Patrizia Meringolo

 

Carcere di Prato e Università degli Studi di Firenze

Ecco come funziona il Polo Universitario Penitenziario

 

(Realizzata nel mese di gennaio 2003)

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Quello che conta è che non devi dare un insegnamento di serie B perché "tanto sono studenti in carcere"

 

Vivono nel carcere di Prato, ma sono studenti a tutti gli effetti dell’Università degli Studi di Firenze: sono i detenuti del Polo Universitario Penitenziario, di cui ci ha parlato la professoressa Patrizia Meringolo, che ne è la responsabile per la Facoltà di Psicologia.

Quella che ci ha descritto è un’attività che vuole offrire, ai detenuti in possesso dei requisiti, l’opportunità di seguire corsi di istruzione universitaria in attuazione delle norme che garantiscono il diritto allo studio, contribuendo in maniera determinante ad arricchire le prospettive di reinserimento sociale.

La collaborazione delle istituzioni locali, dell’associazionismo, del volontariato e della cooperazione sociale è essenziale per l’efficacia di questa azione, ognuno per le proprie competenze.

L’Università provvede alla sperimentazione e realizzazione delle attività didattiche, all’azione di ricerca e all’organizzazione dell’orientamento e del tutorato, privilegiando programmi individualizzati.

L’Amministrazione Penitenziaria garantisce le condizioni di spazio, organizzative, di sicurezza, e assume tutte le decisioni di propria competenza.

La Regione Toscana partecipa al progetto favorendo la dimensione regionale, sostenendo le attività di sperimentazione, di ricerca e di valutazione, inserendo l’iniziativa nelle consultazioni sul territorio e nel piano pluriennale di intervento, in relazione anche a possibili interventi a favore di studenti svantaggiati e per la promozione degli inserimenti al lavoro.

 

Intervista a Patrizia Meringolo, Responsabile del Polo Universitario Penitenziario per la Facoltà di Psicologia

 

Sappiamo che l’Università di Firenze ha creato un Polo Universitario Penitenziario: ci vuole spiegare in cosa consiste esattamente, e cioè come è nato e quali sono gli enti a vario titolo coinvolti?

Il Polo Universitario Penitenziario è nato alcuni anni fa presso l’Ateneo fiorentino, con l’obiettivo di facilitare gli studi degli studenti, italiani e stranieri, che si trovano in stato di detenzione. Le prime immatricolazioni si sono avute nell’anno accademico 2001/2002. È stato istituito con un accordo siglato dall’Ateneo, il Ministero della Giustizia e la Regione Toscana. Gli studenti detenuti si trovano attualmente presso il carcere di Prato (provengono anche da altri istituti di pena), che collabora cercando di garantire situazioni il più possibile congrue allo studio e che cura lo svolgimento dei colloqui di professori e tutors.

 

Chi è il responsabile del Polo Universitario Penitenziario e quanti sono i detenuti iscritti? Quali sono le Facoltà interessate?

Il responsabile del Polo Penitenziario per l’Ateneo di Firenze è il professor Nedo Baracani, che insegna Sociologia alla Facoltà di Scienze della Formazione. Ci sono poi docenti responsabili quasi per tutte le Facoltà fiorentine, o almeno per tutte quelle a cui gli studenti hanno chiesto l’iscrizione. Attualmente ci sono 48 studenti iscritti tra nuove immatricolazioni e iscrizioni ad anni successivi, relative queste ultime sia a studenti immatricolati nell’anno passato sia a studenti che avevano già intrapreso un corso di studi prima dell’ingresso in carcere. Esiste un coordinamento tra i responsabili di Facoltà e i rappresentanti delle altre Istituzioni coinvolte, che si ritrova periodicamente per discutere l’andamento dell’esperienza. Importante è stato anche il contributo del Volontariato penitenziario.

 

Qual è il suo ruolo all’interno del progetto?

Ho partecipato a questo progetto coinvolta dal professor Baracani, con il quale avevo collaborato in altre occasioni su questi temi, e sono responsabile per la Facoltà di Psicologia. Generalmente faccio il primo colloquio di orientamento per chi vuole iscriversi alla mia Facoltà, ed è un momento utile, perché ci sono molte fantasie sulla psicologia: che serva a risolvere i propri problemi (e non è una psicoterapia!), che serva a capire tutti i segreti della psiche, degli individui e del mondo (magari!), che sia una facoltà umanistica, oppure tutta centrata sui sogni… e così via. Ma in questo gli studenti detenuti sono esattamente identici a qualsiasi altro studente, che risente dell’immagine della psicologia data dalla banalizzazione operata dai media o dall’uso incongruo pubblicizzato da certa cultura diffusa. Dopo il primo colloquio, tengo i contatti con gli altri docenti e con i tutors. Il lavoro di sensibilizzazione dei docenti è interessante perché alcuni di loro, pochi, per la verità, tra gli psicologi, non hanno mai avuto l’occasione di conoscere da vicino l’istituzione carceraria, e in questo il Polo Penitenziario è importante: voglio dire che non servisse ad altro (paradossalmente, è ovvio!), sarebbe comunque importante per gli esterni, come acquisizione di conoscenza e di consapevolezza della realtà della pena, che non sempre è conseguente alla nostra Costituzione che parla di pena rieducativa.

 

Si tratta quindi di una sorta di scuola anche per voi! E gli incontri tra i docenti ed i detenuti sono sufficientemente frequenti?

I docenti di solito incontrano gli studenti detenuti per almeno un colloquio sul programma di esame, come del resto si fa nell’ordinario ricevimento studenti in Facoltà, e poi al momento dell’esame. C’è da dire che per legge noi siamo tenuti ad andare in carcere se un qualsiasi studente detenuto chiede di fare il nostro esame (e capita, anche se non di frequente). Con il Polo questa eventualità viene resa più operativa e inserita in un progetto. Certo, fare il nostro lavoro in carcere è molto, come dire, educativo anche per noi: da una parte devi renderti conto delle difficoltà oggettive incontrate dagli studenti, dall’altra devi resistere alla tentazione di "fare sconti" (non so come esprimermi meglio). Voglio dire che non devi dare un insegnamento di serie B perché "tanto sono studenti in carcere", cosa che non servirebbe a nulla, ma dare delle competenze serie e spendibili nella realtà in futuro.

 

Quali sono le cose difficili con le quali vi dovete misurare?

La cosa più difficile, ma capita talvolta anche fuori, è proprio dare l’idea dell’importanza di progettare il futuro e di fare passi concreti – un po’ alla volta – per realizzarlo. E questo è difficile ma interessante. In questo primo anno l’esperienza con i docenti coinvolti è andata molto bene: ho in mente alcuni, ad esempio provenienti da Facoltà culturalmente meno interessate ai temi del carcere, come le Facoltà tecnologiche, che hanno preso molto a cuore l’impegno, dando un contributo notevole e portando un punto di vista diverso.

 

Nella pratica, come vengono seguiti gli studenti-detenuti durante il loro percorso di studio, vista l’impossibilità della regolare frequenza? Ci approfondisce un po’ la figura dei tutors?

I tutors sono in genere studenti degli ultimi anni o laureandi, che hanno colloqui con lo studente in carcere periodicamente, tipo ogni 15 giorni o ogni mese, e lo seguono nella preparazione dell’esame. Una sorta di peer education, visto che sono gli esami che loro stessi hanno già sostenuto. Abbiamo cercato di dare un rimborso spese anche minimo a questi ragazzi, o con le stesse modalità con cui l’Ateneo sostiene gli studenti che fanno un lavoro part-time per l’Università o per l’aiuto alle disabilità, o con mini-borse di studio messe a disposizione da esterni, pubblici e privati. I miei primi tutors sono molto bravi, stavano già facendo tesi su argomenti connessi agli aspetti psicologici del carcere, e mi sembra svolgano un ottimo lavoro sia con gli studenti a loro affidati, sia nel collegamento con me e con gli altri docenti. Certo, bisogna un po’ "proteggerli" dallo "strafare" o dalle possibili delusioni.

 

Delusioni riferite al rendimento nello studio, magari altalenante a causa della particolare condizione degli studenti, la detenzione?

Cioè, come in tutti gli interventi psicosociali, non è detto che i risultati siano sempre corrispondenti all’impegno messo: a volte possono venire molto tardi o non venire affatto o non essere visibili. Il lavoro di reinserimento non è semplice, ed è legato a tanti fattori sui quali abbiamo un’influenza limitata. Per esempio, è notevole la differenza nei risultati tra lo studente detenuto che ha una famiglia o una rete sociale alle spalle e quello, magari anche straniero, che non ce l’ha. O tra chi avrebbe avuto comunque problemi anche indipendentemente dal carcere. Ma non credo di dirvi cose nuove con questo.

 

Ecco, gli stranieri: ci sono particolari esigenze e problemi, proprio per la frequente assenza di una rete sociale alle spalle?

Per gli stranieri non c’è tanto un problema di lingua quando arrivano agli studi universitari, quanto ad esempio il riconoscimento degli studi fatti nel paese di origine, oltre ai problemi "ordinari" dell’essere straniero in carcere.

 

Quanti docenti sono impegnati nell’attività relativa al Polo Universitario?

Nel coordinamento del Polo Penitenziario c’è un docente referente per ogni Facoltà, quindi almeno 12, ma alcune Facoltà che non hanno ancora studenti iscritti possono non avere referenti, e per Facoltà più grosse c’è più di un docente. E poi sono potenzialmente interessati tutti i docenti delle Facoltà al momento degli esami da sostenere.

 

Ci sono possibilità che la vostra esperienza si estenda anche ad altre realtà penitenziarie?

L’esperienza, per quello che so, si sta estendendo ad altri Atenei toscani, come Pisa e Siena, certo è necessario molto impegno.

 

Come siete riusciti a far fronte alla questione relativa ai finanziamenti?

Il progetto per gli studi universitari in carcere non avrebbe avuto neppure inizio senza l’apporto dei volontari e il sostegno economico della Cassa di Risparmio di Firenze e della Cassa di Risparmio di Prato, finanziamenti importanti per il rimborso spese dei tutors e anche per il materiale didattico, l’acquisto dei libri ecc., soprattutto per coloro che non hanno famiglia o amici che li seguono.

 

Lo studio è certamente importante e lo è doppiamente per chi si trova ristretto, non solo per una possibilità di lavoro una volta espiata la pena, ma soprattutto per un profondo cambiamento culturale che porti ad abbandonare certe logiche. Ci vuole approfondire questo aspetto?

Io insegno Psicologia dei gruppi e di comunità, ed i problemi dell’inclusione sociale mi interessano molto. Ci sarebbero parecchi aspetti da approfondire, al di là delle poche cose che dico in questa intervista. Soprattutto in un momento storico come il nostro, che sembra esaltare il successo e il vincere con tutti i mezzi (che, per inciso, è la stessa logica per cui alcuni sono finiti in carcere). Credo che sia davvero necessario un "cambiamento culturale", sia nel carcere (per esempio lavorando - parlo dal punto di vista psicologico, soprattutto - sul tema della progettazione del futuro, come formazione professionale e preparazione al lavoro, e anche come approfondimento personale) sia fuori del carcere, per preparare il reinserimento nella comunità territoriale.

 

 

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