Editoriale

 

Il tempo dell’amore

 

Ma verrà mai, per le carceri del nostro Paese, il tempo dell’amore? È una domanda, questa, che oggi ha un senso particolare: l’indulto, infatti, non ha solo svuotato le galere di casa nostra, ha anche creato gli spazi per una gestione diversa della detenzione. Sarebbe il momento giusto, allora, per ripensare a tutto quello che ha a che fare con i sentimenti, gli affetti, il rapporto tra genitori detenuti e figli. L’amore insomma, chiamiamolo pure con il suo nome, e il sesso anche, perché certo non è uno scandalo pensare che in carcere un detenuto possa incontrarsi con la sua compagna in modo più umano di quel che succede ora. Disumano, semmai, è negare il fatto che una persona “normale” ha anche dei naturali bisogni sessuali, che significa disconoscere non soltanto un bisogno, ma un vero e proprio diritto ad avere una vita affettiva sana.

Tutti sanno che la Giustizia punisce la persona responsabile di un reato indicando un certo periodo da trascorrere in carcere. Un po’ come se ti dicesse: “Sei colpevole e sei pericoloso per la comunità in cui vivi, per questo ti tolgo la libertà per cinque, dieci, quindici anni, e ti chiudo in una struttura dove potrai riflettere sulla tua condotta passata e correggerti per il futuro”. Però non esiste una sentenza in cui si fa menzione di ulteriori privazioni, oltre quella della libertà. Non esiste una condanna a non lavorare, a non ricevere cure in caso di bisogno, e non esistono sentenze che vietano di abbracciare la madre, baciare la moglie o fare l’amore nei cinque, dieci, quindici anni di detenzione. Ma siccome non esiste neppure una legge che permetta l’amore in carcere, allora in tutti gli istituti di pena italiani continua a perpetuarsi questa negazione degli affetti, la quale altro non fa che rendere le condizioni di vita ancora più crudeli. Basti pensare che oggi è assolutamente proibito baciare la propria compagna durante il colloquio e il detenuto che lo fa può rischiare anche una punizione.

Sono tanti i problemi delle carceri ai quali il legislatore dovrebbe mettere mano. Ma noi riteniamo che quello degli affetti si trovi in cima a questa lunga lista, non soltanto perché ha a che fare con un trattamento inumano dei condannati, ma soprattutto perché tocca direttamente le persone care dei detenuti, persone che non hanno commesso alcun reato, che non hanno alcuna condanna sulle spalle, e malgrado ciò sono esse stesse private della libertà di baciare, abbracciare, fare l’amore con la persona che amano.

Con questo numero del nostro giornale abbiamo cercato di raccontare i fragili e complicati rapporti con i nostri cari, e purtroppo il denominatore comune è sempre la sensazione che anche i nostri famigliari siano puniti per i nostri errori e costretti a pagare proprio con la perdita dell’amore, che è l’unico sentimento importante che li tiene attaccati a noi, l’unico sentimento che può realmente determinare un sano reinserimento nella società.

La storia e la letteratura sono ricche di narrazioni di amori difficili. Ma noi crediamo che questo sentimento acquisisca forme profondamente diverse e particolarmente tristi quando scavalca le mura di un carcere e diventa la voce di una sofferenza, che ha bisogno davvero di più ascolto.

Non è certo la prima volta che trattiamo questo argomento, anzi, qualche anno fa abbiamo faticosamente organizzato un convegno all’interno del carcere di Padova, che si è concluso con l’elaborazione di una proposta di legge, sottoscritta da oltre sessanta parlamentari, che introduce la possibilità di colloqui intimi in carcere, come esistono ormai nella maggior parte dei Paesi del mondo.

Vogliamo, quindi, rilanciare con questo numero di “Ristretti Orizzonti” la nostra proposta di legge per “salvare gli affetti”, nella speranza che finalmente il Parlamento si decida a legiferare per permetterci di tenere unite le nostre famiglie, ma anche di continuare a esistere come persone “intere”, fatte di testa, cuore, sesso.

 

 

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