica) e le facce un poco perplesse si sono trasformate in sorrisi di complicità… ci siamo sentiti un po’ privilegiati. Christie ha preferito rinunciare alla relazione e, dopo essersi brevemente presentato, ci ha invitato a fargli delle domande. "L’intervista" che ne è risultata (se così si può definire) è fatta in collettivo.

 

Tutte le società moderne usano il carcere come strumento per punire chi ha trasgredito certe regole e per dissuadere le altre persone dal trasgredirle. Ma lei crede all’utilità del carcere?

Io credo che il carcere possa essere utilizzato soltanto quando sono falliti tutti gli altri metodi di ricomposizione del conflitto, quindi la mediazione penale, il risarcimento della parte offesa. Secondo me gli Stati potrebbero ridurre del 90% le dimensioni dei propri sistemi penitenziari senza alcun rischio di aumento della criminalità, anzi… rinchiudere una persona in carcere rende più probabile che questa commetta altri reati, quando ha terminato la pena. Se ci pensate bene, noi mandiamo i nostri figli a scuola perché abbiano una vita sociale che gli insegni delle cose… ma se li mandiamo in prigione, che cosa impareranno, come ne usciranno? Alcuni anni fa ho scritto un libro dal titolo "Il business penitenziario, la via occidentale al gulag", dove prospettavo il rischio che i sistemi carcerari si trasformassero in enormi campi di concentramento, dai quali tutte le persone "scomode" per la società non uscissero più. Ed è proprio quello che sta accadendo negli Stati Uniti e nella Russia occidentalizzata, dove ogni 120 persone libere ce n’è una detenuta.

Ma la pena carceraria non funziona nemmeno come deterrente: la probabilità che una persona non compia un’azione perché per un atto analogo un’altra persona è stata arrestata è molto bassa. Se agisce d’impulso, in quel momento non pensa certo a quale condanna rischia. Se agisce per bisogno economico, o perché vive in un contesto nel quale la violenza è il solo modo per affermarsi, la paura del carcere non è sufficiente a controbilanciare la gratificazione che ottiene con il suo gesto. Allora non serve la minaccia della punizione, serve una battaglia culturale, su più fronti.

 

Ho notato che lei non usa termini come "crimine", "reato", ma parla di "gesti", "azioni"… è una scelta precisa, suppongo, o no?

Il "crimine" non è un concetto dal valore assoluto: dipende da che cosa, in una data società, viene considerato tale. Esiste l’azione ed esiste la persona che la compie, però a questa azione va dato un significato e va considerato anche il contesto nel quale viene compiuta. Se per un contadino afgano il coltivare del papavero da oppio non ha nulla di riprovevole e per noi occidentali è una cosa raccapricciante, le parti s’invertono prendendo in considerazione il "gesto" di sganciare bombe cluster sulle valli dove quel contadino abita. Questi "gesti" sono reati da punire, oppure comportamenti da capire? Quali sono le condizioni sociali e personali che ne determinano la lettura nell’una e nell’altra direzione? Se vogliamo che la comunità in cui viviamo sia fatta di persone responsabili, dobbiamo impegnarci a diffondere l’idea che il "delitto" è qualcosa di relativo, che "l’illegale" e il "legale" sono nient’altro che opinioni.

 

Però ogni Stato ha delle leggi, che stabiliscono quello che è consentito e vietato…

Le leggi dipendono dalla politica che, ormai priva d’ancoraggi ideologici, va alla deriva verso la filosofia assolutista dei soldi e del mercato. In questa situazione la paura della criminalità diventa il terreno preferito per scaldare gli animi, per raccogliere consensi. Per il resto non c’è più dibattito, perché i "valori sociali" sono più o meno gli stessi in tutti, non ci sono portavoce di valori in antitesi al sistema. Chi propone visioni alternative, come nel mio caso, non è ascoltato da nessuno. Se la tua immagine di politico è troppo debole nei confronti della "criminalità", sei finito, sei amico dei nemici del sistema… Quindi le leggi finiscono per scaturire da un processo di esasperazione dei conflitti sociali, anziché derivare dalla esigenza di ricomposizione degli stessi.

 

Che ruolo hanno i media in quest’opera di manipolazione dell’opinione pubblica?

I media sovraespongono i fatti criminali, li rendono talmente centrali da spaventare la gente. E credo che il ruolo più significativo sia quello della televisione che, oltre tutto, riduce il nostro tempo sociale, la partecipazione alle varie attività che ci fanno stare assieme agli altri. Quando, la sera, cammino per le strade vuote di Oslo, vedo dietro le finestre una luce blu. Là dentro c’è un’intera nazione, che guarda la televisione. La gente sta chiusa in casa. Guarda la TV e ha sempre più paura: a causa di quello che vede in TV, ma anche perché fuori non c’è nessuno, fuori nel buio c’è solo la minaccia criminale. Ci vorrebbero nuovi spazi di riflessione e non le suggestioni "primitive" che ci offrono oggi i politici ed i mass media.

 

In Italia è da poco tempo che si è iniziato a parlare di "giustizia riparativa", non senza sollevare dubbi o critiche. Qual è il sistema che utilizzate in Norvegia, per risolvere le controversie senza andare in tribunale?

In Norvegia abbiamo una "Camera dei conflitti", alla quale la Procura di Stato trasferisce, con l’accordo di entrambe le parti, le cause concernenti i reati minori. Ma le cause che finiscono a questo sistema alternativo sono troppo poche e di scarsa rilevanza: si arriva, al massimo, ai piccoli furti nei negozi. E così però si continua a recare danni sociali, utilizzando la giustizia penale. Poi, se guardiamo ai conflitti che nascono nel mondo della finanza, o tra i gruppi industriali, ci accorgiamo che molto spesso si adottano forme di mediazione proprio per evitare di andare in tribunale, prospettiva che danneggerebbe l’immagine delle aziende coinvolte. La stessa cosa dovrebbe valere per le persone comuni, però sembra che non lo si voglia capire...

 

Cos’è che ostacola l’affermarsi di forme di soluzione dei conflitti alternative ai processi penali?

Le ragioni sono tante. Prima di tutto c’è lo Stato (ed ogni istituzione che da esso dipende) che vuole poter governare e giudicare gli individui. Se perdesse questa prerogativa sarebbe svuotato di buona parte dell’autorità che oggi gli è riconosciuta. Un secondo problema riguarda la "proprietà" dei conflitti: sarebbe naturale che essi appartengano ai relativi protagonisti, non agli avvocati, non ai giudici… che, da questo punto di vista, si possono considerare quasi dei "ladri professionisti", perché sottraggono alla gente la possibilità di occuparsi delle proprie controversie. Queste categorie professionali vivono dei conflitti sociali: più ce ne sono, meglio è, per loro… se la gente fosse messa nelle condizioni di risolvere consensualmente la maggior parte delle "questioni", avremmo un esercito di giuristi senza lavoro. Ma c’è anche il fatto che la nostra tradizione culturale è molto legata all’idea del castigo, della sofferenza fisica e psichica come forma di risarcimento. A chi crede in questo io dico di andare ad assistere ad una seduta alla Camera dei Conflitti. Vedrebbero che spesso a soffrire sono sia la vittima sia l’accusato, che magari non riesce a capire quanto sia stata grave la sua azione (per la parte lesa) e cerca di spiegarsi. Lì si renderebbero conto di come, piano piano, con il dialogo, le due persone cercano di farsi capire. La vittima comincia un po’ alla volta a rendersi conto che l’aggressore è una persona normale e questi comincia a capire quel che ha combinato. Può finire con una stretta di mano, e questo mi sembra l’epilogo più accettabile moralmente, di sicuro di più che affidare la pratica ad un funzionario del sistema penale.

 

Quindi lei ritiene che il sistema penale debba essere gradualmente abbandonato e sostituito con questi sistemi alternativi?

L’abolizionismo va oltre le mie intenzioni, mi sembra poco realistico. Credo che da un lato si debba arrivare a metodi di soluzione alternativi, come il Giudice di Pace, per la gran parte dei reati, ma che dall’altro si debba conservare un sistema di garanzie cui una delle parti (la più debole) possa ricorrere per evitare un accordo iniquo. Se io ti ho spaccato il naso con un pugno e poi tu "che sei socialmente più attrezzato e potente" pretendi da me, oltre alle scuse e alle spiegazioni, un risarcimento che mi renderebbe schiavo, devo poter optare per un normale processo in un’aula del tribunale. Insomma, non dico di gettare alle ortiche la forma di difesa dei diritti individuale sviluppata nel corso dei secoli, dico che bisogna migliorarla.

 

 

Precedente Home Su Successiva