Contro Informazione

 

Storie di pene certe, ma “sbagliate”

Una pena sensata

Più che la certezza della pena si dovrebbe pensare a una pena che abbia un senso

che non arrivi troppo tardi rispetto alla commissione del reato e che non preveda

di “ammazzare” il tempo in carcere, ma di usarlo al meglio per il ritorno nella società

 

Viviamo in una società che si convince ogni giorno di più che gli autori di reato stanno troppo poco in carcere, e che la soluzione di ogni problema passa per la detenzione, perfino se il problema è un ragazzo che scrive su un muro o una casalinga che butta una vecchia lavatrice dove è proibito lasciare rifiuti, tutti comportamenti da sanzionare, per carità, ma non andando a riempire le galere. Allora, suona piuttosto velleitario che noi, che in carcere ci stiamo davvero, ci sforziamo di convincere i nostri concittadini che la galera non cura nessuna malattia, né ci rende più sicuri. E che la certezza della pena esiste, quello che non esiste è la sua tempestività: è raro infatti che la pena arrivi “vicina” al reato, a volte arriva dopo anni e anni, e resta lì in sospeso sulla testa delle persone. Quello che forse bisognerebbe chiedere è una pena “sensata”.

1991 inizio del processo... ordine di carcerazione dicembre 2007

 

di Marco L.

 

1991 inizio del processo… febbraio 1998: sentenza della Corte d’appello e della Cassazione… condanna a sette anni per ricettazione… ordine di carcerazione dicembre 2007. Totale 16 anni e sette mesi per arrivare in fondo a un processo…

Questa non è una storia per sentito dire… questa è la storia, il percorso processuale di chi sta scrivendo… questi sono i tempi biblici a cui sono dovuto sottostare prima di potermi rilassare. Sì avete letto bene, rilassare! Non dover più pensare a quando sarebbe finita, a come sarebbe finita. Sedici anni rappresentano un lasso di tempo assurdo, una quantità tale che fa scadere in un nonsenso il concetto dell’essere colpevole o innocente.

Sono in galera da un anno, quando invece, se la Giustizia di questo Paese avesse tempistiche normali o avesse rispettato il termine di 6 anni (che comunque pochi non sono!) ritenuto congruo per concludere un processo, dovrei già aver scontato la pena inflittami ed essere fuori da almeno 4 anni. In realtà io sono stato condannato a 23 anni! 16 di attesa e 7 di espiazione! Un sistema che “si permette” di procrastinare senza colpo ferire fino a questo punto il momento dell’assoluzione o della condanna non ha insito in sè alcun senso reale di giustizia.

Quando tutto ha avuto inizio ero sposato, con una figlia di poco più di 2 anni. Ora mia figlia ne ha 20 e mio figlio 16. Mia moglie mi ha seguito e insieme a me ha pagato in termini di sistema nervoso rovinato questa aberrazione, e i miei figli neppure riescono a comprendere come tutto questo sia possibile, avendomi sempre visto vivere una vita normale, nel rispetto delle regole.

Ora si chiedono quanta superficialità e mancanza di senso di giustizia ci sia in questo sistema! Cosa direste se presentandovi a un colloquio di lavoro vi venisse detto: ok si può fare, non prenda impegni che le faremo sapere, e poi passassero 16 anni? Fareste lavori saltuari in attesa della risposta o iniziereste a pensare che non ha senso? Cosa direste se, dopo aver dato un esame o fatta un’analisi, vi facessero attendere 16 anni prima di darvi il responso? Bene, questo è quello che accade quasi “regolarmente” nel sistema italiano. Una perdita a volte totale del senso della pena, dell’idea di giusto processo, che è quello che avrei voluto, desiderato anch’io (a dir la verità dovrebbe essere un diritto imprescindibile), come tutti quelli nel mio stato e tutti quelli che attendono una risposta che non arrivi nel mezzo di un’altra vita, perché così ci si rimette tutti quanti, ci rimettono le regole, gli innocenti, i colpevoli, le famiglie, le istituzioni, ci rimette la società! Il sistema giudiziario italiano è riuscito a creare ciò che i fisici reputano impossibile, una macchina del tempo che porta tutto indietro.

“Pacchi” di misure emergenziali

 

di Franco Garaffoni

 

Ho l’impressione, stando in galera, che in Italia sia cresciuto e prosperi un virus strisciante, che alimenta paura e insicurezza. Tutto fa paura: nomadi, autori di reati in libertà, ubriachi al volante, i graffitari che scrivono sui muri.

Per debellare il diffondersi del morbo si ricorre all’unica medicina conosciuta: Più carcere. Aumento delle pene. Meno misure alternative.

I dati del Ministero della Giustizia indicano una certa stabilità nei reati e non fanno dell’Italia un Paese meno sicuro di altri con lo stesso livello di sviluppo. Però tv e giornali ci raccontano il contrario, facendo spesso aumentare la paura e spingendo a chiedere pene più dure. Nasce così l’ennesimo pacchetto anticrimine, ancora con la logica che ci vogliano, appunto, “pacchi” di misure emergenziali. Mai che si parli di “problemi”, no è sempre meglio parlare di “emergenze”, perché questo permette di fare leggi frettolose e sempre più punitive, che poi non durano mai solo la stagione di una emergenza, ma restano a tempo indeterminato.

Io credo però che non si curi un tumore con l’aspirina. Il ricorso spregiudicato alla carcerazione allontana momentaneamente il virus dalla società, ma nello stesso tempo non lo debella. La società non ha paura di un malato guarito, teme invece un ricoverato dimesso senza essere stato curato adeguatamente. Per la stessa ragione, se un detenuto è stato allontanato dalla società per scontare la sua pena, quella pena deve avere un senso, e il ritorno alla libertà deve essere quello di una persona nuova, diversa.

Cosa succede invece? Che lo Stato individua il malato, lo incarcera, lo isola, il tutto in nome della sicurezza dei cittadini. Poi spesso lo abbandona a se stesso. Il recente decreto legge “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” usa questa interessante parola, “pubblica”, cioè di tutti i cittadini. A me pare che con il sistema attuale non esisterà mai una sicurezza degna di questo nome, non esisterà un senso da dare alla pena, se non quello di creare ex detenuti che dopo anni di carcere usciranno uguali a quando sono entrati, e non pronti a convivere nel rispetto dei diritti altrui. Ci sono norme studiate proprio per la sicurezza, per riportare gradualmente nella società chi deve scontare una pena, e invece si pensa che sia meglio far stare la gente in galera di più. Io cittadino, perché comunque prima di essere detenuto sono stato un cittadino, sarei incazzato se il carcere mi restituisse non persone in via di guarigione, ma malati terminali. Io cittadino vorrei giuste condanne, ma soprattutto il recupero di chi ha sbagliato. Perché io cittadino so che un domani queste persone, scontata la propria pena, faranno ritorno fra di noi.

Ci sono casi in cui aspettare il processo a casa

è un diritto di tutti, e non solo di “Tommaso”

 

di Elton Kalica

 

Qualche giorno fa, sfogliando il Mattino di Padova, mi sono imbattuto in un titolo inconsueto: Tommaso torna libero, obbligo di firma. Ha ammesso al gip: “Ero molto ubriaco”. Il sottotitolo aggiungeva che Tommaso ha cercato di investire un carabiniere ed è accusato di tentato omicidio.

I titoli dei giornali a volte sembrano degli slogan che, oltre a voler colpire l’attenzione del lettore, lanciano anche messaggi di paura. Ma in questo caso il titolo non ha suscitato in me alcuna preoccupazione, e incuriosito dall’insolito messaggio mi sono fermato a leggere la storia del giovane Tommaso, un venticinquenne che un sabato ha bevuto cinque drink e poi, messosi alla guida del suo Suv e avendo incontrato un posto di blocco, ha pigiato sull’acceleratore tentando di investire un carabiniere, che si è salvato buttandosi per terra. Il giornalista sottolineava che il giovane non è un delinquente ma uno studente “tradito dai fumi dell’alcol”. Sono da dodici anni in un carcere italiano e tutti i giorni leggo almeno un giornale e ascolto diversi telegiornali, ma è davvero raro trovare un giornalista che ci informi in modo pacato di un crimine. E non posso nascondere la felicità che mi dà vedere che ci sono giornalisti capaci di conservare l’onestà intellettuale di non calcare la mano su chi commette reati. Tuttavia mi sento confuso, se penso che gli incidenti stradali sono diventati un’emergenza, guidare ubriachi è considerata un’infrazione grave e uccidere un appartenente alle forze dell’ordine è punito con l’ergastolo, stando alle nuove leggi di questo Governo. Mi vengono in mente casi di cronaca in cui le responsabilità penali del reo non erano più gravi di quelle di Tommaso, ma i titoloni dicevano “Rumeno sorpreso a rubare è già fuori dal carcere!”, “Albanese alla guida ubriaco uccide ed è già fuori”, e poi gli articoli descrivevano criminali senza un’anima, senza una storia.

Ricordo molti articoli in cui la notizia di una scarcerazione dopo pochi giorni era lanciata come un atto d’accusa verso una giustizia che non funziona, o verso dei magistrati buonisti.

L’Italia ha un sistema giudiziario che offre la possibilità agli incensurati accusati di un reato, se non sono ritenuti pericolosi, di attendere il processo fuori dal carcere, e di entrarci solo a condanna avvenuta per espiare la pena. Così il giudice non deve stabilire una cauzione in denaro, e quindi anche i poveri possono usufruire di questa garanzia. Io sono contento che Tommaso attenda il processo vicino ai suoi cari, ma spero tanto che da ora in poi tutti i giornalisti pensino al suo caso quando dovranno dare la notizia di un immigrato o di un rom che, dopo aver fatto un reato, usciranno dal carcere in attesa di giudizio. La compassione e la comprensione non devono essere date solo a chi ha dietro alle spalle una famiglia in grado di pagare i danni, ma a tutti quanti.

 

 

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