Spazio libero

 

I bocconi amari ingoiati dalle transessuali in carcere

I miei 343 giorni di detenzione li ho passati lottando

Mi chiamo Francesca, ma all’anagrafe sono ancora Matteo,

sono una ragazza transessuale di 31 anni

 

di Francesca M.

 

Mi chiamo Francesca, ma all’anagrafe sono ancora Matteo, sono una ragazza transessuale di 31 anni, il carcere l’ho conosciuto per la prima volta nel 1998 e poi ci sono tornata nel 1999, nel 2001 e per finire nell’agosto 2005, con l’ultimo soggiorno, quello durato un anno e che mi ha segnato profondamente.

Vista così sembra la vita di una delinquente feroce e invece, seppure abbia sbagliato, i miei errori sono stati solo un paio… uno nel 1998, quando per evitare di prostituirmi accettai un lavoro poco chiaro ma all’apparenza non delinquenziale che mi ha portato in carcere le prime due volte… 3 giorni nel 1998 e poi 9 giorni nel 1999, ai quali seguirono arresti domiciliari, obbligo di dimora, obbligo di firma e poi anche affidamento in prova… Una lunga storia giudiziaria ad oggi ancora non conclusa che dondola, nonostante l’indulto, sulla mia testa come una spada di Damocle.

Il mio secondo errore, quello del 2001… che nell’agosto del 2005 si è presentato per farsi pagare il conto… Un’estorsione, anzi un concorso in estorsione in cui io, con rito abbreviato, fui condannata a anni 1 e mesi 6, solo che avevo dei precedenti e così la condanna è diventata definitiva e il 23 agosto 2005 una squadra di polizia del Fatebenefratelli ha eseguito una cattura nei miei confronti degna di un boss mafioso, almeno così mi sentii in quel momento… Non è da tutti essere arrestati da tre macchine di polizia, 9 agenti e nel proprio appartamento… Uno shock, un incubo a cui per i primi tre giorni non riuscivo a credere… L’arrivo in questura, le impronte digitali, le manette, le risate e poi il viaggio verso San Vittore, dove, arrivata nell’ufficio matricola del reparto maschile, venivo isolata per poi essere perquisita… e poi lasciata di nuovo isolata nella gabbia piccola, senza bagno, senza acqua, senza nulla… Continuavo a ripetermi che mi sarei svegliata… e invece nulla fino a quando è tornato disponibile un agente per accompagnarmi nel raggio degli isolati!

Il carcere di San Vittore ha un secondo carcere al suo interno, è il secondo piano del sesto raggio… la sezione dei reati infamanti “dei froci e delle transex”, e questa volta l’avrei conosciuto come non mi sarei mai aspettata. Ci sarei rimasta quasi un anno, salvata da altri due mesi con l’indulto e dal mio carattere non facile ma utile.

Salii in sezione che erano quasi le otto di sera, quando arrivai non sapevano dove mettermi e dopo qualche tentennamento mi portarono alla cella 207, dove erano ristrette altre 3 transessuali… Appena entrata una colombiana, la più vecchia della cella, mi si avvicinò chiedendomi di che nazionalità fossi, e mi salvai solo in quanto non brasiliana… Nella cella di fianco altre 5 transessuali, tutte brasiliane e poi in altre due celle altre due trans, italiane detenute da lungo tempo e quindi agevolate…

Questo è stato il mio arrivo, nulla di sconvolgente o di diverso dalle altre volte… Per proteggermi inizialmente mi estraniai, facevo finta che fosse solo un sogno e che presto sarebbe finito tutto… invece dopo tre giorni passati a pensare ad altro, una notte mi svegliai con due scarafaggi sul muro e uno sul letto… Fu in quel momento che mi guardai attorno, fu quello l’istante in cui vidi per la prima volta la cella… scoppiai a piangere e per non svegliare le mie compagne andai in bagno. Sul tavolo della cucina era abbandonato un rotolino di pancetta del vitto della sera prima, sopra al quale, a fare festa, un’altra decina di scarafaggi…

Ebbi una crisi isterica, piansi per almeno due ore e ogni 10 minuti lo spioncino del bagno si apriva e vedevo l’occhio dell’agente di turno che si assicurava delle mie condizioni…

In carcere non si viene privati solo della libertà, ma anche della dignità di esseri umani. Poi, grazie al mio carattere, riuscii in parte a riacquisirne un po’… non troppa però, visto che ero nel raggio dell’inferno e che sono una transessuale… Il mio io femminile mi ha penalizzato tantissimo, e dicendo che la mia carcerazione è stata più difficile di quella di un qualsiasi altro detenuto presente in quel piano sono sicura di non sbagliare… Sul piano c’erano 120 detenuti, di cui 13 transessuali, 4/5 omosex e il rimanente per i reati come omicidio, violenza sessuale e/o protetti per motivi legati alla carcerazione in atto… cioè persone coinvolte in risse e/o minacciate da altri detenuti di altri piani. Naturalmente anche a San Vittore esiste una socialità, esiste l’ora d’aria, la palestra e i gruppi… solo che noi transessuali ne eravamo escluse… o meglio l’aria potevamo farla ma in un apposito spazio a noi dedicato, e per parlare solo tra noi… Non tutte la frequentavamo e con davvero poche – vista la differenza di mentalità dovuta alla distanza geografica e di cultura dei nostri paesi – riuscivamo ad andare d’accordo. Io per questo motivo sono stata cambiata di cella quattro volte.

Anche la mia iscrizione a scuola sembrava essere un problema… Per riuscire a frequentare in quell’anno la ragioneria dovetti fare “rumore” e finire davanti al vice-direttore, e quando mi iscrissi a catechesi l’agente chiese stupito al suo superiore se io potevo andare con i “normali”, insomma ero isolata anche nel raggio dei protetti, ero considerata e mi sentivo anormale…

 

Solo adesso, dopo tre mesi di libertà, sto ricominciando a prendere possesso del mio corpo e della mia testa

 

I miei 343 giorni di detenzione li ho passati lottando: ho lottato contro l’ignoranza di alcuni operatori penitenziari, contro le stesse transessuali, contro più d’un agente… Ho ingoiato tantissimi bocconi amari per non lasciarmi andare, per non arrendermi, ma non è stato facile in quel posto… Il carcere è vecchio e sovraffollato, siamo state fino a sei in 12 metri quadri compreso bagno-cucina. Il vitto che distribuiscono è scarsamente commestibile e per nutrirti devi fare la spesa tre volte alla settimana e a prezzi molto più alti rispetto a fuori.

L’acqua in cella è solo fredda e la doccia esterna è comune, non sempre calda perchè la caldaia è spesso guasta, la puoi fare solo a un certo orario e non nei giorni di festa, la turca è a 1,5 metri da dove cucini, i muri sono umidi e ammuffiti, sulla finestra non puoi metterci nulla perchè anche lì c’è il dominio degli insetti… Una situazione di vita pesantissima, dove ho visto gente tagliuzzarsi le braccia per protesta e per disperazione, e questo più volte, anche nella mia cella… Ho convissuto con persone con forti problemi psichici e di salute, con il terrore, dettato dall’ignoranza o dallo spirito di sopravvivenza, di ammalarmi prima e di diventare come loro dopo… perchè dopo un anno avevo quasi ceduto al farmi del male… a prendere la terapia serale, gocce di psicofarmaci che in carcere spesso distribuiscono come caramelle, e a vegetare come facevano tutti o quasi…

La cosa che ho più voluto nella mia vita è diventare quella che sono, Francesca, e invece in quel posto per mancanza di fondi (così dicevano) sono dovuta restare un anno senza terapia ormonale e sostegno psicologico. La criminologa che si occupava della mia sintesi non volle chiuderla perchè secondo lei dovevo accettare che la transessualità è una malattia come il cancro, e che se volevo guarire dovevo curarmi… La psichiatra, per quanto gentile e disponibile, era evidentemente imbarazzata alle mie richieste e impedita ad aiutarmi dalla complessità dei problemi di San Vittore. So che sono arrivata a non guardarmi più allo specchio, a non piacermi e a non riconoscermi, e solo adesso, dopo tre mesi di libertà, sto ricominciando a guardarmi, sto ricominciando a prendere possesso del mio corpo e della mia testa. Vorrei dimenticare tutto, dire a me stessa di ricominciare da capo ed eliminare il ricordo di quest’esperienza, ma nonostante tutto non mi riesce…

Continuo a pensare alle persone che ho lasciato in quel posto e con le quali avevo legato, qualcuno anche con grandi colpe ma non per questo non essere umano… Paola, 14 anni di carcere da fare e Melissa 16 anni già scontati, le uniche due trans con cui sono riuscita ad avere un feeling, e poi Goffredo e Salvatore gli spesini, Lello e Hamuda gli scrivani, Bruno il frigorista-barbiere, Sharky l’addetto della MOF, Onofrio l’addetto della palestra che non ho mai potuto frequentare e poi i miei compagni di scuola. Adi, 21 anni di cui 3 in carcere, non dimenticherò mai i suoi occhi, suo zio Vinetu che quando arrivai a San Vittore mi aiutò regalandomi un sorriso, Mario ed Eros “le bestie di Satana”, così complessi e diversi tra loro, il vecchietto della 212, Murel il bevitore di candeggina, Stalin il bambino mangia-biscotti e tutte le persone che ho conosciuto, quando sono riuscita a diventare lavorante poco prima dell’indulto…

Vorrei dire grazie ai volontari di San Vittore: Maria, Fiorina, Rosalba, Massimo, Ulla e a tutti gli insegnanti, anche loro volontari, che dopo la pensione hanno scelto di insegnare ai detenuti che hanno voglia di imparare non solo le loro materie, ma anche un po’ di vita, a tutte quelle persone che da anni si occupano di portare un sorriso non retribuito e che spesso non vengono citate in quel luogo così ostico.

In quel carcere non ho sofferto da sola e ho conosciuto persone che hanno saputo toccarmi l’anima; in carcere non ci sono solo delinquenti, ci sono esseri umani e questo anche nel raggio degli isolati. Hanno una loro storia, con emozioni e sentimenti come tutti, gente che ha sbagliato ma che merita di essere considerata e recuperata. Il carcere dovrebbe essere il posto dove pagare le proprie colpe, ma anche il luogo dove poter capire i propri errori e riacquisire la dignità e i valori dell’essere umano. Invece, in base alla mia esperienza, troppo spesso è un luogo dove covare la rabbia e dove buttare via periodi più o meno lunghi della propria vita. È sbagliato tenere sei persone in 12 metri quadri a oziare e a bere gocce di valium/minias/alprazolam/hen/eccetera.

 

Ora, vedendo “ALTROVE”, la trasmissione dal carcere di Velletri, quasi mi viene da sorridere e da ritenere i carcerati di Velletri dei fortunati… ma IO so che la lontananza dagli affetti e la prigionia, anche se meno devastante come la loro, non è un divertimento… solo che la gente comune non sa cosa vuol dire, ed è per questo che ho scritto questa lettera, per far presente anche la mia esperienza, uguale a quella di centinaia/migliaia di altri esseri umani. Volevo poter dire a qualcuno i miei sentimenti e attraverso voi posso, se vorrete, esternarli a più persone. A quelle persone che sento parlare per strada e che parlano senza cognizione di causa di carceri a 5 stelle, di detenuti che stanno bene in carcere e che dovrebbero a quanto pare restarci a vita.

Il carcere, così come è oggi, è un luogo di sofferenza inutile; se continuiamo a non voler vedere oltre la condanna, quelle persone che oggi soffrono per pagare il loro sbaglio, facilmente una volta pagato ricadranno nell’errore ma non per cattiveria… non avranno mezzi per cambiare e reintegrarsi nella società… usciranno dal carcere con gli stessi problemi di prima e con i debiti… non avranno nulla a cui aggrapparsi per potersi creare un’identità e una vita. Finire in carcere dopo anni dal reato poi non è proprio giusto, per questo penso che si dovrebbe riformare in primis la GIUSTIZIA, rendendola meno lunga e più giusta!

Questa è la mia esperienza, il mio pensiero, la mia storia… spero che raccontandovela possa in qualche modo avervi toccato l’anima e avervi trasmesso i miei sentimenti.

 

 

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