Donne dentro

 

“Cara mamma, quando ci mandi qualcosa da vestire

le misure sono sempre sbagliate…”

 

Io so che hanno bisogno di me, delle mie coccole, quelle che ogni figlio si aspetta dalla propria madre

Quella che segue è una lettera di Claudia, la figlia di Veronica, la detenuta rumena che ormai è conosciutissima a Venezia come “la sarta della Giudecca”, soprattutto ora che finalmente comincia a essere più sarta che detenuta. A settembre, alla festa del volontariato penitenziario nell’isola di San Servolo, Veronica ha presentato cinque secoli di moda veneziana attraverso dieci costumi realizzati da lei. Tra le modelle che sfilavano, c’era anche sua figlia. A filmare madre e figlia, due giovani documentariste che hanno deciso di raccontare con le immagini la storia di Veronica, del suo arresto improvviso per una condanna in contumacia, dei quattro figli rimasti senza madre e senza padre in Romania. La storia torniamo a raccontarla anche noi, partendo però dalla lettera che la figlia ha scritto alla madre alla fine di quattro giorni assolutamente straordinari per una ragazzina, che per quattro anni ha dovuto fare da madre e da padre ai tre fratelli minori.

La Redazione

 

Cara mamma,

voglio fissare sulla carta quello che mi è successo in questi giorni, per ricordarlo sempre. Per venire da te mi sono svegliata alle 5, perché alle 7 partiva il pulman ed io dovevo essere pronta. Alle 11 sono arrivata a Bucarest. All’aeroporto ci sono stati dei problemi, non volevano farmi partire sia per la mia età sia perché avevo pochi soldi. Servivano 500 euro, ma io ne avevo solo 300. Dopo un po’ mi hanno fatto passare ugualmente, anche se credevano avessi raccontato loro una favola, perché ho detto che mi aspettavano delle giornaliste e che erano state loro a prenotare il biglietto.

Prima che l’aereo decollasse ero emozionata, sia perché era il mio primo viaggio in aereo, sia perché t’avrei incontrata per la prima volta in libertà. Emma e Flavia mi aspettavano con un cartello dove c’era scritto il mio nome, con la telecamera che mi ha ripreso in ogni momento e io mi sono sentita una vedette. Essendo giovani, sorridenti e molto aperte, abbiamo fatto amicizia subito. Sul loro volto traspariva bontà e le ho sentite vicine come sorelle.

Sai, quando sono venuta per la prima volta a Pasqua non vedevo l’ora di andarmene, tante persone mi sembravano cattive e antipatiche, oppure era il posto dove andavo che distorceva la realtà. Allora Venezia mi aveva lasciato un gusto amaro, perché non era la città che sognavo da quando ero bambina. Adesso sono rimasta molto impressionata sia dall’architettura, essendo una città costruita misteriosamente sull’acqua, sia per la sua capacità di attirare con generosità gente di tutto il mondo. Una città dove ad ogni angolo senti lingue diverse e le persone sono tutte sorridenti e allegre.

Venezia è magnifica, ma purtroppo tu dovevi rimanere dalle suore e non potevi muoverti liberamente, e questo mi faceva piangere il cuore. Avrei voluto condividere ogni attimo con te, per fortuna siamo uscite due giorni assieme, anche se abbiamo dovuto seguire la strada più breve per arrivare a San Servolo. Con le giornaliste mi sono sentita come se fossi una vecchia amica fra voi. Con Flavia comunicavo a gesti, però con Emma dialogavo in spagnolo (sai, pure le telenovele mi sono servite a qualcosa, anche se nonna mi rimproverava perché diceva che era una perdita di tempo).

Insieme a loro ho scelto i regali per i maschietti che sono piaciuti molto. Desideravo che ci fossi anche tu lì, con noi, avrei potuto vedere se nella tua immaginazione siamo rimasti i bambini di quattro anni fa, visto che quando ci mandi qualcosa da vestire le misure sono sempre sbagliate. Trascorrere con te quattro giorni nella stessa stanza è stato un privilegio che pensavo non potesse essere possibile. Sono contenta che quel posto chiuso non ha cambiato la mia mamma, i tuoi sorrisi non sono diminuiti e i tuoi occhi azzurri non si sono oscurati per le lacrime.

Forza mamma, tra poco tutto finirà e saremo tutti insieme. Pure Rachele mi ha meravigliato, è una donna forte e sorridente, una conferma che le sbarre non oscurano i volti, non mettono cattiverie nel cuore, al contrario è nata un’amicizia senza confine. Mi ha lasciato i suoi numeri di telefono, sia dell’Italia che della Nigeria, e le manderò i tuoi saluti. Mi è piaciuta perché non ha perso il suo buon umore ed è molto comica.

Il giorno più bello è stato sabato, il giorno della sfilata. Mi sono svegliata presto e nascondevo l’emozione sapendo che in serata sarei stata una tua modella. Sono stata anche la tua parrucchiera personale, e non dire che non sono stata brava, hai visto quanti complimenti hai ricevuto. Quando sono arrivata a San Servolo sono rimasta impressionata da quante persone ti conoscevano e sapevano tutti che ero tua figlia. Forse ti assomiglio, perché mi vedevano per la prima volta.

Indossare il primo vestito fatto da te e sfilare davanti ad un pubblico mi ha emozionato tanto. Tutti sapevano chi eri, e ricevere tanti complimenti perché ho una mamma brava come te è stato meraviglioso. Mamma sono orgogliosa di essere tua figlia. Tu che hai accettato qualsiasi situazione e hai fatto di tutto per il nostro benessere. Ho trascorso delle belle giornate a Venezia, circondata da persone speciali, e spero che presto ogni giorno possa essere una festa per noi.

 

 

La voce di Veronica, oggi finalmente

 più sarta e mamma che detenuta

 

Mi chiamo Veronica, sono rumena, gli ultimi quattro anni li ho trascorsi in carcere e per altri quattro dovrò ancora resistere dietro le sbarre. Ho vissuto fino al momento dell’arresto in Romania, dove sono incensurata e dove i processi in contumacia non esistono. Quando sono uscita per la prima volta dalla Romania, nel 2001, avevo fatto il passaporto solo due settimane prima e certo non sapevo di essere ricercata dall’Interpol. Quello stesso giorno sono stata arrestata al confine con l’Ungheria, perché da due anni c’era un mandato di cattura internazionale per trasporto clandestino di rumeni sul territorio italiano.

Sono stata 39 giorni in un carcere dell’Ungheria, dopo di che mi hanno incatenata ai polsi e scortata nelle carceri italiane. Quando sono arrivata all’aeroporto milanese, la prima fermata è stata la questura, dove mi hanno registrato e mi hanno anche sequestrato tutti i soldi e gli oggetti d’oro che avevo e che non sono mai più stati ritrovati. Rimango solo con una fotocopia rilasciata dalla polizia ungherese e tante domande che non trovano risposta.

“La legge è uguale per tutti”, dicono. Io so che ci sono tanti processi fermi da anni che qualcuno “dimentica”, ma il mio è andato velocissimo. Non mi è stata data la possibilità di difendermi. Non ho visto né tribunali, né giudici, solo la pena definitiva di otto anni e una piccola contravvenzione di un miliardo e cinquecentomilioni di lire. In Romania non ho niente. Tutta la mia ricchezza sono i miei quattro figli rimasti soli (il più piccolo al momento dell’arresto aveva solo 5 anni e la più grande 14).

Mio fratello, che era il protagonista di questo “trasporto di clandestini rumeni”, è stato condannato a quattro anni e sei mesi, mentre io, che avevo un ruolo marginale, sono stata condannata a quasi il doppio della pena inflitta a lui. Ma vuoi o non vuoi, alla fine bisogna mettersi il cuore in pace e rassegnarsi. Mio fratello dopo tre anni e sette mesi è stato messo in libertà, io devo accontentarmi di respirare l’aria di libertà concessa dal Magistrato di Sorveglianza nei giorni di permesso premio.

A Pasqua, dopo tre anni, ho incontrato in carcere mia madre e mia figlia Claudia. Era il suo diciassettesimo compleanno e ci siamo accontentate di sei ore di colloquio più altre tre di colloquio straordinario, le ho fatto gli auguri sottovoce per non dar fastidio alle persone presenti nella stanza.

Mia figlia, che da tre anni fa da mamma ai suoi tre fratelli più piccoli, aveva conservato il suo sorriso di bambina, puro. La sua infanzia finita forzatamente con una mamma sfigata e il padre che ora non c’è più (la malattia è peggio del carcere), non è stata per lei, per fortuna, motivo di odio.

Al contrario lei mi ha portato una preghiera, chiedendomi di invocare pietosamente Dio ogni giorno, perché è l’unico che ascolta il nostro grido. La mia ferita non è totalmente guarita del sentimento di rabbia nato nel giorno dell’arresto, ma le preghiere dei bambini innocenti hanno sbloccato parzialmente la mia strada.

 

Le nuove tappe della mia “carriera” di sarta, la voglia di recuperare  il rapporto con i miei figli

 

Appena arrivata in carcere a Venezia avevo cominciato subito a lavorare, non solo per impiegare il tempo, ma perché era un dovere considerando che sono il capofamiglia. All’inizio il lavoro di scopina o in cucina era solo un obbligo, ma quando sono passata nel laboratorio di sartoria e sono stata assunta dalla cooperativa Il Cerchio, non mi è mai più mancata la passione. Con la cooperativa e il mio professore di italiano, Massimo Burigana, che mi ha aiutato a coltivare l’interesse per la cultura e la moda veneziana antica, ho lavorato per sviluppare un nuovo progetto più stimolante, finanziato dalla Regione Veneto, che prevedeva la realizzazione di dieci vestiti veneziani di cinque secoli, dal ‘500 al ‘900.

Il 15 settembre la schiavona e la Lucrezia “gentildonna” sfilavano mano nella mano con la baùtta veneziana nell’orto del carcere. È stata un’atmosfera di festa, le sbarre non sono riuscite ad oscurare i volti sorridenti delle mie compagne e il sole mandava i suoi raggi più che mai consolatori. Le ragazze coinvolte hanno passato ore davanti allo specchio per riuscire a ricostruire le acconciature il più simili possibile a quelle delle relative epoche degli abiti che indossavano. Il premio-lavorativo per me è stato un secondo permesso di quattro giorni per assistere alla sfilata delle mie creazioni, che è stata organizzata a San Servolo dall’associazione Il Granello di Senape.

Quattro giorni trascorsi nella Casa Giovanni XXIII°, con mia figlia, arrivata dalla Romania per condividere con me la gioia di respirare l’aria libera nelle dosi prescritte dal Magistrato di Sorveglianza. Niente di più bello che abbracciare la propria figlia e vederla felice, anche se al tempo stesso resta l’amarezza che lei non sia riuscita a vivere nel modo giusto la sua infanzia, e abbia dovuto fare la mamma all’età di 14 anni. “Ma perché la legge sulle mamme detenute è valida solo per i bambini italiani?”, mi chiedeva lei, e me lo chiedo anch’io, ma non ci sono risposte.

Quattro anni persi, ma non sono solamente quattro, perché sono quattro anni per quattro figli, impossibili da recuperare. La loro voce serena e rassicurante non mi fa comunque star tranquilla, perché so che hanno bisogno di me, delle mie coccole, quelle che ogni figlio si aspetta dalla propria madre. La prima domanda che mi fanno sempre è “quando torni?” oppure “quando possiamo venire noi da te?”. Ma le risposte solo Dio le sa. Per fortuna adesso ridono, e la loro gioia è la conferma del “risanamento” che c’è stato in loro, perché all’inizio, quando avevamo a disposizione solo dieci minuti di telefonata, i nostri colloqui erano fatti di frasi interrotte da lacrime e sospiri.

Quando Annalisa, coordinatrice del mio lavoro, mi ha proposto che mia figlia sfilasse con uno dei miei vestiti, ho aspettato a rispondere, perché preferivo prima sapere cosa ne pensava lei, non volevo si sentisse “la figlia della detenuta”. Lei è rimasta la bambina stupenda di quattro anni fa, senza il pregiudizio che sua madre è una reclusa, e con orgoglio mi ha detto: “Sfilare con un tuo capolavoro è un onore che non tutti possono avere”, e poi si è divertita un sacco. La sfilata… non vorrei fare i commenti proprio io che sono stata la protagonista… so che era un lavoro fatto con passione, e sono stata appagata dai sorrisi di mia figlia e dai complimenti che mi venivano fatti mentre me ne andavo in fretta per arrivare in tempo al mio solito “posto”. Avrei voluto ringraziare tutti quanti, ma l’emozione che mi dominava non mi permetteva di dire una parola.

 

 

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