La galera raccontata attraverso un dente

I detenuti devono sopportare lunghi tempi di attesa per essere curati, e la situazione si aggrava ulteriormente: alla mancanza di prevenzione si aggiunge quindi la mancanza di tempi certi di intervento, e tutto si traduce in un peggioramento della salute e della condizione di vita

 

di Elton Kalica

 

Ieri ero andato ai passeggi, ma ci sono rimasto poco perché mi ha chiamato il dentista, finalmente, e mi ha rimesso apposto l’otturazione. È strano ma, mentre il dentista stava lavorando (devo confessare che ha fatto il suo lavoro con professionalità: forse li merita, i duecento euro che mi ha chiesto) mi è ritornata in mente la prima volta che sono andato da un dentista, e ho ripassato mentalmente tutta la storia di questo dente, ho rivissuto tutti i momenti in cui ha attirato la mia attenzione, spesso con terribile violenza, a volte soltanto con un continuo, leggero fastidio.

E allora voglio raccontare tutti i problemi che questo dente mi ha dato.

Nella mia scuola, a Tirana, c’era un ambulatorio dentistico. In realtà, era stata divisa un’aula in due parti ricavando uno spazio per il dentista e un altro per il magazzino dove si tenevano le stoffe, le forbici, la macchina da cucire, i ferri da stiro e tutto ciò che serviva per l’ora dell’educazione domestica. Tutte le scuole medie avevano l’ambulatorio odontoiatrico, ma vi era una sola dottoressa che faceva il giro da una scuola all’altra. La scuola in cui andavo io teneva insieme elementari e medie, e aveva circa 450 alunni. La visita odontoiatrica era obbligatoria, nel senso che la dottoressa monitorava continuamente gli alunni chiamandoli periodicamente. L’idea che qualcuno mi infilasse le mani in bocca mi aveva sempre spaventato, e non gradivo per nulla queste visite: una volta sono anche scappato, ma poi mio padre mi aveva ricordato che senza denti non avrei più potuto mangiare le frittelle di mia nonna, e questo era stato sufficiente per convincermi che, a prendersi cura dei propri denti, si fa un buon affare.

In una di queste visite di routine – avevamo appena ripreso le lezioni dopo il ponte del primo maggio, era il 1990 e io stavo finendo ormai la terza media – la dottoressa interruppe di colpo il suo controllo guardando in alto a sinistra della mia cavità orale, al terzo molare, e mi disse: “Ecco una piccola carie! Ah! Ah! sei andato a dormire senza lavarti i denti!”. Volevo risponderle che non era assolutamente vero, ma avevo la bocca spalancata e le sue dita che continuavano a curiosare dentro.

Quando lei fece funzionare il trapano, pensai di morire, e ricordo di aver stretto il bracciolo della poltroncina con tutte le mie forze, e chiuso gli occhi. In quei momenti però – forse il morale alto che avevo dopo aver respirato per una settimana l’aria libera dei giorni di festa mi aveva ubriacato – ho pensato che comunque quello era un buon allenamento per un giovane pioniere e, se fossi stato preso da qualche nemico invasore e torturato, avrei potuto utilizzare la stessa tecnica per resistere: ma dopo appena sette anni, in Italia, avrei scoperto che quando, per esempio, ti arrestano e ti capita magari di essere ammanettato, portato nel cesso della caserma e appeso per i polsi al tubo della doccia come un prosciutto, non hai niente da stringere se non i tuoi pugni. La dottoressa comunque finì presto di trapanare il dente e, riempiendolo di un impasto bianco, disse: “Ora è salvo! L’abbiamo preso giusto in tempo”.

Nell’aprile del 1998, mentre venivo trasferito dal carcere di Monza a quello di Opera in seguito ad una protesta a cui avevo preso attivamente parte, fui colpito da un tremendo dolore di quello stesso dente curato otto anni prima in terza media. Una volta sistemato in una cella del nuovo carcere comunicai al personale medico il mio problema, e mi misero in lista di attesa. Fui chiamato dopo un mese. Il dolore ormai era svanito, anche se mi era rimasto un leggero ma costante disturbo, come se volesse ricordarmi il posto esatto da dove proveniva ogni tanto tutto quel male. Il dentista guardò accuratamente tutti i denti e mi disse che era tutto a posto e che non vi erano carie in giro. Io insistei indicando meglio il dente, ma niente, il medico ribadì il suo precedente responso.

Nell’agosto del 1999 fui trasferito nel carcere di Padova, e mentre scendevo dal furgone blindato il mal di denti ritornò con la stessa violenza dell’anno precedente. Fu inevitabile cominciare a sospettare che ci fosse un qualche legame tra i viaggi di trasferimento – in quelle celle buie, strette, dalla puzza e dal caldo soffocante, dei furgoni blindati – e il mal di denti. Mi domandavo anzi se il dente stesso non avesse memoria e mi volesse mettere alla prova per vedere se ero in grado di stringere di nuovo i pugni e resistere come da ragazzino, ma poi decisi che era meglio rimanere immune dalle superstizioni e chiesi di nuovo ai medici di essere visto da un dentista. Presto però mi fu spiegato che in questo carcere il dentista era una risorsa piuttosto scarsa, e difficile da avere a disposizione. Dopo due settimane il dolore si dissolse di nuovo, lasciando la stessa scia di fastidio che palpitava la sera, dandomi la buona notte.

 

In galera le felicità durano pochissimo

 

Era Natale del 2000 quando un agente si presentò al cancello della mia cella. “Vieni qui!”, mi ordinò, e io obbedìi avvicinandomi al cancello. “Ascoltami bene! C’è un nuovo giunto ed è nigeriano. Siccome nessuno lo vuole in cella e qui l’unico altro nigeriano è il tuo compagno di cella, abbiamo deciso di mettere il nuovo arrivato qui, e tu vai in un’altra cella! Scegli tu con chi vuoi andare”, disse, usando un tono che viaggiava in bilico tra l’ordine perentorio e la richiesta di un favore. Il mio compagno di cella ebbe da protestare sulla sua provenienza, sostenendo di essere originario del Ghana, però accettò volentieri di dividere la cella con un nigeriano, mentre io scelsi di andare in cella con Mustafa, un marocchino che finiva di scontare la pena due settimane dopo. Cominciai a traslocare. Spostai per primi il materasso con le coperte, poi svuotai gli armadietti infilando la roba nei sacchi neri, ed ecco che fui invaso di nuovo dal mal di denti. Era come se dal secondo molare in alto a sinistra, partisse un chiodo arrugginito e bucasse prima la gengiva, poi l’osso mascellare e infine sbattesse all’interno della calotta cranica, rimanendo incastrato nel cervello.

Caddi malato, e mi prenotai per la visita medica. La notte avevo caldo e tremavo sudando freddo. Avevo la febbre. Alla mattina riuscii a prendere sonno, ma verso le undici l’agente mi aprì la cella: era arrivato il medico. La faccia si era gonfiata come se avessi infilato in bocca una pallina da ping-pong e avessi deciso di tenerla tra i denti e la guancia. “Il dente, vero?”, mi domandò il medico, fermo sulla soglia, appoggiato su un gomito, espressione rilassata, piccoli accorgimenti da professionista. “Va bene, ti prescrivo dieci giorni di antibiotici e ti rinnovo la richiesta per la visita odontoiatrica. Arrivederci”.

Avrei potuto avere 40 di febbre, avere anche una polmonite, o la pressione bassa, ma non avevo voglia di parlare, di litigare, volevo solo ritornare a letto e dormire. Però prima di prendere sonno giurai che non mi sarei mai più spostato da quella cella.

Il dentista arrivò dopo una settimana, guardò il gonfiore che ormai si era esteso allo zigomo abbracciando l’occhio, e mi disse che con una infezione in corso non poteva fare niente, ma che dovevo finire la cura, e poi ritornare. Io però stavo in galera, e certo non potevo mai avere la libertà di ritornare a piacimento, ma comunque prima di Natale l’ascesso si calmò. Passai le festività a letto, con i postumi della cura antibiotica, e dovetti aspettare fino ad aprile per rivedere il dentista. “Strano!”, esclamò dopo aver visitato l’intera bocca. “Il dente è sano. Non rimane altro che vedere se c’è qualcosa sotto”. E dopo un paio di punture sulla gengiva, mentre io disperato mi accorgevo che non vi erano braccioli da stringere, lui attivò il trapano, bucò il molare fino alla gengiva e sparse del veleno nel nervo per ucciderlo, annerendo così il dente. “Forse c’era un granuloma, o forse un brufolo. Chissà perché c’è stato quell’ascesso!”, disse, sollevando le spalle. Riempì la cavità provvisoriamente e aggiunse che mi avrebbe chiamato la settimana successiva. Il tempo passò in fretta, e mi ritrovai di nuovo steso sul lettino dell’ambulatorio del carcere, dove il dentista in meno di dieci minuti riempi il dente trapanato di piombo, e mi salutò con una stretta di mano. Il dolore era sparito, e ciò era abbastanza per farmi sentire più leggero, felice. Adesso che il dente era stato devitalizzato potevo anche essere trasferito, il mio vecchio giuramento non mi avrebbe più costretto a dare alcuna prova di resistenza.

Ma in galera le felicità durano pochissimo, e a differenza della vita fuori, in libertà, quando la felicità sparisce ci si ritrova immancabilmente a sprofondare in dolori e sofferenze. Dopo appena una settimana cominciai a perdere i pezzi del piombo che riempiva il dente, e nel giro di un mese, l’otturazione si era spaccata in due, i chicchi di riso si incastravano dentro solleticandomi la gengiva, e la mia frustrazione rimbombava sui muri della cella senza possibilità di fuga, crescendo continuamente. Avevo paura che la gengiva si infettasse, che il molare marcisse e diventasse contagioso per gli altri denti vicini, che mi si ammalasse tutta la bocca.

 

Non volevo perdere i denti, né in galera, né dopo la galera

 

Immaginavo scenari terribili, e non volevo perdere i denti, né in galera e né dopo la galera.

Chiesi al medico di turno di poter rivedere il dentista, scrissi lettere di reclamo al comandante degli agenti, al direttore del carcere, al dirigente dei medici, ma nessuna precedenza, il mio nome stava in fondo ad una fila che doveva essere smaltita con molta tranquillità.

Dovetti aspettare fino alla primavera del 2002 per rivedere un dentista, che non era più quello di prima. Il medico infilò i suoi strumenti nella mia bocca, e dopo aver vibrato dei piccoli colpi dentro e intorno al dente bucato disse: “Ma è un buco enorme! non me la sento di scavare di nuovo perché rischia di spezzarsi”. “E io che cosa faccio?”, gli domandai appena tirò fuori le mani dalla mia bocca. “Ti consiglio di tenerlo così com’è, tanto non fa male, visto che è stato devitalizzato”, proclamò avviandosi verso la porta, un chiaro invito a liberare il posto della mia presenza.

La fortuna volle che, passati quattro anni di inutile attesa, e arrivati al 2006, un mio compagno di cella mi informasse dell’esistenza del servizio odontoiatrico privato, e cioè che in carcere c’è anche un dentista che visita, interviene e cura a pagamento. Allora ho chiesto di essere visitato da quel dentista. Dopo un’attesa di tre mesi fui visitato. Il medico guardò il dente, e mi fece subito un preventivo che firmai senza esitazioni: durante questi anni di carcerazione la mia nonna è morta, insieme al nonno, ma le frittelle le voglio mangiare comunque quando uscirò di qui, quindi, in tutta sincerità avrei firmato qualsiasi cifra ci fosse da pagare per sistemare il dente. Lui allora aggiunse il mio nome ad una fila di nomi conosciuti, tutte persone con pene lunghe che, passato il mio stesso calvario dal dentista della mutua, hanno deciso di rivolgersi a quello privato.

Alla fine, primavera inoltrata del 2007, arrivò il mio turno. Steso sul lettino dell’ambulatorio, fui preso dalla paura che alla fine anche lui rinunciasse a toccare un dente che rischiava di frantumarsi per lo scavo eccessivo del trapano, oppure che facesse una cosa in fretta, rozza, senza passione come aveva fatto il medico precedente, invece il dottore aveva i modi gentili, un modo di comunicare che trasudava umanità e lavorò con professionalità, dedicandomi il tempo necessario. Si consultò con me per scegliere persino il tipo di materiale da usare per l’otturazione. Fino ad ora il dente sembra robusto, ma soprattutto l’idea che adesso ci sono maggiori chance che io esca da qui con una buona salute dei denti, mi fa vivere meglio la detenzione.

 

Una concreta idea “salvadenti”

 

Ho pensato che si potrebbe proporre al dirigente sanitario del carcere di cambiare le modalità con cui si fanno le visite odontoiatriche, e usare il sistema di monitoraggio che facevano a scuola nel mio Paese. La cosa non è tanto campata per aria, perché se ci si ragiona un attimo, ci si accorge che i detenuti per la maggior parte non hanno una vera cultura dell’igiene orale, e non chiedono mai di essere visitati o di fare la pulizia dei denti, fino a quando non stanno davvero male. Ma a quel punto devono sopportare lunghi tempi di attesa e la situazione si aggrava ulteriormente: alla mancanza di prevenzione si aggiunge quindi la mancanza di tempi certi di intervento, e tutto si traduce in un peggioramento della salute e della condizione di vita del detenuto. Ecco perché è fondamentale la prevenzione attraverso un continuo monitoraggio di tutti i detenuti da parte del dentista.

 

 

 

Fuori cercavo lo sballo in tutte le maniere. In carcere passo le giornate aspettando la distribuzione degli psicofarmaci

 

di Demis Vidal

 

Mi chiamo Demis, sono nato a Venezia, ho trentun anni. Attualmente mi trovo detenuto presso la Casa di Reclusione di Padova. Non è un buon periodo per me, anche se pensandoci bene non ricordo di aver mai avuto dei periodi degni di essere ricordati.

Desidero parlare con qualcuno e perciò ho deciso di raccontare qualcosa di me, lo faccio soprattutto perché qui dentro mi sento abbandonato, solo con la mia disperazione.

Porto con me da anni, fin da quando ero piccolo, una serie infinita di problemi. La mia infanzia è stata uno schifo. Sono rimasto orfano all’età di quindici anni, nel giro di otto mesi ho perso prima mio papà e poi mia mamma.

Mia madre aveva grossi problemi di alcolismo, mi è morta fra le braccia dopo una caduta che le è stata fatale. Le ha causato l’affogamento in poche decine di centimetri di acqua.

Mio padre se n’è andato in tre mesi per un cancro che non gli ha lasciato scampo.

La loro perdita ha sicuramente influito sul mio sbandamento, mi sentivo abbandonato da tutti e non me ne potevo fare una ragione.

Dopo la morte dei miei genitori ho vissuto allo sbaraglio, sopravvivendo con piccoli espedienti e talvolta, quando buttava proprio male, con l’aiuto di parenti che però non mi hanno mai accettato in casa. Li capisco, non sono facile da sopportare.

Avevo due anni quando mia sorella di quattro anni venne tolta ai miei genitori dagli assistenti sociali e data in affido ad una famiglia. I motivi sono evidenti. A me hanno privato di un affetto che ho rimpianto tutti i giorni della mia vita, mi ha lasciato un vuoto immenso. Sicuramente la sua vita non è come la mia. L’ho ritrovata per caso, un incontro inaspettato, quando avevo 29 anni, e la cosa ha riaperto una ferita, lasciandomi preda di un dolore tremendo, poiché non ho più potuto incontrarla. È lei l’unica persona che mi potrebbe dare il senso di famiglia, ma forse è meglio che non sappia come sono finito.

I miei unici amici erano ragazzi di strada e tutti avevano pressappoco i miei stessi problemi. Perciò cosa potevo sperare? Da lì ho cominciato a conoscere i più disperati che erano in circolazione, che non potevano certo aiutare me, non potendo essere d’aiuto neppure a se stessi.

Se faccio un’analisi della mia vita e di quello che ha comportato, vedo anni di carcerazione, autolesionismi, ricoveri frequenti in ospedale, non solo in carcere, ma anche durante i momenti di libertà.

Mi drogavo e bevevo senza ritegno, senza limiti, cercavo lo sballo in tutte le maniere in ogni momento del giorno… in quel modo volevo scacciare i fantasmi delle mie paranoie, delle paure che non riuscivo ad esorcizzare. Cercavo la medicina per far sparire il dolore profondo che stava in me in ogni momento della giornata.

Ancora oggi a 31 anni, in carcere, continuo a compromettere la mia esistenza con l’autolesionismo e tutto il resto come ho sempre fatto. La mia giornata è caratterizzata dall’attesa della distribuzione degli psicofarmaci e dalla pace del sonno.

Dopo tutti questi anni provo gli stessi sentimenti negativi dell’abbandono. Non passa giorno che non chiedo di poter incontrare qualche psicologo per avere un sostegno, ma neppure lo psichiatra mi chiama per ascoltare la mia follia. Ho incontrato una psicologa che mi ha suggerito di scrivere la mia storia e far conoscere la mia situazione drammatica, affinché qualche operatore intervenga e possa comprendere come aiutarmi ad uscire da questo inferno in cui sono prigioniero da molti, troppi anni.

Il problema è che ogni volta che chiedo di poter parlare con qualcuno mi viene risposto che qui siamo in più di ottocento detenuti e la struttura, strutturata per 350, non è in grado di far fronte ai problemi di un numero così alto di detenuti, il sovraffollamento… ecco di chi è la colpa, del sovraffollamento. Però nessuno capisce che se non si risolvono i problemi, questi aumentano con la disperazione, giorno dopo giorno.

Io ho il fine pena al 2015, poi avrò da scontare due anni di Casa di Lavoro, per via della recidiva. Non riesco a vedere prospettive rassicuranti, all’orizzonte ci sono tanti problemi che non so se riuscirò a risolvere o ad armonizzare.

In carcere mi sento non solo abbandonato, ma anche privo di quella tutela che una persona come me, debole, soggetta a psicofarmaci, incapace di trovare da sé la strada per venire fuori dall’inferno, necessita per poter andare avanti con un po’ di speranza. Non esiste la possibilità di un progetto da individuare per cominciare un percorso di risocializzazione. Come si può credere che una persona come me riesca da sola a trovare le risorse per riacquistare padronanza di sé?

Concludo con la speranza che qualcuno si accorga che ci sono anch’io. Spero davvero che queste mie parole non siano vane e riescano ad aprire una breccia affinché qualcuno, prima o poi, prenda in considerazione il mio bisogno d’aiuto.

Ciao e grazie, a tutti quelli che lo meritano.