Mario Fappani

 

I diritti dei detenuti devono essere resi esigibili

A Brescia, il Garante delle persone private della libertà personale, coordina anche il “Tavolo permanente in materia di esecuzione penale”, che ha il compito di promuovere iniziative ed intese a tutela delle persone ristrette nelle carceri, di agevolare il reinserimento delle persone detenute e occuparsi dei problemi delle loro famiglie

 

(Realizzata nel mese di ottobre 2007)

 

Intervista a cura di Marino Occhipinti

 

Iniziamo, con l’intervista a Mario Fappani, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia, una serie di articoli dedicati a questa figura importante, che molti Enti locali hanno già istituito, nell’attesa che venga approvata la legge, che prevede la figura del Garante nazionale. Lo facciamo con la consapevolezza che oggi più che mai, in un clima in cui cresce la voglia di negare qualsiasi diritto alle persone incarcerate, è importante che ogni territorio, che ha un carcere, abbia anche un Garante che in qualche modo si occupi di rendere esigibili per i detenuti quei diritti, che altrimenti resterebbero pura teoria.

 

Quando è cominciata la sua attività di Garante delle persone private della libertà?

La figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale è stata istituita dalla Giunta comunale di Brescia nel giugno del 2005. Tale scelta è conseguente all’impegno assunto dal Comune nel promuovere la partecipazione attiva alla vita civile, assicurare i diritti di cittadinanza, accesso ai servizi e al lavoro a tutti i cittadini.

Nelle persone private della libertà personale, il Comune stesso ha riconosciuto alcuni fra i più deboli ed esclusi dalla pienezza all’esercizio dei diritti e delle opportunità di promozione umana e sociale e, in collaborazione con lo Stato titolare delle funzioni amministrative in materia di sicurezza di polizia e esecuzione della pena, intende garantire a tutti, cittadini e non, domiciliati o residenti, la fruizione dei servizi e le varie forme di partecipazione alla vita civile della città.

Il quadro è palese: tutte queste nomine di “figure ad hoc di garanzia” evidenziano un dato incontrovertibile e cioè la convinzione che i diritti fondamentali delle persone ristrette nella libertà personale devono essere garantiti ma anche resi esigibili.

 

E quali sono gli obiettivi del Garante?

Obiettivo dell’attività del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale è la promozione dell’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone comunque private della libertà personale o limitate nella libertà di movimento, residenti o domiciliate o comunque presenti nel territorio comunale.

Ai sensi del dettato Costituzionale (art. 27, comma III) la persona privata della libertà personale infatti perde solo il diritto alla libertà di movimento, ma mantiene tutti i diritti fondamentali, quali il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione e formazione… Allo stato attuale, tali diritti sono ben lungi dall’essere garantiti, in particolare ai cittadini che si trovano ristretti in carcere, siano essi in attesa di giudizio o condannati in via definitiva.

Naturalmente la situazione non è omogenea sul piano nazionale e varia a seconda dell’istituto di pena in cui il cittadino si trova ristretto e anche a Brescia non è la stessa per Canton Mombello (Casa circondariale) e Verziano (Casa di reclusione). Un miglioramento effettivo della condizione in cui versano i detenuti delle carceri cittadine può passare solo, a mio avviso, attraverso una triangolazione costante di rapporti tra popolazione carceraria, direzione delle carceri e amministrazioni pubbliche, oltre al coordinamento e al sostegno del prezioso lavoro svolto dalle associazioni di volontariato e dalle organizzazioni del terzo settore (mondo della cooperazione in primo luogo).

 

Abbiamo letto dell’istituzione di un Tavolo penale. Di cosa si tratta e chi vi partecipa?

Si tratta di un prezioso strumento per la realizzazione del rapporto triangolare di cui parlavo. È il “Tavolo permanente in materia di esecuzione penale” previsto dalle linee guida della Direzione generale famiglia e solidarietà della Regione Lombardia. Al Tavolo penale viene affidato il compito di promuovere iniziative ed intese a tutela delle persone ristrette nelle carceri, di realizzare servizi e interventi riguardanti il disagio adulto e minorile, di agevolare e facilitare il reinserimento e la tutela delle persone detenute e delle loro famiglie.

Nel marzo del 2006, la Giunta comunale ha affidato il coordinamento di tale organismo al mio Ufficio. Al Tavolo penale partecipano i direttori degli istituti penali, dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, dell’ufficio dei Servizi sociali Minori del Ministero della Giustizia, dell’ufficio Servizi Sociali disagio adulto grave del Comune di Brescia, rappresentanti dei 12 distretti A.S.L., rappresentanti della Provincia di Brescia, rappresentanti delle associazioni di volontariato operanti sul territorio, direttore dei Servizio sociale dell’A.S.L. e del Ser.T., rappresentanti delle cooperative sociali, agenti di rete e quanti, a seconda dell’argomento trattato nei vari incontri, operano sul territorio e coprono ruoli ai quali ci si può riferire per la soluzione delle questioni affrontate.

 

Quindi la società e gli enti locali “rispondono” alle sue richieste?

Ritengo che parte della società bresciana sia attenta e sensibile alle problematiche relative alla detenzione, anche perché sollecitata dalla stampa locale che dà ampio risalto alle problematiche carcerarie; se da parte del Comune di Brescia è tangibile il sostegno ai vari progetti presentati, da parte del mondo imprenditoriale, nonostante le continue sollecitazioni, si riscontra invece un atteggiamento di chiusura.

 

Riesce a coinvolgere anche la magistratura di sorveglianza?

Con vivo piacere devo, anche in questa sede, esternare il mio sentito ringraziamento alla magistratura di sorveglianza di Brescia che, con disponibilità e sensibilità, contribuisce all’umanizzazione della pena agevolando il reinserimento dei detenuti nella società civile. I problemi più delicati, a questo proposito, si riscontrano nell’istituto di Canton Mombello che per la sua caratteristica di Casa circondariale registra una modesta presenza di condannati in via definitiva e dunque più problematico resta il rapporto con la stragrande maggioranza dei ristretti, al cui interno vi è una maggioranza di stranieri di varie etnie.

 

L’Amministrazione penitenziaria, invece, come si pone nei suoi confronti?

Nei confronti dell’Amministrazione penitenziaria e, nello specifico, del direttore delle carceri di Brescia, dott.ssa Mariagrazia Bregoli, non posso che comunicare l’immediata e piena disponibilità nutrita nei confronti della figura del Garante dei detenuti. Posso accedere alle carceri ai sensi dell’art. 17 dell’Ordinamento penitenziario, tramite autorizzazione da parte della direzione e previo parere favorevole del Magistrato di Sorveglianza competente. In concreto si equipara la figura del Garante a quella di un qualsiasi volontario che operi a favorire contatti fra il mondo carcerario e la società.

 

Incontra spesso le persone detenute?

Il felice atteggiamento della direzione delle carceri mi ha permesso di incontrare periodicamente la popolazione carceraria e di rapportarmi costruttivamente all’istituzione penitenziaria che, spesso, si rivolge al Garante per snellire le pratiche burocratiche in rapporto alla pubblica amministrazione o per sottoporgli particolari problematiche. Di fatto ho sempre goduto di libero accesso e posso incontrare quando ritengo opportuno la popolazione carceraria. Si è stilato, concordemente alla direzione, un calendario di mie presenze in carcere che mi permette di incontrare i detenuti, sia di Canton Mombello che di Verziano, che ne abbiano stilato formale richiesta con “domandina”.

In questi incontri privati i detenuti mi sottopongono i loro bisogni, richieste di vario genere e/o problematiche generali relative alla vita carceraria da cui derivano disagi e sofferenze cui possibilmente porre rimedio in collaborazione con la direzione e il personale dell’istituto di pena (educatori, personale sanitario, agenti penitenziari e volontari).

 

In che condizioni sono le due strutture?

Il carcere di Canton Mombello concentra tutte le problematiche annose delle carceri italiane: è una struttura obsoleta, inadeguata, insufficiente e sovraffollata. È opportuno ricordare che il compianto dott. Giancarlo Zappa, gia Presidente del Tribunale di Sorveglianza del distretto giudiziario di Brescia, presentò al Ministero della Giustizia e alla pubblica opinione, oltre 10 anni fa, la proposta di dislocazione del carcere nell’area di Verziano, ove è collocata l’altra più piccola Casa di reclusione. Così come è opportuno sottolineare che la situazione di inaccettabilità esistente è ben presente ai vertici dell’amministrazione comunale cittadina, tanto è vero che il sindaco Paolo Corsini, nel presentare alla stampa l’Ufficio del Garante, non ha mancato di ribadire che l’area citata resta a disposizione del Ministro della Giustizia per la realizzazione di una nuova struttura carceraria, che spero possa realizzarsi al più presto.

 

E la vivibilità dei ristretti com’è?

La situazione attuale è drammaticamente inaccettabile: prima del 31 luglio 2006, ante indulto, Canton Mombello tratteneva circa 500 detenuti maschi di 40 nazionalità diverse, la metà circa in attesa di giudizio e la restante metà definitivi, ricorrenti o appellanti, la maggior parte dei quali con età compresa fra i 26 ed i 35 anni, mentre la capienza considerata regolamentare dal Ministero competente, si attestava sui 206 posti-letto e quella tollerabile sui 298.

Il sovraffollamento quindi obbligava alla convivenza di fino a 5/6 detenuti in celle previste per 2 persone. Una situazione di manifesta insopportabilità e certamente irrispettosa delle più elementari norme di convivenza, oltre che rischiosa dal punto di vista igienico-sanitario. Di difficile gestione anche in relazione alla promiscuità derivante dalla diversa condizione personale dei detenuti sia in relazione alla varietà delle singole situazioni giuridico-penali, sia in relazione ai vissuti di ognuno di loro. Peraltro, dopo alcuni pochi mesi di relativa tranquillità, la situazione in ordine alle presenze dei detenuti, si sta facendo nuovamente preoccupante. Basti pensare che alla data odierna in carcere risultano presenti oltre 320 persone di cui i 2/3 sono stranieri.

Il quadro si fa ancora più sconsolante se si pensa che almeno un terzo dei detenuti si trova ristretto per reati inerenti il mondo della tossicodipendenza, la maggior parte dei quali è affetto da patologie plurime riconducibili all’uso di sostanze stupefacenti.

 

Ci sono opportunità lavorative?

In tema di lavoro penitenziario, quello prestato all’interno degli istituti in Italia e da noi a Brescia, è cosa sconsolante. Diceva anni fa, il dott. Giancarlo Zappa*, che “il lavoro penitenziario è l’elemento principale nel trattamento rieducativo, finalizzato com’è a promuovere il processo di modificazione degli atteggiamenti antisociali dei condannati. Sul piano concreto e storico, bisogna ammettere che si sono fatti passi indietro nel senso che le possibilità offerte dall’Amministrazione penitenziaria si sono ridotte al lumicino e riguardano un numero di soggetto del tutto trascurabile. Nel carcere ordinario, oggi come allora, non si va praticamente oltre il lavoro “domestico”, comprendendo nel termine anche i lavori di ordinaria e piccola manutenzione degli immobili”.

Ebbene, rispetto a queste considerazioni di oltre dieci anni fa, il quadro si è fatto ancor più critico perché, di fronte all’aumento inarrestabile della popolazione carceraria, nessun passo significativo è stato compiuto per offrire ai detenuti occupazione lavorativa, se si eccettuano alcuni interventi da parte delle cooperative sociali, e le carenze riguardano anche il lavoro esterno.

Accade così che la Magistratura di Sorveglianza e la direzione del carcere, anche volendo, non possono concedere ai detenuti l’accesso alle misure alternative al carcere (semilibertà, affidamento ai Servizi sociali, articolo 21), misure che rappresentano una tappa importante sulla strada del trattamento rieducativo.

Purtroppo non esiste la possibilità per i detenuti di essere inseriti in un’occupazione remunerativa che non sia quella routinaria del servizio interno alle sezioni (scopino, spesino, portavitto). Accade così che, nonostante la stragrande maggioranza dei detenuti richieda la possibilità di accedere ad un’occupazione, solo meno del 30 per cento delle richieste può essere accolta. Si consideri che la dignità della condizione carceraria è strettamente collegata ad un minimo di disponibilità economica personale per affrontare le più elementari esigenze (telefonate alle persone care, francobolli per la corrispondenza, materiale per la pulizia personale…) la cui mancanza contribuisce ad abbruttire ulteriormente la vita dei ristretti, la maggioranza dei quali è sprovvista di un minimo di sostegno all’esterno del carcere.

 

Avete fatto anche un tentativo per tutelare maggiormente i rapporti affettivi…

Fra i tanti problemi che affliggono il carcere quello dell’esercizio della “genitorialità” è di certo tra i più delicati e rilevanti. Dalla direzione e dalla rappresentanza dei detenuti mi è stato chiesto un aiuto nell’organizzazione dei colloqui con i bambini, in quanto attualmente questi possono svolgersi solo in un locale fortemente inadeguato alla privacy ed al rapporto affettivo. L’esercizio della “genitorialità” infatti, oltre che un diritto, comunque da garantire pur nei limiti della condizione di restrizione, rappresenta un fatto spesso decisivo in relazione alla rieducazione del condannato e alla educazione della sua prole, essendo noto infatti quanto possa essere problematica la formazione di un infante privo del rapporto quotidiano con i genitori rispetto al suo futuro.

A tale proposito, sono intervenuto per favorire fra la direzione del carcere ed il Comune di Brescia la stesura della bozza di una convenzione con il Servizio Biblioteche finalizzata all’utilizzo della biblioteca limitrofa a Canton Mombello. Si era individuato uno spazio consono a tali delicatissimi colloqui, al fine di rendere il meno traumatico possibile il rapporto dei minori interessati con i detenuti, anche tramite la presenza di volontari. Purtroppo, ad oggi, il progetto non ha ancora potuto decollare per difficoltà insorte nella traduzione dei detenuti dal carcere alla biblioteca stessa.

 

In compenso, nella Casa di reclusione di Verziano le cose vanno meglio.

Verziano è un carcere relativamente nuovo, provvisto di ampi spazi verdi e limitrofo ad una vasta area edificabile che potrebbe potenzialmente essere ampliato per divenire unico carcere bresciano. Si presenta, dal punto di vista strutturale, come una realtà più consona a garantire l’umanizzazione della pena sia per coloro che vi sono ristretti che per il personale dell’Amministrazione penitenziaria che, prestando servizio in un ambiente a “misura d’uomo”, è sollevato da tante piccole difficoltà che non fanno altro che esacerbare gli animi e complicare i rapporti interpersonali.

In riferimento alle detenute, particolare attenzione meriterebbe la restrizione di donne con bambini al seguito. Generalmente si tratta di nomadi arrestate in fragranza di reato, accompagnate da bimbi, il più delle volte neonati. La mancanza di ambienti idonei alla cura di bambini in tenerissima età e al loro svago, l’alimentazione inadeguata per gli stessi piccoli, l’assenza di un pediatra, la promiscuità con altre detenute adulte sono tutti aspetti di un’inaccettabile emergenza cui andrebbe posto urgentemente rimedio.

Ad alcuni detenuti, sempre troppo pochi, è dato di poter essere inseriti al lavoro della cooperativa Carpe diem, che da anni impegna delle donne ristrette in lavori di rammendo e piccoli montaggi di minuteria: commesse che la cooperativa riesce faticosamente ad ottenere da ditte esterne.

Ai detenuti che facciano richiesta vengono offerti corsi formativi e/o propedeutici al lavoro. Per alcuni detenuti sono stati organizzati laboratori per la creazione di oggettistica venduta poi all’esterno in varie occasioni, è stata allestita una serra all’interno dello spazio verde in collaborazione con la cooperativa Talea, nella quale vengono coltivati ortaggi con lo scopo primario di intrattenere in modo costruttivo i ristretti fuori dalla sezione. Tali prodotti vengono poi consumati dagli stessi detenuti.

È stata inoltre firmata, nel corso del 2006, una convenzione fra il P.R.A.P., la direzione delle carceri e l’Università degli Studi di Brescia, grazie ad un intervento decisivo in tal senso da parte dell’associazione Carcere e Territorio, per l’attivazione del primo Polo Universitario in carcere della Lombardia. Nel 2007 potrà essere perfezionata la stessa convenzione per la cui realizzazione è indispensabile effettuare lavori di ristrutturazione dei locali destinati a tale scopo.

 

La sanità è un altro tema dolente…

Ho effettuato con la direzione del carcere e le direzioni generali della ASL e degli ospedali civili alcuni colloqui nella speranza che un miglioramento dei rapporti fra le stesse istituzioni possa conseguire i risultati attesi. Auspico che nel programma di ristrutturazione degli ospedali civili venga presa in considerazione la mia richiesta di trovare una collocazione più idonea e dignitosa al piccolo e inadeguato presidio di ricovero per gli interventi urgenti dei detenuti bresciani.

Nel frattempo, considerata la mancanza di risorse finanziarie da parte dell’Amministrazione penitenziaria, sto ricercando la disponibilità di alcuni specialisti delle varie branche sanitarie non presenti attualmente all’interno del carcere (ortopedia, otorinolaringoiatria, gastroenterologia, chirurgia, dermatologia, pneumotisiologia, fisiatria) alla presenza anche con periodicità “lunga” (quindicinale o mensile) per garantire visite non gravate da impellenza ed urgenza. Si eviterebbero così attese non comprensibili di diagnosi mediche ed inutili e faticosi trasferimenti dei detenuti all’esterno del carcere.

Tasto dolentissimo della sanità in carcere è rappresentato dalle patologie psichiatriche. Il disagio psichico necessita di attento e preciso servizio ambulatoriale, di contatti con i servizi del territorio, di attività psichiatrico istituzionale forense, di collegamenti col Dipartimento salute mentale, soprattutto alla luce della problematicità rappresentata da una patologia in continuo aumento con significativa presenza di persone affette da doppia patologia correlata alla psichiatria e alla tossicodipendenza e richiede, per il suo contenimento e per la sua risoluzione, di interventi clinici individualizzati ed attività di risocializzazione e riabilitazione adeguati.

 

Finora ha ricevuto molte richieste di intervento da parte dei detenuti? E per quali motivi?

In questo primo periodo di attività, personalmente o tramite lettera, ho avuto notizie di denunce e richieste da circa oltre 100 detenuti. Si sono rivolti al Garante i detenuti stessi, i loro parenti, i conviventi, i conoscenti e le associazioni di volontariato che li sostengono.

Si è trattato di risolvere problematiche strettamente correlate alla situazione detentiva, a problemi di salute e relativa difficoltà ad accedere ai servizi a cui si ha diritto, necessità di contatto con i propri legali, reperimento di legali in grado di offrire patrocinio gratuito, richieste di avvicinamento e trasferimento da un carcere ad un altro, denunce a servizi od enti che non avevano operato nel rispetto della persona, solleciti a presa in carico e chiusura delle osservazioni individuali da parte degli educatori operanti in carcere, informazioni varie presso cancellerie dei Tribunali, solleciti ad istanze presentate da tempo, riconoscimento di figli naturali, matrimoni con detenuti/e, concessioni di documenti di residenza, rilascio documenti vari precedentemente sequestrati e non più restituiti, ricerca di alloggio, ricerca di posti di lavoro… tutte situazioni, anche le più banali, che creavano disagio aggiuntivo alla già pesante situazione di detenzione e per tanto, anche solo umanamente, degne della massima considerazione.

Come si può immaginare, ogni problema e ogni questione sollevata, ha richiesto un intensissimo lavoro d’ufficio, ed è facilmente immaginabile infatti che le difficoltà quotidiane incontrate nei rapporti con i detenuti, con i loro familiari e con i funzionari amministrativi ed i responsabili politici della pubblica amministrazione dei vari settori interessati, hanno comportato un iter faticoso, talvolta frustrante, di continui contatti telefonici e colloqui personali.

Tutti i detenuti che si sono relazionati all’ufficio del Garante tramite colloquio o scritti, attraverso i legali o i familiari, hanno lamentato la scarsità di colloqui con gli educatori, numericamente insufficienti, e, per questo motivo, nelle nostre carceri, da qualche tempo, hanno preso servizio due Agenti di rete provenienti da realtà di volontariato a fianco degli educatori presenti per coadiuvarli nella loro attività. Si tratta di un’esperienza all’avanguardia nelle carceri italiane che va ascritta a tutto merito dell’ottimo lavoro da tempo espletato dall’associazione Carcere e Territorio e dalle realtà cooperative che con essa interagiscono nonché al sostegno economico della Regione Lombardia.

 

Ci illustra le principali attività e i progetti che il suo ufficio ha portato avanti?

Il Garante, in collaborazione con l’U.I.S.P. (associazione che segue l’attività sportiva in carcere ed in particolare le squadre di pallavolo femminile e di calcio maschile) e con Brescia Cuore (associazione dei cardiopatici bresciani), ha organizzato il quadrangolare di calcio fra rappresentanze dei Consiglieri comunali del Comune di Brescia, degli avvocati, degli agenti carcerari e dei detenuti i cui proventi sono serviti per l’acquisto di due defibrillatori cardiaci da donare al Tribunale di Brescia e alle carceri cittadine.

 

Su proposta del Garante, il Comune di Brescia ha elargito, nel corso del 2006, i seguenti contributi:

€ 40.000 per la messa a disposizione di incentivi da destinarsi ad imprese che assumano detenuti o ex detenuti beneficiari del provvedimento di indulto (il relativo bando è già stato pubblicato);

€ 10.000 da attribuire all’associazione Carcere e Territorio per coprire, almeno in parte, le spese sostenute durante i primi giorni dell’emergenza indulto, fondi serviti a quei detenuti che si sono presentati allo sportello dell’associazione in cerca di aiuto economico e di temporanea sistemazione alloggiativa per affrontare le prime necessità di sopravvivenza;

€ 7.000 per l’acquisto di materiale informatico per un corso di formazione di bibliotecari e da destinare ad altro uso da parte dei detenuti;

€ 40.000 da destinare: alla fornitura ai detenuti in grave situazione di abbandono e difficoltà economiche di un Kit di accoglienza e permanenza in carcere che comprenda materiale per la pulizia personale, un minimo di dotazione di capi di abbigliamento e lo stretto indispensabile per poter contattare per via postale parenti e legali di fiducia; all’attrezzatura di locali che, una volta ristrutturati, ospiteranno il Polo Universitario bresciano.

Tra i progetti più ambiziosi, peraltro di difficilissima realizzazione, oltre a quelli riguardanti il miglioramento della condizione sanitaria, il mio ufficio intenderebbe dedicarsi all’avvio di un’attività di panificazione presso Verziano e alla realizzazione, presso Canton Mombello, di una attività di lavanderia, tramite l’intervento di una delle tante cooperative sociali di cui è per fortuna ricco il territorio bresciano.

 

Torniamo sull’indulto, un argomento che non si può liquidare soltanto con alcune cifre… Qual è la situazione nelle carceri in cui opera come Garante?

Anche per Brescia, come per le altre città italiane, dopo un primo momento di notevole alleggerimento della popolazione carceraria (da un totale sulle due carceri di 604 detenuti, si era scesi a 382, con 222 indultati), nonostante a distanza di un mese vi fosse stata una sola recidiva e alla luce del fatto che l’effetto indulto sia ancora in atto, la popolazione carceraria è risalita con la presenza costante di circa 450 detenuti sulle due carceri di Canton Mombello e Verziano.

Ma parto più da lontano. Il 2006 è iniziato con l’approvazione della legge sugli stupefacenti, la Fini-Giovanardi, e le previsioni di applicazione di questa normativa, assieme alla legge ex Cirielli per la parte sulla recidiva e alla legge sull’immigrazione, la Bossi-Fini, erano di un aumento del numero dei detenuti oltre ogni limite di sopportabilità.

A fine luglio il Parlamento ha votato con l’ottanta per cento dei voti favorevoli il provvedimento di indulto, determinando l’uscita immediata dalle carceri di oltre 25mila detenuti, portando le presenze dagli oltre 62.000 detenuti a circa 37.000.

Quali riflessioni ha posto l’indulto a chi presta un’attenzione non distratta ai problemi penitenziari?

Prima di tutto ha messo in luce una applicazione ridotta delle misure alternative per l’insussistenza di condizioni che ne rendessero praticabile l’esercizio (mancanza di lavoro esterno al carcere e di soluzioni alloggiative): infatti molti dei detenuti definitivi usciti grazie all’indulto erano nei termini per usufruire di programmi di accompagnamento al ritorno in società, ma stavano ammassati negli istituti di pena e, non lo si dimentichi, pesavano sui bilanci dello Stato in misura rilevante e sconosciuta ai più. Da un’indagine del “Sole 24 ore” del 18 gennaio 2006 risultava che i costi delle carceri erano altissimi e così quantificati: ogni detenuto costava allo Stato 131,67 € al giorno contro i 63 dollari degli Stati uniti (52,5 €); di fronte ad un organico di 43.000 unità di agenti di Polizia penitenziaria, c’era un agente ogni 1,4 detenuti, contro una media europea di 1 agente ogni 3 detenuti e quella americana di 1 ogni 7 reclusi.

In secondo luogo, l’indulto ha reso evidente che chi esce dal carcere è solo con il suo sacco di plastica nera dell’immondizia, perché il welfare non ha risorse per gli ultimi o ha altre priorità. Ma ha anche evidenziato come la giusta preoccupazione che l’improvvisa liberazione di detenuti non accompagnati negli ultimi anni di detenzione antecedenti la fine della pena senza un indispensabile programma di recupero e reinserimento nella società, possa ampliare di molto i rischi della recidiva. Questa preoccupazione dovrebbe permettere l’apertura di un dibattito più ampio su quegli aspetti della questione penitenziaria, già più volte toccati nel corso della presente relazione. Mi riferisco, cioè alla necessità di ampliare la possibilità di occupazione esterna e di sistemazioni alloggiative per i detenuti che scontano gli ultimi anni della pena, così da permettere alla Magistratura di Sorveglianza ed agli Uffici dell’U.E.P.E. (Ufficio Esecuzione penale Esterna) l’attuazione di un efficace programma di accompagnamento al necessario reinserimento.

 

Reinserimento molto più facile in caso di concessione di misure alternative alla detenzione…

Studi sul tema della recidiva offrono un illuminante quadro: i casi di recidiva, nei sette anni seguenti alla liberazione, di detenuti interessati da misure alternative si attestano su una percentuale di recidiva al di sotto del 20 per cento, mentre la percentuale di recidiva riguardante i detenuti non opportunamente accompagnati, si attesta su una cifra superiore al 70 per cento. Questione questa che resta di grande scottante attualità perchè, indulto o non indulto, i detenuti italiani dal carcere escono comunque ogni giorno una volta scontato il loro debito con la giustizia. Infine, l’indulto ha denunciato la presenza di una detenzione sociale di massa costituita per lo più da immigrati, da tossicodipendenti che, rispettando la legislazione in vigore, non dovrebbero né entrare né stare in carcere e per lo più da poveracci.

 

E cosa bisognerebbe fare per evitare di tornare alla situazione di invivibilità pre-indulto?

L’approvazione del nuovo Codice penale con l’introduzione di nuove misure alternative che evitino il ricorso al carcere come unica soluzione espiatoria. Purtroppo, allo stato dell’attuale situazione politica-parlamentare, questo sembra restare un grande sogno irrealizzabile.

 

A Brescia avete avuto difficoltà a gestire il dopo indulto? Cosa avete fatto?

Prima dell’indulto, Canton Mombello presentava negli ultimi periodi una situazione di grave emergenza a causa di un intollerabile sovraffollamento. Basti pensare che, al 30.6.2006, rispetto ad una capienza regolamentare di 206 posti letto, i detenuti presenti erano 485 di cui 219 condannati e 266 imputati. Per quanto riguarda le carceri cittadine, in quei giorni, sono stati messi in libertà 222 detenuti: 157 dismessi da Canton Mombello e 65 da Verziano.

L’approvazione dell’indulto, che ha comportato la liberazione anticipata ed improvvisa di un numero consistente di detenuti, ha posto problemi emergenziali di particolare gravità ed a questo fine si è dimostrato particolarmente efficace offrire ai detenuti dimittendi un unico sportello esterno a cui rivolgersi per poter ottenere aiuto evitando il disperdersi delle richieste su molti servizi non specifici.

 

In pratica uno sportello di segretariato sociale? Chi vi ha partecipato?

Esattamente, un’attività che ha potuto gestire l’emergenza filtrando e smistando le richieste coinvolgendo la rete dei servizi. Com’è facilmente immaginabile, sarebbe stato impossibile affrontare tale emergenza se il mio ufficio non avesse potuto contare sull’apporto fondamentale dell’importantissima associazione che opera da anni in modo encomiabile nelle carceri cittadine. Mi riferisco a Carcere e Territorio fondata nel 1997 dal rimpianto e stimatissimo Magistrato di Sorveglianza Giancarlo Zappa e presieduta da qualche anno dal prof. Carlo Alberto Romano.

I volontari dell’associazione e gli operatori delle cooperative aderenti alla rete che fa capo al segretariato sociale di bassa soglia, si sono attivati, non appena approvata in Parlamento la legge dell’indulto, per fornire ai detenuti interessati dalla scarcerazione, l’indirizzo dello sportello in via Spalto San Marco, 19 presso il quale potersi rivolgere al momento dell’uscita dal carcere nel caso gli stessi si trovassero in difficoltà ad affrontare l’emergenza.

Il progetto di segretariato sociale ha coinvolto le seguenti realtà: associazione Carcere e Territorio; Comune di Brescia, Servizi sociali e ufficio per l’integrazione e la cittadinanza; associazione Vol.Ca.; associazione Riflessi; Comunità Islamica; Agenti di rete; Caritas di Brescia.

 

Quali sono i numeri più significativi dello sportello?

La popolazione contattata, descritta attraverso i bisogni raccolti, le azioni messe in campo e le caratteristiche anagrafiche delle persone, danno un quadro dell’impatto che il provvedimento di indulto ha avuto sul territorio. In un mese di apertura (dal 1° di agosto al 1° di settembre) dello sportello di segretariato sociale, si sono incontrate 102 persone. Di questi 60 italiani (tra cui 6 donne) e 41 stranieri uomini. È possibile disegnare un quadro di questa popolazione secondo i bisogni emersi:

Condizioni abitative: 50% sul totale degli indultati;

Problematiche sanitarie: 10% con problemi di vario genere;

Tossicodipendenza: 1/3 sul totale degli indultati;

Residenza anagrafica: 5% risultavano cancellati dai propri comuni e senza documenti validi;

Lavoro: 100% sul totale degli indultati;

Altri servizi erogati: trasporti e/o biglietti mezzi pubblici;

Recidive: 1 sul totale degli indultati alla data del 31 agosto.

 

Gli enti locali e istituzionali vi hanno sostenuto?

È da sottolineare come davvero preziosa si sia rivelata la collaborazione dell’assessore comunale Fabio Capra e della dott.ssa Beatrice Valentini, responsabile del Servizio sociale disagio adulto grave, nell’indispensabile azione di supporto istituzionale alla citata rete assistenziale, anche attraverso una prima erogazione di finanziamenti a sostegno delle spese sostenute dalla stessa, debitamente documentate nella relazione a suo tempo inviata a tutti gli enti operanti sul territorio bresciano, compresi naturalmente gli amministratori e i consiglieri del nostro comune.

Di grande utilità si è rivelato anche l’intervento del sindaco prof. Paolo Corsini che ha permesso la tempestiva convocazione del Comitato per la Sicurezza e l’ordine pubblico da parte della Prefettura di Brescia. In occasione di tale incontro sono state affrontate e risolte due questioni fondamentali: il diritto all’ottenimento del documento di residenza anagrafica da parte di tutti i detenuti (documento indispensabile per accedere all’assistenza sociale da parte dei comuni e per il perfezionamento di tutte le pratiche burocratiche inerenti assunzioni al lavoro, rinnovo patente di guida, iscrizione alle liste di collocamento eccetera e il diritto all’assistenza sanitaria immediata in attesa della formalizzazione dell’iscrizione della propria posizione presso le A.S.L. di competenza.

 

La sua considerazione finale, un messaggio alla società?

Una lettura, anche non approfondita, dei compiti affidati al mio Ufficio dalla delibera di istituzione da parte del consiglio comunale, offre il panorama dei tanti obbiettivi da perseguire per allacciare un ponte tra il carcere e la società civile tramite le istituzioni pubbliche, fra le quali un ruolo fondamentale può e deve essere svolto dall’amministrazione più vicina ai cittadini quale è quella comunale.

Di questi compiti quello più importante è, a mio parere, la comunicazione sull’identità del carcere. Si tratta, come afferma in un suo articolo di presentazione alla mostra della Triennale di Milano “Oltre le sbarre”, Candido Cannavò di svolgere una sorta di missione morale, e cioè: “Far capire alla gente che il carcere non è una pattumiera e che dietro le sbarre vivono persone con dignità, intelligenza, fantasia, speranza. Donne e uomini sul crinale di uno strapiombo: una piccola spinta basta a perderli ma, se allunghi loro una mano, possono ancora essere recuperati nella società. Di questa realtà molta gente è del tutto ignara. Il rapporto tra il pubblico e il carcere è dominato dalla riluttanza o, nel migliore dei casi, dall’indifferenza. Il carcere è un pensiero sgradevole, una bruttura da rimuovere dalla mente, un posto che ti induce a girare lo sguardo dall’altra parte, se ci passi davanti. Quanto di più bieco, sbagliato e controproducente”.

Negli incontri con singole persone e realtà associative varie nelle circostanze che mi hanno permesso di parlare del carcere, le mie sensazioni erano sempre uguali: un muro all’inizio, la graduale presa di coscienza e poi il senso, talvolta commosso della rivelazione: scoprire i dolori, i sentimenti e i diritti di un luogo infido e proibito che non ci è arrivato da una maledizione celeste, ma fa parte delle nostre società come una delle tante patologie con le quali siamo chiamati a convivere.

Se il mio Ufficio, tra le tante iniziative assunte e da assumere, potrà svolgere almeno questo ruolo fondamentale e cioè un pressante invito ad aprire gli occhi e a spingersi al di là delle mura su qualcosa che non possiamo né ignorare né dimenticare, la mia coscienza si acquieterà nella convinzione di aver svolto un compito fondamentale nella difesa della dignità di ogni persona, al di là anche dei deprecabili reati commessi.

 

* Giancarlo Zappa è stato Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Brescia, dal 1978 al 1997.

Tra i molti incarichi che ha avuto a livello nazionale, vale la pena ricordare la sua qualificata partecipazione al gruppo di lavoro che ha prodotto la Legge Gozzini (1986) sull’ordinamento carcerario.

 

 

Precedente Home Su Successiva