Come può un ergastolano raggiungere questa familiarità con la parola “morte”?

Sfogliate e leggete le pagine di questo libro, imparate ad ascoltare nel silenzio di una prigione le urla di un uomo che chiede solo un diritto, “LA VITA”

 

recensione di Lorenzo Sciacca

 

Quante volte abbiamo pro­nunciato la frase “Meglio morto!”, ecco che oggi dovrò ripromettermi di non citare più questo luogo comune, almeno per rispetto verso chi la morte la vive davvero ogni giorno.

Il libro di Carmelo Musumeci è un urlo alla società che tende a vivere nell’indifferenza, per richiamare l’attenzione sul fatto che quest’uo­mo esiste, e leggere le sue parole porterà al lettore la consapevolez­za che dietro a muri di cemento e sbarre può morire un uomo diver­so da quello del reato.

Come può un uomo raggiungere questa familiarità con la parola “morte”? Vivendola giornalmente. Ogni singolo momento della gior­nata. Ogni singolo secondo che ti accompagna ad affrontare l’oscurità di una notte fatta di incertezze e paure, ma anche di tanto corag­gio, amore e speranza.

Carmelo è un ergastolano ostativo da più di ventitré anni. Ventitré anni passati a domare quella belva che lui descrive nei suoi racconti e lasciare, solo di essa, l’amore che qualsiasi essere umano prova, prigioniero e non. Un urlo che si in­nalza nella spettralità di un lungo corridoio che tanto assomiglia a un cimitero vivente.

“Morire o vivere per morire?”: leggendo questo libro sarà questo il grande dilemma cha sarai costretto ad affrontare assieme a lui. Rag­giungerai la consapevolezza che le persone muoiono ancora prima di cadere nel sonno eterno, quel sonno al quale a volte il cuore ti induce ad andare incontro, per abbracciare la fine di una sofferenza troppo pesante.

Carmelo, grande ascoltatore e comunicatore, ti farà sentire le sue voci, quella del cuore e quella della ragione, accostandole a racconti e poesie, ma con un unico grido ossessivo che proclama il suo “diritto alla vita”.

Forse questo tanto atteso cambio di mentalità da parte di una socie­tà che non vuole vedere la sofferenza di pene insensate che non finiscono mai lui non riuscirà ne­anche a viverlo, ma continua a urlare come quella sua scultura che si tiene vicino nella copertina del suo libro. Urlerà sempre per tutti i suoi compagni. Urlerà per tutta la società che non sa e che vuole vivere nell’indifferenza.

L’urlo di un uomo ombra vi donerà la conoscenza delle parole di amore, coraggio, conforto che un figlio può dare a un padre che vive con un’unica prospettiva, “la morte”. Vi donerà la voglia di amare, di apprezzare ogni singolo giorno di vita. Diffonderà nel vostro cuore il coraggio di combattere al fianco di Carmelo Musumeci una battaglia che è quella contro il fine pena mai.

Non abbiate paura di quest’ombra che tanto assomiglia ad uno spettro. Sfogliate e leggete le pagine di questo libro, imparate ad ascoltare nel silenzio di una prigione le urla di un uomo che chiede solo un diritto, “LA VITA”.-

 

 

Salviamo i ripetenti

 

Eraldo Affinati parte dalla sua esperienza nella scuola per scrivere un elogio degli studenti “cattivi”, quelli “che crescono nel vuoto, che non hanno mai avuto un nemico contro il quale combattere, che non si sono formati, che non sono cresciuti in modo sano, ma sempre in modo strappato”

 

a cura della Redazione

 

Eraldo Affinati è uno scrittore particolare, che quando racconta parte sempre dalla sua esperienza di vita perché per lui “solo le vere esperienze possono produrre vita e scrittura”. Abbiamo parlato con lui del suo ultimo libro, “Elogio del ripetente” , che ha al centro gli studenti che più mettono in crisi i loro insegnanti, ma che rappresentano anche una sfida per tanti di loro.

 

Perché hai scelto come pro­tagonista del tuo libro lo studente “cattivo”, il più disastrato, quello in cui probabilmente si riconosceranno tanti di quelli che poi sono finiti in carcere?

Io ho sempre fatto l’insegnante e lo scrittore insieme, ormai insegno da tantissimi anni in un istituto professionale, il Carlo Cattaneo di Roma, posto all’interno della Città dei ragazzi, questa grande comunità educativa che fu fondata dopo la seconda guerra mondiale da un sacerdote irlandese, che pensò di organizzare, per gli orfani italiani a quel tempo, una città governata da loro. Ancora oggi c’è questa Città dei ragazzi, però sono presenti tanti ragazzi stranieri. I miei studenti, perché io sono anche un insegnante di stato che sta all’interno di questa struttura, gli studenti sono sia i ragazzi stranieri, che arrivano in Italia e devono imparare l’Italiano, però ci sono anche molti italiani che abitano le borgate limitrofe alla Città dei ragazzi e sono loro che mi hanno in qualche modo suggerito questo libro. “Elogio del ripetente” è un libro “di campo”, nato da un’esperienza concreta, diretta dell’insegnamento di frontiera, quale è quello di chi come me insegna lettere a ragazzi che sono sostanzialmente sul punto di abbandonare la scuola. Perché molti dei miei studenti sono i bocciati del liceo che magari sono stati espulsi anche dall’istituto tecnico, con famiglie difficili, con situazioni ambientali a rischio, i quali si iscrivono all’istituto Cattaneo, all’istituto professionale di stato per l’industria e l’artigianato come se fosse l’ultima spiaggia, perché se loro falliscono lì praticamente non è che cambiano scuola dopo, a quel punto abbandonano la scuola e vanno ad ingrossare tutta quella dispersione scolastica che ben conosciamo.

Ho voluto dedicare al ripetente il mio libro, perché io attraverso il ripetente, bocciato, indisciplinato, il ribelle, cerco di capire anche lo sfascio del nostro Paese. Il nostro Paese sta attraversando una crisi che non è soltanto economica, perché molti parlano di crisi del bilancio, dello spread tutto da ripianare, ma quando avremo risolto il problema economico resterà una crisi spirituale, la crisi spirituale che stiamo vivendo noi profondamente e che io ho decifrato negli occhi smarriti di Romoletto, cosi ho chiamato il mio studente. Questo ragazzo che magari è cresciuto allo sbando, con genitori separati, esperienze difficili, fallimenti esistenziali, che si trova sotto scacco. Perché è sotto scacco? Perché lui è sedotto da una parte dalle immagini del nostro mondo, che sono le immagini della bellezza, della ricchezza, della salute, e quando entra in classe dovrebbe essere d’improvviso ricondotto ai valori della concentrazione, del rigore, della serietà. E come è possibile fare questo per noi insegnanti che lottiamo a mani nude in una classe dove quando entri i ragazzi escono distrutti, stravolti e tu devi riuscire a tenerli fermi a questo “angolo etico” e sei l’unico in fondo a farlo?

Questo è un libro anche sull’Italia di oggi, sulla famiglia, sui valori che mancano, sullo smarrimento di questi studenti che crescono nel vuoto molto spesso, che non hanno mai avuto un nemico contro il quale combattere, che non si sono formati, che non sono cresciuti in modo sano, ma sempre in modo “strappato”, e quando arrivano in classe, questi ragazzi, sono paradossalmente quelli che ti danno le soddisfazioni maggiori. Ma come è possibile che un ripetente, un bocciato, ti possa dare, come dire, la felicità…? Questo è possibile perché lui parte da zero, per cui se tu riesci a fargli fare almeno un piccolo passo in avanti, almeno un piccolo movimento, se tu riesci a conquistare la sua fiducia, se tu riesci a metterti in gioco, a esporti, a rischiare anche, questo ragazzo ti darà tantissimo e in forme però inaspettate, in forme nuove. Ho voluto raccontare appunto queste storie di questi ragazzi di oggi, però anche le storie di molti insegnanti, perché questo libro finisce con una biografia che però non è una biografia di titoli di libri, ma è una biografia di nomi, di professori, di professoresse, bibliotecari, persone che ho incontrato andando in giro per l’Italia a presentare i miei libri, i quali mi hanno fatto capire che esiste un’Italia molto più bella di quella che noi vedia­mo tutti i giorni in televisione, un’Italia pronta a mettersi in gioco, a sporcarsi le mani, insegnanti che si inventano di tutto pur di coinvolgere i loro studenti, che veramente stanno in trincea tutti i giorni, ed è questa l’Italia a cui ho voluto attribuire ossequio alla fine del libro.

 

Che cosa significa allora boccia­re al giorno d’oggi, e che messaggio si manda quando si boccia, ha ancora senso se mai ce l’ha avuto?

Intanto bisogna prima capire di chi stiamo parlando, perché è chiaro che se noi parlassimo di un ingegnere o di un medico, dovremmo fare altri discorsi, perché se l’ingegnere sbaglia i calcoli il ponte cade, se un medico sbaglia la diagnosi un malato muore, qui non stiamo parlando di questo tipo di competenze, noi parliamo di un tredicenne, di un quattordicenne, di un quindicenne abbandonato sostanzialmente, che si trova in una fase di crescita. E noi formiamo dei cittadini, quindi stiamo facendo una operazione complicatissima, che da una parte è quella di accompagnare alla maggiore età un ragazzo, dall’altra è quella di consegnare la tradizione del passato, cioè prenderla da dietro alle nostre spalle e consegnarla alle giovani generazioni: un lavoro di una intensità, di una potenza, di una importanza cruciale perché significa riannodare la tradizione, fare i conti con il passato. Ecco, rispetto a questo cimento che è enorme, bocciare serve a poco, se tu non ti rendi conto che il sei dato a Mario è diverso dal sei dato a Giorgio, perché? Perché Mario è cresciuto in una famiglia piena di libri, con la mamma che gli raccontava le favole e quindi il suo sei, va bene, glielo abbiamo dato ma in fondo poteva anche essere un cinque, perché non è che ha fatto tanto, ma l’altro sei del suo amico cresciuto invece nella borgata in un muretto senza punti di riferimento, con esperienze difficili, forse non era sei era otto, era nove. Al­lora ecco che noi dobbiamo capire che non tutti partono dalla stessa posizione.

Questo grande mito novecentesco dell’uguaglianza delle posizioni di partenza non si è realizzato, perché c’è chi parte 10 metri avanti e c’è chi parte 10 metri indietro, allora noi dobbiamo valutare non il traguardo unico valido per tutti, ma il movimento che c’è stato, se tu ti sei spostato oppure no. Ecco le ragioni per cui questi ragazzi, questi miei studenti riescono a sorprendermi.

Vi voglio raccontare l’episodio con cui inizio questo libro, perché in questo libro racconto chi è il mio ripetente, però subito dopo c’è una lettera pubblica che io indirizzo a Giulio. Chi era Giulio? Giulio era un ragazzo che, quando entrava in classe, i professori uscivano perché non riuscivano a stare insieme a lui, è uno strafottente che fumava in classe, che provocava, un ragazzo che era stato bocciato in varie scuole, era arrivato da noi e sembrava veramente all’estremo. Come parlare con lui? Come guardarlo negli occhi? Era pronto per entrare in una zona pericolosa se avesse lasciato la scuola, mi sono voluto giocare la carta veramente tutta insieme, l’ho preso un giorno, l’ho portato fuori dall’aula, perché noi con i ragazzi abbiamo degli spazi che ci consentono di trovare dei rapporti più forti al di fuori dell’aula, l’ho guardato intanto negli occhi per prima cosa, perché forse nessuno lo aveva mai fatto prima, forse nessun adulto lo aveva veramente guardato negli occhi, e gli ho detto: “Intanto ti dico chi sono, io mi chiamo Eraldo Affinati, ho fondato con mia moglie una scuola di Italiano per stranieri, che si chiama Penny Wirton. È una scuola che io ho fondato perché penso che questi ragazzi che vengono da tutto il mondo, Ivan, Karim, Mohamed, hanno bisogno di imparare la lingua e tu forse potresti aiutarmi, come potresti venire tu a fare insieme a me il professore. Mi ha guardato negli occhi come se mi chiedesse: Come io? Tu fai a me questa richiesta, proprio io che sono stato bocciato, tradito, vilipeso, offeso da tutti gli adulti che ho incontrato? E poi mi ha detto: “Non ti posso dare una risposta subito, te la darò domani”. Però aveva una luce negli occhi, una luce che io avevo visto. Il giorno dopo è tornato e ha detto: vengo!

Allora tutti i martedì della settimana, dalle 15 alle 17, per un anno intero, questo ragazzo, Giulio, ripe­tente, è venuto a fare il volontario alla Penny Wirton, io me lo sono vi­sto lì seduto accanto a Mohamed, a Ivan, a Karim ad insegnargli il verbo essere e avere, a controllare e verificare se stava sbagliando, come pronunciava. Lui si è messo lì ed ha fatto questo lavoro, l’ha fatto per un anno, senza voti, senza riscontri, senza critici scolastici, senza niente, è stato uno spettacolo per me vedere questo. Ecco per­ché gli ho indirizzato questa lettera pubblica, ho cambiato solo il nome, però lui si sarà riconosciuto in questo ritratto perché ho rievocato anche i nostri primi incontri, e quindi ho capito in quel momento che il ripetente in fondo è una persona speciale, che non si riconosce nel sistema di valutazione che lo ha condannato, te lo mette in crisi quel sistema di valutazione, te lo contesta, te lo ribalta, ti fa capire che esistono delle eccellenze umane, non scolastiche, umane. E poi chi sono i beniamini, dico io, di Eraldo Affinati alla fine dell’elogio del ripetente? Non sono quelli che prendono otto in matematica o dieci in italiano, ma sono altri tipi, dei tipi particolari che mostrano delle competenze che poi alla fine io non riesco a certificare in pagella, perché non c’è la materia dove metto il voto.

Ad esempio, Alessio ad un certo punto durante il compito in classe si alza ed esce. “Dove vai Alessio?”, gli chiedo. “Vado a richiamare il mio amico Giorgio perché sta alla macchinetta e di conseguenza rischia di non fare il compito e dopo tu gli dai non classificato”. Questo ragazzo è uno che ha tenuto pre­sente il bene comune, lui non l’ha fatto per sé, l’ha fatto per il bene comune della classe. Oppure una volta che scomparvero degli occhiali da sole, quindi una specie di furto in classe: chi è stato, chi non è stato, che facciamo? Quando il gioco cominciava a farsi troppo serio questi occhiali da sole vengono mostrati da un altro, da un altro ragazzo che capisce che il gioco stava degenerando e che lui voleva fermarlo e quindi consegna la refurtiva senza far vedere chi è stato per mettere pace, per fare la pace dopo la guerra. Ecco queste eccellenze umane mi fanno capire che non soltanto i deboli hanno bisogno di forti, ma anche i forti hanno bisogno dei deboli, imparano qualcosa di impalpabile, di insondabile, di indecifrabile, che è la qualità del rapporto umano, è questo quello che imparano. Allora per far crescere questi quin­dicenni, per farli diventare adulti, certo bisogna insegnargli le Guerre Puniche e le quattro operazioni, ma forse bisogna anche insegnargli queste cose qui, che sono loro che in fondo fanno capire a noi adulti.

 

Ma qual è oggi una possibile definizione dell’insegnante, chi va ad insegnare insegna solo quello che sa, insegna anche quello che è?

Io ad un certo punto, proprio facendomi queste domande a cui è difficile rispondere, ho coniato delle definizioni dell’insegnante: l’insegnante, lo specialista dell’avventura interiore, il mazziere della giovinezza, l’artigiano del tempo, e credo che in queste tre definizioni siano comprese alcune dimensioni. Intanto il tempo, la memoria del passato che lui deve recuperare per riuscire a trasmetterla ai ragazzi, ma la memoria del suo passato, della sua storia, la storia dell’insegnante. Se tu insegnante non sei lucido, equilibrato e stabile, non riuscirai mai a metterti in gioco con questi ragazzi, loro immediatamente capiranno la tua crisi, la tua instabilità e quindi immediatamente ti condizioneranno, a quel punto tu non riuscirai ad esprimerti.

Quindi l’insegnante deve innanzi tutto fare i conti con se stesso e poi dopo troverà i suoi ferri del mestiere, che potranno essere diversi gli uni dagli altri, però la prima cosa è fare i conti con se stesso, e io ho cercato di farli con me stesso, ho cercato di capire da dove venivo e perché mi sono appassionato sin dall’inizio a questi studenti. Io ne ho parlato nei miei libri, perché sono scrittore autobiografico, non ho mai inventato niente, ogni mio libro nasce da un’esperienza concreta, io cito sempre due miei libri per capire la storia della mia fami­glia: Campo del sangue e La città dei ragazzi. Campo del sangue è la storia di mia madre che scappò da un treno che l’avrebbe condotta in un campo di concentramento tedesco durante la seconda guerra mondiale, mio nonno materno fu fucilato dai nazisti, partigiano romagnolo della 36a Brigata Garibaldi.

Questa ragazzina di 17 anni che scappa da questo treno, si ritrova da sola, attraversa l’Italia, incontra mio padre, mio padre anch’egli orfano, anch’egli figlio illegittimo, anch’egli abbandonato dai suoi genitori, sostanzialmente costretto a vivere da solo nella Roma degli anni 30 e 40, che poi appunto incontra mia madre dopo la seconda guerra mondiale. Di mia madre ho raccontato in Campo del sangue, dove ricostruisco un viaggio che ho fatto da Venezia ad Auschwitz nel 1995, facendo il viaggio che mia madre avrebbe dovuto fare se non fosse riuscita a fuggire.

In La città dei ragazzi invece, accompagnando due miei studenti arabi in Marocco, ho idealmente parlato con mio padre, cercando di trovare le parole che lui non è riuscito a dire neppure a se stesso, prima ancora che a me e a mio fratello. Andando indietro nella mia storia ho capito che la mia vocazione di insegnante, la mia vocazione di scrittore è profondamente legata alla mancanza delle parole, per­ché io da ragazzino a 14/15 anni non avevo le parole, ecco perché sono diventato lettore, ecco perché ho cominciato a leggere Tolstoj, Dostoevskij, Conrad, Fenoglio, Verga, Manzoni, per trovare quegli amici, quei compagni segreti con i quali diventare grande, con i quali misurarmi per riuscire a trovare le parole che i miei genitori non riuscivano a trovare.

Io andavo da mia madre e le chiedevo: mamma, che cosa è successo a Udine che tu sei scappata? Lei a pezzi e bocconi mi raccontava questa storia, ma non aveva gli strumenti perché aveva fatto solo la quinta elementare, così come mio padre. Io sono nato in una famiglia senza libri, adesso ho scritto 15 libri però io in fondo fin da piccolo stavo da solo, sono un autodidatta praticamente ho cominciato leggendo Hemingway, Addio alle armi – Fiesta mobile – Fiesta, nei tascabili Mondadori. Quando per la prima volta riuscii a pubblicare un articolo sul giornale, mio padre lo guardò e si sentì come legittimato vedendo la mia firma stampata su quel giornale. Quindi questa è la ragione per cui la prima volta che sono entrato in una classe quando ero appena laureato, io non volevo fare l’insegnante perché mi ero annoiato a scuola, non stavo bene a scuola non ero contento, andavo anche male, a parte l’italiano per il resto andavo malissimo, non sono mai stato bocciato però me la sono sempre cavata cosi, faticosamente. Ma a un certo punto, quando mi sono laureato, ho dovuto fare la mia prima supplenza e ho trovato una classe pazzesca, di persone che pagavano una retta per essere promosse, un po’ fascistelli, a quel tempo, negli anni settanta, io mi presentai, avevo una leggera barba, e loro dissero: ci hanno dato il professore bolscevico… una frase assurda che ora nessuno direbbe più, ma che negli anni 70 era normale…

Io in quel momento sono entrato e ho visto questi che stavano in fondo vicino alla finestra, non stavano seduti, e io mi dicevo “E adesso che cosa faccio, come faccio a spiegare i Promessi sposi a questi che nemmeno mi guardano?”. Eppure vi assicuro che per me quello è stato il richiamo della foresta, come se io avessi sentito qualcosa, “fermi tutti questo è il luogo mio”. Allora sono andato da questo caporione, da questo leader e l’ho affrontato e mi sono presentato come persona, non come professore, e questo mi ha guardato e vi dico che è nato un rapporto tra noi, non era più il professore che parlava all’allievo, e anche gli altri ci guardavano e scoprivano qualcosa sia del loro amico sia del nuovo supplente. Ci siamo messi tutti e due in gioco, ecco in quel momento ho capito che cos’è la finzione pedagogica, cioè quando tu fai finta di insegnare e i ragazzi fanno finta di ascoltare, questa finzione tu la devi spezzare, la devi distruggere, la devi frantumare, ti devi presentare non come professore ma come uomo, come persona, ti devi esporre, devi rischiare, devi rischiare molto perché puoi anche sbagliare, ti devi sporcare le mani, ti devi mettere in gioco, non puoi stare chiuso nella tua torre d’avorio a fare il programma, a mettere il voto e scrivere giustificazioni. Allora facendo cosi è scattato tutto un percorso, che mi ha portato appunto a lavorare dentro di me, a scrivere i miei libri, a scegliere gli scrittori di riferimento. Io ero timidissimo e ho dovuto imparare a parlare in pubblico come sto facendo adesso, io ero uno che veniva dall’introiezione nera, profonda dei pomeriggi trascorsi da solo, dell’adolescente che non sa dove sbattere la testa, che non ha amici, che non ha punti di riferimento, e quando leggi un ro­manzo come “Guerra e pace” capisci che c’è un mondo nuovo che tu non credevi fosse possibile, ti confronti vivi ti chiedi se sei Andrej o sei Pierre, ti puoi innamorare di Natasha o della principessina Maria, e quindi c’è un paesaggio nuovo, un mondo, un’avventura, un viaggio da compiere, tutto questo è la letteratura, la letteratura che ti aiuta, ti aiuta a diventare grande.

Ecco perché oggi quando entro in classe e vedo questi ragazzi tutti abbandonati, distrutti, io capisco che cosa stanno vivendo e quindi mi avvicino sapendo che quello è un materiale con cui ti puoi scottare, perché educare significa ferirsi e di questo sono sempre più convin­to, educare significa ferirsi.

Io credo che tutti i genitori mi ca­piranno se ho detto questo perché chi ha un figlio, e anche chi fa l’insegnante, chi è a contatto con i ragazzi capisce che se tu non ti metti in gioco è facile fare l’amico, però devi anche fare il maestro, e quindi ecco la difficoltà di queste due operazioni.

 

Ci puoi raccontare come è nata l’esperienza della scuola Penny Wirton?

Questo libro attraversa tutti i nodi che riguardano questi ragazzi, i voti, la valutazione, le canne anche, come dire?, tutte le difficoltà, e alla fine si conclude con quella che noi potremmo definire il sogno di un’altra scuola, che può es­sere appunto anche la Penny Wirton. Intanto, spieghiamo come mai questo nome: Penny Wirton e sua madre è il titolo di un romanzo di Silvio D’Arzo, un grande scrittore emiliano, che è la storia di un ra­gazzetto dal vestito giallo, orfano di padre, che non conobbe mai suo padre. Noi abbiamo chiamato così la nostra scuola perché sia io che mia moglie ci siamo laureati su Sil­vio D’Arzo, e quindi abbiamo pensato di chiamare così questa scuola, perché i nostri studenti sono dei piccoli Penny, vengono da tutto il mondo e non hanno famiglia. Questa scuola, perché rappresenta il sogno di un’altra scuola? Perché in questa scuola non ci sono i voti, non ci sono le classi, non ci sono le valutazioni, non ci sono i registri, e noi è come se dessimo le parole a questi ragazzi, le parole come se fossero vino e pane, perché loro si mettono seduti davanti alla loro professoressa, o al professore, in un rapporto di uno a uno, e all’inizio eravamo pochissimi, 4 o 5, adesso siamo centinaia, centinaia a Roma, centinaia in Calabria, e centinaia adesso stiamo arrivando anche a Torino. Io vedo che c’è tantissima gente pronta a mettersi in gioco e a venire ad insegnare due ore a settimana l’italiano a questi ragazzi, in un rapporto che veramente è un rapporto profondo di reciprocità vera, concreta, che loro danno a te e tu dai a loro, tu dai a loro il verbo essere e il verbo avere, loro ti danno una originalità, un colore, una sensibilità veramente nuove.

Noi ci siamo fatti prestare del­le aule a Roma, nella chiesa di San Saba, dai Padri gesuiti, che ci hanno concesso l’uso di qualche locale. All’inizio era soltanto una stanza, adesso ci siamo presi praticamente tutto il corridoio perché siamo sempre di più.

Mi è capitato di andare in televi­sione un mese fa, nel programma “Pane quotidiano”, dove ho fatto proprio un appello a venire a insegnare da noi, dal giorno dopo sono arrivate decine e decine di e-mail di adesione di persone che volevano contribuire e che noi abbiamo immediatamente inserito, anche studenti del liceo che vengono da noi, o tirocinanti universitari, e abbiamo mosso una bella energia, ed è in fondo una risposta, questa Penny Wirton, all’insofferenza che io ho sentito nei consigli di classe. Ma che cos’è il consiglio di classe? Quando arrivano, io le ho chiamate con un’espressione un po’ particolare, “Le streghe del precetto”, le streghe del precetto che cosa sono? Quando tu, alla fine, dopo tutti questi bei discorsi, sei chiamato a pronunciarti sulla bocciatura o sulla promozione di uno studente per alzata di mano, a maggioranza, e non è possibile questo, no? Insomma non è questa la scuola che vorrei, vorrei, appunto, arriva­re a certificare un rapporto che si è creato negli anni con quello studente, per cui, mettiamola in gioco questa cosa. Allora, ecco la ragione per cui ho fondato questa scuola è che vorrei che un po’ di aria fresca di Penny entrasse anche nelle aule stantie della nostra istruzione pub­blica. Alla Penny Wirton i ragazzi fanno dei gesti che fanno soltanto a scuola, ad esempio, scrivere a mano su un foglio protocollo, oppure consultare sul dizionario il significato di una parola, perché loro fuori lo fanno ormai sui tablet, quindi noi abbiamo uno schema ottocentesco, noi ci confrontiamo con questi ragazzi con uno schema, appunto, ancora a direzione frontale. Tante altre cose dovrebbero essere fatte e spesso vengono fatte dal basso, dalle scuole, dalle professoresse che si mettono a fare una sperimentazione, però poi la sensazione è che c’è uno scollamento tra i vertici istituzionali e la vivacità dei movimenti della base.

 

Il cattivo studente per eccellenza, Pinocchio a un certo punto fugge perché trova più interessante il teatro dei burattini, cioè, in sostanza, la vita. Allora dove si impara meglio a vivere? Fuori dalla scuola o dentro?

Pinocchio ci fa capire che lui va, appunto, al teatro dei burattini e vende il sussidiario perché non accetta l’idea di stare seduto sui banchi ad ascoltare nozioni astruse. Allora un giorno ho deciso di convocare i miei studenti in una libreria a Roma, volevo fargli leggere “Se questo è un uomo”, era una bella scelta, una scelta però spericolata da parte mia, perché avevo di fronte ragazzi che non avevano mai letto un libro in vita loro. Allora ci siamo ritrovati alla stazione Termini di Roma, all’interno di questa grande libreria di fronte alle biglietterie e mi ricordo che quando i miei studenti si presentarono lì fu per me quasi rivoluzionario vederli uno vicino all’altro che facevano la fila alla cassa, coi dieci euro da una parte e questa nuova edizione di “Se questo è un uomo” dall’altra.

In quel momento io stavo trasformando un compito scolastico in una esperienza conoscitiva, ecco il lavoro da fare, quindi la strada o la scuola, tu rompi questa scissione portando la scuola nella strada, e quindi praticamente loro, in quel momento, per la prima volta capivano che quel libro che stavano acquistando sarebbe stato il protagonista dell’anno scolastico, insieme lo avremmo letto, e così poi è stato. Voglio dire, non la sentivano come un’imposizione burocratica ma stavano facendo un’esperienza assieme a me, perché dopo siamo andati a farci una bella passeggiata a Roma, è come dire che ho inciso quel giorno nella loro memoria, ecco, e quindi questo va fatto secondo me …

 

Chi è stato in classe in mezzo ai ragazzi sa quanto costi l’essere molto coinvolti, il sapere che tutto sommato i ragazzi che abbiamo di fronte poi li perdiamo, sono destinati ad andarsene, però tu a loro hai dedicato del tempo, il tuo tempo, la tua dimensione, quindi nell’insegnante spesso si sente una grande passione, ma anche una grande sofferenza.

Se ti lasci coinvolgere indubbiamente ti metti a rischio, però devi mantenere, più che la giusta distanza, una credibilità nei confron­ti di questi studenti. E come fai ad essere credibile? Me lo sono chiesto tante volte, cioè, chi è il vero adulto credibile? Io credo che sia quello che ha fatto una scelta, se tu mostri tra le scelte che hai di fronte di avere imboccato una strada, soltanto una fra le tante che avresti potuto percorrere, ti dimostri affidabile perché non sei un adulto eternamente giovane che magari può sedurlo all’inizio, può affascinarlo, però poi alla fine il ragazzo ha bisogno di una radice vera, di un punto di riferimento, perché la convinzione della gioventù è proprio quella di poter fare tutto. È importante invece che tu dimostri a quel ragazzo una cosa profondissima, che la libertà non è supera­re i limiti ma è accettare il proprio limite. Sembra un paradosso però si diventa adulti così, quindi ecco il lavoro importante che va fatto non una volta per tutte, ma tutti i giorni, tutti i giorni. Per cui il giorno che magari ti è andata bene, che loro erano contenti e sei tornato a casa felice, non significa che il giorno dopo te li ritrovi schierati sui banchi come vorresti, te li devi di nuovo conquistare, te li devi di nuovo, come dire, rendere partecipi e quindi è un lavoro che consuma il nostro, però io dico è anche il mestiere più bello del mondo per chi è portato.

 

Ci piacerebbe che tu spiegassi bene perché i più bravi e i meno bravi devono stare nelle stesse classi.

Le migliori classi sono quelle eterogenee, sono quelle composte da persone diverse, proprio quando tu entri in classe e vedi che hai 4 o 5 figli di immigrati di seconda generazione, e ancora ragazzi dislessici, e magari sei o sette bravi di eccellenza, e poi hai quello di fami­glia buona e quello che viene dalle borgate, ecco quelle sono le classi più belle secondo me, perché sono le classi in cui c’è un senso di comunità vera. Spesso molti genitori non iscrivono i loro figli nelle classi dove vedono che ci sono troppi ragazzi stranieri, a Roma è successo proprio un paio di settimane fa, e io sono stato chiamato a commentare questo fatto sul giornale. Questo che per me è anche il frutto della non conoscenza, insomma di questi genitori i quali umanamente sono comprensibili diciamo, però poi devono capire che il ragazzo che non parla ancora italiano non è che è una zavorra perché invece gli dà qualcosa, al ragazzo italiano, che non si può definire, ma che fa parte dell’uomo, dell’umanità, del­la comunità che cresce insieme. Poi chi sbaglia non sbaglia mai da solo, sbaglia sempre insieme agli altri e anche chi azzecca delle risposte non le azzecca mai da solo.

Io sono anche stato contestato su molte di queste questioni, ho avuto alcuni che mi hanno detto “Ma le competenze dove le met­tiamo?”. Ecco perché prima ci ho tenuto a dire: Attenzione! Un conto è la formazione dell’ingegnere, del medico, ma noi qui stiamo parlando di ragazzi che si stanno formando. Non è che io non voglio le competenze, ma io sto parlando di questi ragazzi, che sono le ultime ruote del carro, che sono veramente quelli ai quali ti accorgi che sei utile, io ho insegnato in tutti i tipi di scuole, liceo e università, però mi sono sentito più utile in queste realtà, che ti fanno capire che il ragazzo meno dotato può avere qualcosa in più. Ma questa consapevolezza è culturale, non è naturale, quindi va costruita anche con un libro come questo, che può nel suo piccolo contribuire a far cre­scere questa consapevolezza.

 

L’intervista a Eraldo Affinati è stata fatta nel corso dell’iniziativa “Il libro nel bicchiere” che si è svolta a Padova, il 23 novembre 2013

 

 

Libri scritti da Eraldo Affinati

- Voglia d’armi. L’uomo di Tolstoj, Genova, Marietti, 1992

- Soldati del 1956, Firenze, Nardi, 1993

- Bandiera Bianca, Milano, A. Mondadori, 1995

- Patto giurato. La poesia di Milo De Angelis, Pescara, Traccia, 1996

- Campo del sangue, Milano, Mondadori, 1998

- Uomini pericolosi, Milano, Mondadori, 1998

- Il nemico negli occhi, Milano, Mondadori, 2001

- Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer, Milano, Mondadori, 2002

- Secoli di gioventù, Milano, Mondadori, 2001

 

- Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe e scrittori, Roma, Fandango Libri, 2006

- La città dei ragazzi, Milano, Mondadori, 2008

- Questo terribile intricato mondo. Racconti politici, Torino, Einaudi, 2008

- Berlin, Milano, Rizzoli, 2009

- Peregrin d’amore. Sotto il cielo degli scrittori d’Italia, Milano, Mondadori, 2010

- L’11 settembre di Eddy il ribelle, Roma, Gallucci, 2011

- Elogio del ripetente, Milano, Mondadori, 2013