Le accoppiate maledette: pregiudizio e recidiva, e poi carcere e sofferenza

 

di Cristina Buiatti

 

Ero uscita dal carcere nel 2007, dopo circa sei anni passati dentro e grazie all’indulto che mi aveva ridotto parte della condanna (sempre cospicua, quando si è imputati per traffico di stupefacenti), avevo con forza espresso il proposito che sarei “andata in pensione”, stop a questo tempo rubato con lunghe detenzioni, lontano da casa, dai familiari, amici, privandoci del piacere delle piccole cose che la vita offre. Lo dissi anche al Magistrato, un uomo aperto e umano come pochi. Mi aveva dato quindici giorni di permesso premio a casa, gliene fui grata, non tradendo la sua fiducia.

Come avevo deciso, cercavo di vivere una vita serena, ripulendo casa, e sistemando documenti e burocrazie varie, un cammino tranquillo davvero! Accoglievo i parenti, facevo le cure fisiatriche, e mi occupavo di altre incombenze. Ma il mio “tallone d’Achille” era esposto e sotto tiro... l’orribile accoppiata si manifestava.

Un giorno, mi arrivò a casa l’anticrimine, per una rapina messa in atto ore prima. “No, sono sicura che vado assolta, è assurdo!”. Ma… l’accoppiata maledetta si palesò. Il mio legale, la mia famiglia, gli amici, sapevano che non era nelle mie corde quel reato, però l’accoppiata vinse, ebbi la medesima condanna di colui che l’aveva commessa davvero, la rapina, dai quotidiani appresi luogo e modi: semplicemente lui fece anche il mio nome. Da quel momento è vacillata tutta la mia serenità, non c’era verso di scacciare dal mio percorso situazioni che mi allacciassero all’illecito, finché sono arrivata a prendere sei anni e dieci mesi, per traffico, con tante delazioni e... la potenza dell’accoppiata maledetta.

La riporto come cronaca, la storia della mia condanna, poiché, personalmente, è cosa passata, il mio sguardo è rivolto, oggi, al presente, e al futuro della mia terza giovinezza, come dico spesso. Ma che mi crediate o no, un pensiero lo dedico a quanto l’accoppiata maledetta del pregiudizio e della recidiva possa pesare nella vita di una persona: se hai dei precedenti penali, e se vicino a te succede qualcosa di poco chiaro, qualsiasi sia il tuo comportamento tu sarai comunque sempre la prima sospettata.

 

Già dal 2008, sapevo che alcuni procedimenti si sarebbero conclusi, conducendomi in carcere dopo la sentenza definitiva.

 

Ne avevo discusso con le persone care, mio figlio mi aveva chiesto come ritenessi di agire, se pensavo di consegnarmi in un carcere dove trovare un ambiente più favorevole e costruttivo, ma io non intendevo né rendermi irreperibile, né precorrere quel momento, e ho atteso. Quando hanno suonato alla porta, alle otto del mattino, il primo approdo fu il piccolo Circondariale, ubicato vicino a dove risiedo, celle con due castelli (prima c’era anche la terza branda sopra) e il quinto materasso per terra, metri 4 per 3. In sintesi, i classici carceri chiusi, più idonei per im­putati o pene brevi, non certo per pene definitive più consistenti. Ma io credo che un cammino positivo deve nascere dal singolo, dalla sua volontà e dal suo impegno, perciò anche in quel posto ho serenamente lottato per due anni, e mi piace dire che ho anche vinto inaspettatamente un primo premio letterario di un concorso nazionale, perché stranamente riuscivo a dar vita, nonostante il carcere, a delle forme creative!

Mi è stato, in seguito, notificato, il cumulo parziale, fine pena 2017.

Il direttore, molto cortesemente, pur sapendo che la mia condanna era superiore a quelle previste per un Circondariale, per lo meno prima di trasferirmi mi chiese se fossi d’accordo di venire qui, a Venezia. La mia risposta fu affermativa, c’ero già passata alla Giudecca verso la fine del 2000, e poi conoscevo le attività, lavorative e di studio, che offre, oltre ai corsi su temi sempre interessanti. Penso a chi trascorre la detenzione, chiuso in cella per venti ore al giorno, a volte anche senza la possibilità di fare quotidianamente la doccia, con un vitto scarso e in condizioni difficili da sopportare. Qui invece, bisogna constatare quanto anche un luogo di sofferenza possa mostrare risvolti che offrono effettive possibilità di riscatto personale, e opportunità di reinserimento. Ad esempio, dopo 35 anni che non frequentavo più la scuola, ho superato due anni di scuola superiore che, per altro, vorrei proseguire quando uscirò dal carcere, iscrivendomi alle scuole serali nella mia città. Anche il corso di cosmetica biologica mi ha interessato, e ho imparato molto, e poi c’è stato il teatro, che ha permesso a sette di noi donne detenute di uscire, portando la nostra rappresentazione a Padova, sole, accompagnate dal nostro regista e insegnante Michalis.

Ora però, queste varie opportunità, anche per lavorare, e guadagnare qualcosa, senza sperperare denaro, che preferirei piuttosto donare a mio figlio, mi stanno sfuggendo, scivolano come sabbia tra le mani. La mia attitudine verso lo studio, l’interesse ad apprendere, conoscere, migliorare, tenere allenata la mente, frequentando le lezioni di inglese, che “mastico” bene, di matematica, italiano e storia, non mi aiutano più, percepisco la mia condizione come sempre più pesante.

 

Una nuova accoppiata maledetta: carcere e sofferenza

 

Ma è la mia mente, che sta sopportando un altro peso, il dolore costante alla colonna vertebrale, con una patologia seria diagnosticata dal perito legale, a cui mi ero rivolta già subito dopo l’arresto, e confermata dal dirigente sanitario qui. Il dolore è persistente, però io lotto fortemente affinché non prevalga il buio che, ultimamente, oscura la naturale luminosità del mio carattere, che di solito è attivo ed intraprendente. Vivo un senso di frustrazione, per l’impossibilità di beneficiare di uno dei tanti lavori che la Giudecca offre, e perché la concentrazione che avevo per dedicarmi alle preziose attività dello studio e della scrittura s’è annebbiata. In più, la patologia in oggetto progredisce e non è curabile in carcere, o in un Centro clinico, servirebbero fisioterapia e cure termali, quella sarebbe la “salvezza”. Da molti anni, fuori, da libera, mi curavo, evitando di riempirmi di farmaci antidolorifici, e ringraziando la mia fisicità da sportiva: tanto trekking, chilometri su chilometri macinati per stare meglio. Ma in una cella, non c’è la possibilità di vivere in modo sano, c’è sempre qualcosa da fare, sforzi, piegamenti per pulire, ed è una sofferenza che non auguro davvero a nessuno.

In questa detenzione, ho toccato il fondo del dolore, arrivando anche a un difficile ricovero in ospedale. Carcere uguale luogo di sofferenza per antonomasia, e poi ospedale, e vista sul cimitero. Sorridevo, contemplando tale intreccio, e poi, la piccola stanza tre metri per tre, ovviamente con due piantoni, aveva, sul soffitto, delle strisce azzurre, due orizzontali, e due verticali, l’ho chiamata “Stanza Psycho”, azzeccato, credo, per il mio stato d’animo. Lo dico sorridendo, ma poco c’era da sorridere, con lo spossamento fisico da 40 di febbre per giorni e giorni. Io però sapevo che ne sarei uscita, che avrei trovato la forza per reagire.

Personalmente spero nella de­tenzione domiciliare per curarmi, frenando questo scempio alle mie vertebre. Ma devo considerare un fine pena non breve, le burocrazie per ogni richiesta alla magistratura, le attese snervanti, e sperare che mi si conceda di tornare a casa per curarmi, poiché, senza uno stato di salute decente, lavorare è utopia.

Mi manca sempre di più il sorriso, che prima accompagnava spesso la mia vita, e ciò non voglio che accada. Molto mi aiuta la filosofia buddista a cui sono legata, che insegna ad alzarsi da soli, e lottare per una meta.

Vincerò sull’accoppiata maledetta, per riprendere un percorso sereno a casa, con le cure adeguate, e la vicinanza delle persone care, ma per ora il dolore fisico dimi­nuisce ogni potenzialità, benché continui a guardare in positivo, con immensa fatica, imponendolo a me stessa!

 

 

 

Scrivere per me è un “saper vivere in qualsiasi condizione”

In carcere è con la scrittura che tengo spalancata la porta della libertà che ho nel foglio

 

di Venere O.

 

DETENUTA. Ho fatto quello che ho fatto ed è succes­so quello che è successo. Il rischio c’era, lo sapevo, e così vedo cambiato il corso della mia vita. Sono diventata una di quelli che le forze dell’ordine fermano e detengono in prigione. Solo io so che esperienza è per me quella del carcere. Ma io so anche che la vita c’è fuori, ma c’è pure dentro: io anche in galera continuo ad esistere, a vedere, ascoltare, pensare in modo umano e tutto personale. La condizione di reclusa mi fa trascorrere giornate diverse da quelle di prima, ma io sono e voglio restare in piena salute e il mio estro si dispiega nella ricerca del senso e nel racconto della scoperta. Trovarsi nel chiuso, privi di tante cose, come capita a quelli che infrangono la legge, è come essere con­dannati alla pena del vivere nel vuoto di un deserto affollato. Ma per me anche in questo deserto è importante tenere desto il mio impulso creativo. Intendo la mia predisposizione a scrivere, che è un rapporto con carta e penna potentissimo, colmo di significati, di immagini, di pensieri fantastici. È una sfida continua per battere, torturare, distruggere la noia. Una disciplina dell’essere e del lavorare con la testa per ottenere quello che ottengo: me di nuovo, la mia vita nelle mie mani, prima di tutto, ma con la contentezza e l’emozione che nascono dalla scrittura d’invenzione.

Scrivere è per me un incessante destreggiarmi tra cose, fatti, vincoli, privazioni, in modo che tutto ritorna possibile, e poi è un saper vivere in qualsiasi condizione, perché tengo spalancata la porta della libertà che ho nel foglio. E ho in testa un’altra immagine. Scrivendo vado a spasso a dispetto dei limiti della galera, e anzi li trasformo nel recinto di un campo che è una specie di ring in cui l’avversario è proprio la noia: lo blocco fin da subito, lo colpisco e l’anniento con colpi diretti, con inversioni di gioco, con rovesciamenti di fronte e arrivo fino a qui. E qui dico: «Sono di ottimo umore». Ma c’è anche dell’altro, io possiedo una buona dose d’umorismo e ironia. Mi diverto. Guardo alle cose dal lato comico, stacco il lato comico da tutto il resto e lo trasformo in rappresentazione d’arte. Così a volte, osservo e rielaboro senza carta e penna e, come in uno specchio, mi rifletto, e rifletto sulla mia vita. Ma non sono strangolata dal cappio della condizione di detenzione, il cappio del fine pena. No, perché ogni giorno parte da solo e porta con sé la sua dose di piccole differenze e di mie reazioni a quelle differenze, fino a provocare in me la formazione dì nuovi modi di risposta e nuovi parametri di giu­dizio. Tutto quello che ho scritto è una testimonianza autentica della mia vita nonostante la galera, una vita prodotta da esperienze e stimoli personali alla cui origine sta l’educazione che ho ricevuto. Così, ringraziando ancora mia madre, sono tuttora felice di vivere.

C’è anche una cosa che all’inizio mi creava qualche problema di sincerità e che invece ora mi sento di svelare. Mi riferisco al fatto che non mi riesce facile convivere con persone che sono ‘così tante’ e così ‘nessuna’, e che cioè sfuggono alla possibile reciprocità di rapporti franchi, rispettosi e insieme personali. Mi sembra, insomma, che oggi in carcere privacy e socialità siano esigenze difficili da conciliare. Volendo evitare l’intoppo degli inutili lamenti, ho scelto allora di riservare la mia vita intima per me e di aprirmi a una vita sociale con il lavoro dello scrivere.

Quello che mi guida in queste difficili circostanze è la ricerca della libertà interiore.