Anche Gesù era un carcerato

 

di Carmelo Musumeci

 

Non posso vivere senza un filo di speranza. Non posso continuare a vivere senza la speranza di esistere.

(Frase trovata scritta in un foglietto da un ergastolano che s’è tolto la vita in carcere)

 

Ho sempre pensato che un uomo non abbia bisogno di nessun Dio per essere buono, invece molti credenti credono in lui per continuare a essere malvagi. Forse anche per que­sto da molto tempo non ho più fede in Dio. Da bambino però ci credevo. Poi ho pensato che lui mi avesse abbandonato. Ed io non avevo fatto più nulla per ritrovarlo. Forse per questo credo che da molti anni lui me la sta facendo pagare. E quando Papa Francesco ha abolito l’ergastolo nello Stato del Vaticano, non vi nascondo che ci sono rimasto un po’ male perché adesso non me la posso più “prendere” con lui. Poi mi sono ricordato che il ruolo di alcuni uomini di chiesa nella storia è sempre stato dalla parte degli ultimi, dei perdenti, dei peccatori, degli sconfitti e credo che l’ergastolano sia tutte queste cose messe insieme. E mi è venuto in mente anche che Pietro, capo della Chiesa e rappresentante in terra del Cristo, ha rinnegato Gesù per ben tre volte eppure è stato perdona­to, perché è un principio cristiano quello che la gente cambia.

La frase detta da Papa Francesco “Anche Gesù era un carcerato” mi ha fatto riflettere perché non ci avevo mai pensato. E ne ho dedotto che se a quel tempo fos­se esistita la pena dell’ergastolo ostativo forse Gesù non sarebbe stato messo in croce, ma sarebbe stato condannato alla “Pena di Morte Viva” o a una croce ostativa a qualsiasi beneficio per farlo invecchiare inchiodato a una croce.

Credo che molti ergastolani, se potessero scegliere, preferirebbero morire subito, adesso, in questo momento, piuttosto che nel modo orribile, progressivamente e infinitamente spavento­so di morire tutti i giorni e tutte le notti. Forse i romani non erano poi così cattivi come lo sono i loro discendenti cristiani che condannano un uomo con una mor­te bevuta a sorsi. In questo modo gli ergastolani ostativi non sono nell’Aldilà o nell’Aldiquà. Sono nel mezzo né vivi né morti, sono solo ombre. Dio se ci sei, batti un colpo. Diglielo ai “buoni”, forse a te danno retta, che anche tu all’inferno, ancora prima di Papa Francesco, hai già abolito l’ergastolo ostativo. Ed io sono sicuro che non hai mai condannato nessuna anima a essere cattiva e colpevole per sempre.

 

 

 

Quella pericolosa convinzione che dal carcere si esca facilmente e in fretta

 

Quando si parla di Giustizia, sono in tanti a esprimere la convinzione che nel nostro Paese le pene siano fra le più basse in Europa, che dal carcere si esca sempre troppo in fretta e che serva invece tanta galera per farci sentire sicuri. Non è un caso che le persone giovani che finiscono arrestate, straniere ma anche italiane, molto spesso sono così poco e male informate, che nemmeno si rendono conto di quello che le aspetta. Il carcere poi rischia di diventare una scuola del crimine, e quando quei ragazzi alla fine accumulano anni su anni di condanne, si ritrovano rovinati e incapaci di reagire a tutta quella sofferenza. Ecco perché è particolarmente importante il lavoro che si può fare proprio dal carcere, sensibilizzando i ragazzi delle scuole e smontando la cattiva informazione, che fa credere che “tanto li arrestano, e il giorno dopo sono già fuori”.

 

 

C’è una sorta di inconsapevolezza quando inizi a commettere i primi reati

 

di Lorenzo Sciacca

 

Una buona parte di detenuti che affollano le carceri non immaginava neppure lontanamente la pena a cui andava incontro, non perché non fosse consapevole di quello che stava commettendo, ma per la grande diversità di condanna che si può ricevere nel nostro Paese da una procura all’altra.

Io sono uno di quelli, ho un cumulo di condanne che mi ha portato a dover scontare più di trent’anni, il mio tipo di reato è sempre sta­to la rapina. Certo detta così posso sembrare un delinquente incalli­to, lo sono stato sicuramente per una scelta di vita, ma determinata anche da un contesto sociale che ha inciso sul mio percorso di peggioramento. Sono certo che questo mio crescendo di delinquenza in giovane età sia stato causato principalmente dalla mancanza di paletti nella mia vita. Questi paletti sono i limiti che un genitore impone al proprio figlio, e avendo avuto un padre carcerato dall’età di zero anni ai dieci questi limiti a me sono mancati, anzi vedere mio padre dietro a banconi e vetri nelle sale colloqui mi ha dato una grossa spinta a odiare la società in cui avrei dovuto vivere e le sue istituzioni. Ma anche crescere in un quartiere degradato incide fortemente su un bambino, essere a stretto contatto con pregiudicati, vedere da ragazzino la polizia venire ad arrestare uno zio, o il padre di un amico contribuisce a farti identificare dei nemici in tutte le divise. Queste cose non vogliono essere alibi, ripeto il mio contributo a peggiorarmi è stato fondamentale, ma non essere in grado di capire cos’era bene e cos’era male mi ha portato a rovinarmi la vita, l’unica possibile.

C’è una sorta di inconsapevolezza quando inizi a commettere i primi reati, il mio primo reato lo motivavo come un bisogno di soldi perché ero stufo di essere povero, non pensavo alla condanna che avrei dovuto scontare se mi avessero arrestato ed è proprio grazie alla mia prima carcerazione che ho capito l’odio che avevo dentro di me verso la società, ed è proprio da lì che posso affermare con sicurezza che la mia carriera delinquenziale abbia avuto una svolta.

Abitando al sud, a Catania, per commettere le rapine salivo al nord, non importava la regione l’importante era allontanarmi da casa. A 19 anni mi arrestarono a Milano e presi una condanna di cinque anni e dieci mesi per una rapina in banca, in questi anni di detenzione il pensiero principale era trovare l’errore commesso per non ripeterlo nelle future rapine, in più ascoltavo le strategie che i vecchi rapinatori raccontavano per cercare il colpo perfetto. Provate voi a stare in un contesto delinquenziale come è un carcere per anni meditando sempre sulla stessa cosa, l’odio, la rivalsa, la vendetta, sono questi i sentimenti di cui la mia mente si è nutrita per anni.

Riecco la libertà. Prima strategia rapinare in posti diversi, girare l’Italia in lungo e in largo per cercare quella rapina che poteva “sistemare” la mia vita. Ora non voglio raccontare tutte le mie carcerazioni, voglio però solo dire che tutte venivano affrontate nella stessa maniera della prima.

Anno 2007 mi arrestano per rapine in giro per l’Italia, dunque tanti processi in procure diverse, arrivo ad avere 17 anni di carcere non definitivo, ed essendo ancora giudicabile mi vengono concessi gli arresti domiciliari in una comunità lavorativa. Ovviamente quando le pene sarebbero diventate definitive mi avrebbero riportato in carcere, dunque per me l’unica soluzione era scappare perché non avevo alcuna intenzione di regalare altri anni della mia vita a queste sbarre. La mia latitanza è durata poco più di sette mesi. In questi sette mesi sono riuscito a rovinarmi. Vivevo in Spagna e i viaggi in Italia erano frequenti, per venire a trovare la mia famiglia e per continuare a rapinare perché era l’unica fonte di guadagno che conoscevo. Il 9 ottobre del 2009 torno in Italia per il funerale di mio figlio, sapevo che mi avrebbero arrestato, ma presi questa decisione perché sapevo anche che non sarei stato in grado di vivere con il rimorso di non aver partecipato al suo funerale, il caso vuole che nello stesso periodo una persona che mi era molto vicina e che conoscevo da anni si pente e mi accusa di diverse rapine.

Non riuscivo ad avere ben chiara la mia situazione processuale. I mandati di cattura arrivavano settimanalmente e con essi tutte le date dei relativi processi in parecchie regioni. Iniziai questo calvario, e ad ogni processo gli anni mi venivano dati come se fossero noccioline. L’ultimo processo a cui ho partecipato è stato relativo a una rapina in banca nel cuneese, condanna 11 anni, di cui un anno e mezzo per oltraggio alla corte. Con questa condanna arrivai a trent’anni e lì mi resi conto che la mia vita me l’ero rovinata, così decisi di non presenziare più ai processi e di mandare solo gli avvocati. Le notizie di come andavano le ricevevo tramite il mio difensore: 7, 8, 10 anni e così eccomi arrivare a quota 54 anni.

Credo che ancora oggi non ho la piena consapevolezza di tutti questi anni, a volte mi ritrovo a fare progetti, diversi dal passato, poi mi riprendo e mi chiedo a cosa serve. Ho 37 anni e me ne mancano 24 da scontare.

Sono ristretto nel carcere di Padova dove lavoro nella redazione di Ristretti Orizzonti, questa realtà oggi mi sta permettendo di rivedere, di ricostruire dei passaggi della mia vita che sono stati causa di questo fallimento, è brutto usare questo termine per una vita di un uomo, ma credo che sia l’unico che possa esprimere brutalmente la consapevolezza di avere creduto a qualcosa che era inesistente, alla fine il mio vero nemico sono sempre stato io. Un progetto che abbiamo è quello che ci fa incontrare nel carcere migliaia di studenti ogni anno. In questi incontri ci si mette in una posizione di confronto paritario, ognuno è libero di parlare della sua esperienza. Personalmente è un progetto che mi sta aiutando a trovare la consapevolezza di tante mie lacune che hanno inciso sul mio percorso di vita deviante.

Non avrei mai pensato di arrivare a questa età e ritrovarmi rovinato, se lo sapevo sarei stato uno sciocco a proseguire. Oggi vedo molti giovani detenuti che rispecchiano quello che ero io e comunicare con loro è molto difficile perché hanno la presunzione di dire che loro saranno più furbi, che un amico non lo tradiranno mai, e che avranno la capacità di sistemarsi la vita con un colpo perfetto, questa presunzione è sempre stata la mia ed eccomi qui a fare la cosa più difficile che un uomo possa fare, trovare il coraggio di rimettere in discussione una vita intera.

 

 

 

Quando sono stato portato in carcere, mi sono cadute addosso le mie vecchie condanne

 

di Marsel H.

 

Ero un ragazzo pieno di vita e di sogni, sono cresciuto in una famiglia povera come tantissime altre che uscivano dal regime comunista e ancora non riuscivano a inserirsi nella strada del capitalismo.

Sono albanese, da bambino uno dei miei sogni era di diplomarmi e di diventare un calciatore, e con tanto lavoro e volontà sono riuscito a fare parte persino della squadra dei giovani della mia città, che giocava in serie A. Ma in quel periodo in Albania, la maggior parte dei ragazzi giovani appena poteva scappava da casa per emigrare. Qualcuno, dopo poco tempo, tornava con soldi e una bella macchina, e questo ha cambiato i miei sogni, volevo anche io avere i soldi e la bella macchina, ero stufo di guardare i miei genitori faticare tanto e essere sempre più poveri al punto da non riuscire ad arrivare a fine mese.

Nel 2004, non avevo ancora compiuto 17 anni e decido di oltrepassare il mare e venire in Italia, dove la mia povertà avrebbe avuto fine.

Arrivo in Italia, il primo appoggio l’ho avuto da un mio cugino a Padova, che lavorava onestamente cercando di costruire con tanta fatica la sua vita.

Ma il suo modello di vita non era quello che poteva realizzare in poco tempo il mio sogno di non essere più povero, cosi lascio il lavoro e la sua abitazione e mi metto a girovagare. Conosco dei connazionali che apparentemente facevano la bella vita e mi unisco a loro. Inizio a rubare e a commettere dei piccoli reati, che mi permettono di avere sempre soldi in tasca e una bella macchina. Tornavo a casa in Albania e mi sentivo un leone, la mia famiglia non capiva e non approvava la mia nuova vita ma ero sempre loro figlio, io invece avevo iniziato ad avere rispetto per me stesso, quel rispetto che il buio della povertà non mi aveva permesso di avere.

Con la giovane età, i soldi, le belle auto e le donne mi sembrava di vivere il mio sogno, ho cominciato anche a bere e fare uso di droghe. Faccio questa vita per qualche anno sino al 2011 quando succede il patatrac, vengo arrestato e portato in carcere, e mi piombano addosso le mie vecchie condanne, un cumulo di 25 anni e 4 mesi, e in aggiunta altri due processi da affrontare.

A passare dalla povertà all’illegalità ci è voluto poco, cercando di realizzare il mio sogno mi trovo ora qui dove ho solo incubi.

Oggi ho 25 anni e ho da scontare una condanna più lunga di tutta la mia vita vissuta finora. Molte volte chiudo gli occhi sperando di svegliarmi quando ero un ragazzino e volevo diventare un calciatore, ma per mia sfortuna mi trovo sempre in carcere, ed ho appena iniziato a scontare la pena.

 

 

 

 

Quei permessi non sono un premio

Sono un passo verso il recupero della propria umanità

A evadere da un permesso premio è un numero di detenuti davvero minimo, meno dell’uno per cento, ma si potrebbe dire che sono sempre troppi, e pensare che comunque, se c’è anche un piccolo rischio “mettendo fuori” prima i detenuti, è meglio non correrlo. Se… se… ma forse le cose non stanno esattamente così. Cominciamo allora con una questione che riguarda le parole: non chiamiamoli, per favore, permessi premio, perché quelle prime ore di uscita dal carcere, dopo anni di pena, per tornare di solito nella propria famiglia, sono un momento importante di un percorso graduale per rientrare nella società, senza il quale quella stessa società rischierebbe molto di più. Le statistiche sembrano fredde e lontane, ma noi le vogliamo riempire di umanità, e spiegare che chi sta in galera fino all’ultimo giorno, quando esce è molto più pericoloso di chi viene accompagnato gradualmente alla libertà attraverso quei permessi, che sono la tappa fondamentale di una svolta verso una nuova vita

 

a cura della Redazione

 

 

 

 

“Evasi da un permesso premio”

 

di Clirim Bitri

 

Evasi da un permesso premio: questo era il titolo che per due giorni campeggiava sui giornali, l’argomento centrale dei talk show di prima serata, si voleva trovare e punire i colpevoli, cioè quei giudici che avevano concesso i permessi.

Anche io che sono in carcere, al primo impatto mi sono preoccupato, ho dimenticato dove mi trovo e pensavo ai miei parenti che vivono in Italia, e speravo che NON dovessero incontrare queste persone, questi erano i miei primi pensieri.

Ma questo timore è durato poco, perché io sono “fortunato”, ”fortunato” ad aver trascorso 7 anni da latitante, e so che per chi fugge dalle forze dell’ordine e vive da latitante il primo pensiero è di scappare, andare lontano, e cosi io sapevo che i miei parenti erano al sicuro da questi evasi. Dopo qualche giorno gli evasi furono arrestati e per tutte le persone per bene la paura è passata.

Se è tornata la pace per chi è fuori, i problemi per chi è in carcere sono appena iniziati. Anche prima di queste evasioni, poter accedere ad un permesso premio era difficile, oggi, dopo tutta quella propaganda che si è fatta contro chi aveva solo applicato la legge, è certo che per un bel po’ di tempo pochissimi usufruiranno di questo beneficio, e alcuni di quelli che in permesso uscivano e speravano di festeggiare il Natale a casa, il Natale l’hanno “festeggiato” in carcere aspettando il benedetto permesso che non è arrivato. Anche io, se fossi il magistrato di Sorveglianza, non vorrei mai subire quello che hanno subito i magistrati che hanno concesso ili permesso ai due evasi, anche se hanno fatto il pro­prio lavoro.

Poi, mi ha impressionato vedere che tutti i mass media hanno descritto uno degli evasi come il serial killer del 1981. Vorrei chiedervi; non avete il dubbio che una persona dopo più di 30 anni, di cui molti di manicomio criminale, non è quello che era 30 anni fa? L’istinto di evadere dalle situazioni difficili esiste in tutte le persone, anche in quelle che gridavano allo scandalo, mi riferisco a tutte quel­le persone che chiedevano ai marò italiani di non tornare in India, anche quella si poteva chiamare incitazione ad evadere o NO?

Evadono meno dell’uno per cento dei detenuti che usufruiscono di permessi premio, più del 99% torna in carcere rispettando le regole, anche se molti vivono in condizioni disumane non si danno alla fuga, ma cercano di rafforzare gli affetti familiari e reinserirsi nella società. Con questi dati presentati dal ministro Cancellieri al Parlamento, mi chiedo: perché si è fatta tutta quella propaganda?

In Albania, all’entrata di un istituto di pena è scritto: “Nel trattamento dei detenuti bisogna accentuare non la loro esclusione dalla società, ma il loro essere parte di essa”.

Mi chiedo se non è arrivato il tempo anche in Italia di cambiare punto di vista: di non vedere i detenuti come persone da REINSERIRE nella società, ma di PERSONE della SOCIETÀ che hanno commesso dei reati, e che sono parte di Essa anche mentre scontano la pena.

 

 

 

Non vale la pena scappare tutta la vita

 

di Pjerin Kola

 

Il permesso è importante per tanti motivi, perché ti dà la possibilità di ricominciare da zero, di rialzarti, soprattutto se ti è stata data qualche opportunità durante la detenzione. Quando sono stato condannato, undici anni fa, il mio primo pensiero è stato: “Mi comporto bene per dieci anni e poi al primo permesso che mi danno scappo in Albania”. Dico questo, con sincerità, perché all’inizio la pensavo così, però è passato del tempo e io ho imparato tante cose, e la prima è che non potevo fare una cosa del genere. Prima di tutto per la fiducia che mi hanno dato tante persone qui in carcere, che magari hanno creduto in me. Poi uno nella vita deve anche decidere se se la sente di cambiare o vuole rimanere sempre quello che era prima, la sfida è proprio questa.

Io ogni volta che esco in permesso l’ultima telefonata la faccio a mia madre, prima di rientrare, ed è lei che mi dice ogni volta: “Torna dentro, non fare sciocchezze”, e io mi metto a ridere, ma so che è una cosa seria. Dico questo perché io non ho una famiglia in Italia, i miei genitori vivono in Albania e sono anziani. È anche per loro che io penso che non vale la pena scappare tutta la vita, a parte che non conviene proprio a noi stessi fare una cosa del genere.

Guardando il telegiornale che parlava di due che sono scappati da un permesso e poi li hanno presi subito dopo, ho pensato che a quei due il “tradimento” del permesso premio gli costerà caro. Ma anche se fossi sicuro di “farla franca”, è comunque sbagliato, dico io. A me è stata data la possibilità di lavorare durante la carcerazione e questo mi ha permesso di aiutare la mia famiglia economicamente, e ho imparato un mestiere che può essere che mi servirà un domani, ma il più importante è quello che ho imparato partecipando alla redazione di Ristretti Orizzonti e sto imparando negli incontri che noi facciamo con gli studenti, sia dentro, che fuori dal carcere per quelli che possono usufruire dei permessi.

Confrontandomi con tanti ragazzi ho imparato una cosa che sembra elementare, ma è importantissima per noi che spesso abbiamo commesso reati proprio per non aver pensato alle conseguenze: prima di agire contare fino a dieci, perché è troppo importante sia nella vita di detenzione sia nella vita una volta fuori, e ti aiuta a cercare di non buttare all’aria quello che hai costruito in tutti questi anni.

 

 

 

Ora ci chiuderanno di nuovo... ci toglieranno ancora la speranza

 

di Marco Libietti

 

Il Consiglio dei ministri vara un pacchetto di misure come risposta iniziale (almeno si spera che siano le prime di una serie di altre misure) al sovraffollamento delle carceri... e neppure a farlo apposta nel giro di 48 ore si verificano due evasioni “eccellenti”… un serial killer psicotico (così si dice) e un collaboratore di giustizia... la storia si chiude in pochi giorni con l’arresto dei due fuggiaschi.

Questi sono i fatti... poi ci sono i risvolti e le ripercussioni che potrebbe avere tutto questo sul sentimento di chi deve decidere se e come applicare misure alternative al carcere e concedere permessi e a chi. Ovviamente a nessuno piace l’idea di sentirsi “sotto tiro” come è accaduto al direttore del carcere di Marassi e, probabilmente, accadrà ai magistrati di queste vicende, ma il punto è che sarebbe davvero un delitto capitale interrompere o fare qualche passo indietro sulla strada della umanizzazione delle carceri, faticosamente intrapresa anche da una buona parte della classe politica con in testa il Capo dello Stato.

Perché dico questo? più di qualcuno penserà che, essendo io “di parte”, sia giocoforza questo mio pensiero, ma mi permetto, proprio perché so cosa vuol dire “vivere” dentro, di scrivere così in quanto ho visto e vissuto di persona la differenza enorme che fa su un detenuto l’essere immesso anche gradualmente in un percorso che porti a misure alternative, e l’essere invece tenuto dentro a “marcire” fino all’ultimo giorno della pena.

Sento spesso dire che un percorso rieducativo si può fare anche tutto all’interno di una struttura penitenziaria... la ritengo una delle idee più deleterie che possano esserci per la società. Sì parlo proprio della società come primo soggetto e non dei detenuti, perché il vero grande vantaggio di una misura alternativa va a ricadere da subito proprio sulla società.

A questo proposito di dati ne sono stati snocciolati tanti a favore di questa tesi e, ultimamente, anche il ministro e i vari telegiornali hanno fatto sapere che i numeri parlano di meno dell’1 % di mancati rientri da permessi premio, ed è ovvio se ci si pensa. A parte qualche caso estremo (come quelli appena verificatisi) chi può pensare che un detenuto, dopo anni di carcere e venti e più ore al giorno passate in una cella di pochi metri quadrati sia così folle da giocarsi quel poco di libertà (controllata) che ha faticosamente guadagnato con anni di ravvedimento e di sacrifici?

Alle voci solite delle persone che hanno cercato di “cavalcare” subito queste vicende per alzare scudi e barriere contro quella, che è l’unica via possibile del reinserimento nella società, vorrei chiedere se sono così sicure che far pagare l’errore di pochi a tutti sia la strada corretta.

La grande paura, il primo pensiero che c’è stato nella testa di tutti quelli dentro che aspettano con ansia il primo permesso, di quelli che già usufruiscono di permessi o misure alternative e anche di quelli fuori che hanno vissuto tale esperienza è stato, ne sono certo: Oddio!... tutto inutile... ora ci chiuderanno di nuovo... ci toglieranno ancora la speranza... Ma questo non deve accadere, perché la stragrande maggioranza delle persone che sono in carcere è diversa, è cambiata e non vede l’ora di poter ripartire da zero nella propria nuova vita, ha già vissuto abbastanza da braccato e da rinchiuso per colpe proprie, che ha pagato e sta pagando cercando di ricostruire pazientemente la propria vita.

Fare anche solo un passo indie­tro sarebbe come aggiungere una nuova condanna, le misure alternative sono la vera preparazione al rientro nella società, perché dopo anni di galera non serve a niente l’accanimento fine a se stesso su chi sta cercando in tutti i modi di dimostrare che è consapevole di aver sbagliato e vuole dare una svolta al proprio futuro: non si deve togliere questa speranza, non la si può far crollare o cancellare solo perché è di moda dirlo o farlo...

Penso che, in questo periodo in special modo, ci sia la necessità da parte di tutti di creare solidarietà ed unione, la crisi che c’è fuori dentro in galera si sta riper­cuotendo in modo drammatico, a volte oltre la sopportazione umana, è difficile anche cercare di spiegare la povertà e il disagio che ci sono in carcere, non lo si augura a nessuno.

Togliere la speranza è come uccidere, forse addirittura peggio, anche perché “dentro” questa flebile speranza te la sudi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Ed è così che arrivi a capire quanto di sbagliato hai fatto, quanto male hai fatto agli altri e a te stesso, e aspetti con ansia il momento della prima uscita per abbracciare in modo normale i tuoi cari, per vedere come preparare una nuova vita senza più zone oscure e rico­minciare a camminare alla luce del sole senza più avere e provocare paura: questo è ciò che c’è dentro un permesso o una misura alternativa, questo è il vero tesoro che la società non può e non deve gettare alle ortiche, altrimenti la pena sarà sempre inutile e insensata.