Il manifesto di Ristretti Orizzonti per salvare gli affetti delle persone detenute

 

Facciamo entrare L’affetto in carcere

Dal convegno “Per qualche metro e un po’ di amore in più”, il manifesto di Ristretti Orizzonti per salvare gli affetti delle persone detenute

 

Salvare gli affetti delle persone detenute, anche come investimento sulla sicurezza perché solo mantenendo saldi i legami dei detenuti con i loro cari, genitori, figli, coniugi, sarà possibile immaginare un reinserimento nella società al termine della pena.

È questo il tema del convegno organizzato oggi da Ristretti Orizzonti nella Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova.

 

Dal convegno è uscito un manifesto con alcune proposte concrete per rendere il carcere “più umano”:

  Nell’attesa dell’approvazione di queste riforme dal convegno di Ristretti Orizzonti sono state

avanzate anche una serie di proposte che potrebbero essere attuate subito, con una semplice

circolare dell’Amministrazione penitenziaria, senza neppure cambiare una legge:

 

 

 

 

Intervista a Roberta Cossia, magistrata di Sorveglianza a Milano

 

“Io credo che i tempi siano maturi per sollevare la questione dei colloqui intimi”

Ma “anche all’interno della stessa magistratura ogni eventuale apertura di questo tipo viene vista a volte come un regalo inutile e sovrabbondante, superfluo e addirittura negativo rispetto appunto a questa dimensione afflittiva che invece nel pensiero generale è quella che deve prevalere”

 

Raccontano i detenuti che sono in carcere da tanti anni che “non ci sono più i magistrati di Sorveglianza di una volta”, del periodo subito dopo la riforma carceraria del 1975. Giudici che, come racconta  Carmelo Musumeci, “pieni d’entusiasmo e passione entravano  in carcere, visitavano le sezioni, passeggiavano nei cortili dell’ora d’aria insieme ai prigionieri. E non si fermavano solo a questo, entravano nelle celle, si sedevano sulle brande e spesso bevevano il caffè insieme ai detenuti (in carcere lo fanno buono, l’unica cosa che riesce bene in questi brutti posti)”.  Per questo ci ha colpito come la magistrata di Sorveglianza di Milano,

Roberta Cossia, ha parlato del suo lavoro: “Un lavoro che è al confine del diritto, un mestiere che ha come obiettivo e come principio base quello di intercettare i profili della personalità dei condannati e di cercare di trovare, nelle maglie della legge, quel trattamento individualizzato di cui parla l’Ordinamento penitenziario, che dovrebbe portare a restituirli alla società come persone migliori (…) Sono magistrato di Sorveglianza, ormai da 11 anni e tante volte nel mio ufficio al settimo piano del Palazzo di

Giustizia di Milano mi sono sentita sola e impotente, quando si cerca un’interpretazione della legge che sia meno penalizzante per i condannati, quando si va a fare un giro per le celle di San Vittore o per il centro Clinico di Opera (…) e ci si sente in grave difetto per non avere fatto niente, per non avere fatto di più”. Abbiamo così deciso di intervistarla sul tema che più ci sta a cuore oggi, quello degli affetti.

 

a cura della Redazione

 

Ristretti Orizzonti ha appena lanciato una campagna per “liberalizzare” le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri famigliari, come già avviene in molti Paesi. Vogliamo partire da qui?

Partiamo da queste vostre proposte sugli affetti delle persone detenute che ho letto e che si collocano in un periodo in cui sembra che ci sia stato un cambio di passo nella gestione che la politica opera dei rapporti con la magistratura e la popolazione carceraria, un cambio di passo che si è visto e si è verificato nei provvedimenti legislativi che sono stati emessi negli ultimi due anni, seppure un po’ confusi. Io, è chiaro che sono favorevole a questo tipo di apertura e prima di me lo erano stati i colleghi, in particolare quelli di Firenze, che già avevano sollevato la questione di incostituzionalità dell’art. 18 comma II° dell’Ordinamento penitenziario.

Una questione che aveva fatto presente come la disciplina attualmente vigente impedisca al detenuto di mantenere i rapporti affettivi con il coniuge, favorendo il ricorso a pratiche sessuali che sostanzialmente portano a uno squilibrio fisico e psicologico e poi di fatto ad impedire dei rapporti regolari con i famigliari, violando cosi, si era sostenuto, gli articoli 2, 3, 27 della Costituzione, oltre che il diritto alla salute. La questione, per come era stata posta, era stata ritenuta inammissibile dalla Corte Costituzionale, ma è una questione a tutt’oggi sul tavolo. Tanto più per coloro che stanno scontando reati assolutamente ostativi e che di conseguenza hanno il divieto assoluto di accedere a benefici premiali che possano portare a un ricongiungimento con i loro famigliari.

Noi al tribunale di Sorveglianza di Milano fino ad oggi non abbiamo portato questa questione con sufficiente forza nelle aule, dove avrebbe dovuto essere portata, diciamo in tutti i dibattiti pubblici, è una questione “nascosta” di cui si parla poco ed ancor meno si discute, un po’ per “pruderie”, un po’  per difficoltà oggi di portare il dibattito su delle questioni che sembrano secondarie. Ma non sono secondarie, non sono affatto secondarie, anzi la questione dell’affettività, della sessualità in condizioni di privazione della libertà personale, per quanto mi riguarda è, invece, una questione che dovrebbe essere vista come centrale.

Peraltro, anche l’Europa nelle Regole minime aveva indirizzato i legislatori verso una maggiore apertura sotto questo profilo ma, come per tante altre questioni, non sembra che le direttive europee siano state seguite. Io credo che i tempi siano maturi oggi per sollevare questa questione, anche se il silenzio legislativo fino ad ora è stato totale.

 

È abbastanza strana la cosa perché in fondo il tema degli affetti dovrebbe essere “più facile” degli altri, nel senso che riguarda persone che non hanno nessuna colpa, come le famiglie, le mogli, le compagne, i figli quindi a noi sembra abbastanza singolare che nel nostro Paese, che mette la famiglia sempre al centro dell’attenzione, si sia cosi trascurata una questione come questa. Facevamo in questi giorni un conto elementare: che una persona detenuta incontra la famiglia per un totale di tre giorni all’anno, è una cosa mostruosa a pensarci bene. In questi giorni abbiamo letto che l’Algeria è l’ultimo dei paesi arabi che sta introducendo i colloqui intimi, perché tutti gli altri già ce li hanno. Quindi c’è qualcosa di strano in questo, forse anche una scarsa convinzione da parte di chi opera in carcere, e pure del volontariato.

Quello che, purtroppo, ad oggi si registra è che prevale sempre la dimensione vendicativa della pena, prevale costantemente nei discorsi che generalmente si sentono, ma non soltanto sui giornali dove si cavalca questo sentimento vendicativo come se fosse quello che paga maggiormente nelle campagne elettorali, ma un po’ dappertutto.

Anche all’interno della stessa magistratura ogni eventuale apertura verso condizioni detentive più umane viene vista a volte come un “regalo” fatto a persone che hanno commesso dei crimini e che , di conseguenza, non hanno diritti da rivendicare, ma solo una pena da pagare, un gesto di buonismo da parte dello Stato ritenuto superfluo e addirittura negativo, a fronte, appunto, di questa idea diffusa della dimensione afflittiva della pena che nel pensiero generale è quella che deve prevalere, questa è la mia idea. Per questo anche rispetto alla tutela dell’infanzia, all’evitare che le detenute madri facciano ingresso in carcere e in quegli asili nido terribili che ho visto all’inizio della mia carriera quando ho cominciato a lavorare in Sorveglianza, quei lettini in cella che facevano stringere il cuore, non c’è una particolare attenzione sino ad oggi. Di istituti a Custodia Attenuata per detenute con figli a seguito ce ne sono pochi, istituti separati come l’ICAM che c’è a Milano, noi per esempio l’abbiamo avuto per primi in Italia, ma poi l’esperienza non è stata così subito seguita. Questo io credo che dipenda dal fatto che il legislatore comunque preferisce sbandierare la prevalenza della tutela di esigenze di prevenzione sociale, rispetto a quelle di tutela degli affetti e della dimensione familiare. Eppure questo avviene in un Paese che la famiglia cerca di tutelarla o quantomeno sostiene di volerla tutelare, ecco, però non abbastanza da superare l’opinione pubblica che sarebbe contraria ad eventuali aperture sotto questo profilo.

 

Noi fra i nostri obiettivi riteniamo che non sia secondaria la questione delle telefonate, su cui c’è, secondo noi, una chiusura un po’ assurda. Dieci minuti alla settimana sono veramente una miseria, in tantissimi Paesi si telefona liberamente, qui da noi spesso addirittura in alcune carceri la telefonata all’avvocato viene conteggiata in quei dieci minuti a settimana consentiti.

Chi poi ha un reato del 4 bis prima fascia può fare solo due telefonate, e questo è puramente punitivo, vendicativo, perché poi di fatto se ne fai due, o ne fai quattro, dal punto di vista della

sicurezza non c’è nessuna differenza, quindi la logica è solo quella di rispondere al male con una uguale quantità di male.

Infatti: quando ci fu ad esempio la riforma per cui per i detenuti in 41 bis OP ridussero i colloqui da due a uno, ci fu una levata come di giubilo generale, come se il problema della sicurezza, dei messaggi che potevano passare cambiasse se da due si scendeva a un colloquio, io trovo che sia ridicolo, se ci sono dei problemi di passaggio dei messaggi allora anche un colloquio è un problema di sicurezza, uno o due che differenza fa? Questo è il mio punto di vista, è chiaro che è soltanto per soddisfare un’esigenza, un desiderio vendicativo, è solo quello, perché dal punto di vista concreto, della tutela delle esigenze della sicurezza sociale, non cambia nulla, questo è chiaro. Io sono favorevolissima alla liberalizzazione delle telefonate e penso che sarebbe poi, in un’era telematica come la nostra, assolutamente ovvio. Favorire il mantenimento di punti di riferimento all’esterno, è un aspetto che incide in modo determinante sulla possibilità di un reinserimento proficuo, sensato, mentre il perdere o sfilacciare i rapporti familiari, per poi ritrovarsi ad essere degli estranei, quello si che è criminogeno: perdere i punti di riferimento porta, infatti, il condannato ad una condizione di disagio e di disadattamento totali, senza che questo aspetto possa essere sostituito con qualcosa di equivalente. Credo sia fondamentale mantenere dei legami familiari solidi e soprattutto reali, veri, e solo attraverso la costanza dei rapporti questo è possibile.

 

Nelle proposte di legge che ci sono finora c’è anche un aumento consistente dei permessi premio: trenta giorni in più all’anno per stare in famiglia, che cosa ne pensa? E di un uso meno restrittivo dei permessi di necessità?

Io sono favorevolissima. Noi come ufficio di Sorveglianza di Milano abbiamo, già da anni elaborato, una giurisprudenza, rispetto ai permessi di necessità, che abbiamo concesso in molte situazioni ai detenuti di 4 bis, prima fascia, proprio per coltivare gli affetti familiari, forzando la normativa di cui all’art. 30 OP secondo comma, che si riferisce agli eventi familiari di particolare gravità, da intendersi come una normativa che deve applicarsi non soltanto agli eventi luttuosi, negativi, ma agli eventi famigliari intesi come eventi familiari un po’ particolari, unici che possono essere la Comunione del figlio piuttosto che qualunque evento, con caratteristiche di unicità, che possa riguardare la famiglia, che rivesta un carattere positivo nella vita della persona.

Noi abbiamo ritenuto che la norma dell’articolo 30 OP vada intesa in questo modo, proprio per offrire delle opportunità tratta mentali anche a coloro che ne siano esclusi dall’attuale legislazione.

Rispetto alla proposta dell’eventuale aumento del numero dei giorni di permesso per coltivare gli affetti familiari, sono favorevole, penso che sarebbe ora, appunto, di ripensare veramente tutto l’impianto della legge e di capire quali sono quegli aspetti della vita della persona che il trattamento penitenziario deve cercare di valorizzare.

Cioè gli affetti familiari laddove positivi, appunto, quali elementi di spinta verso un proficuo reinserimento nella società.

 

Su questo, sui permessi, sulle misure alternative, forse sarebbe necessario allargare il dibattito

perché non sono strumenti così usati come vorremmo, cioè noi vediamo che ci sono situazioni in cui appunto le persone vanno in permesso e anche in misura alternativa, e però ce ne sono tante, ancora troppe, in cui vediamo persone vicinissime al fine pena che sono ancora lì inchiodate alla galera. Forse, pure su questo bisognerebbe aprire un dibattito, anche con i suoi colleghi magistrati di Sorveglianza.

Si, sicuramente. La magistratura in questo momento è un po’ ingessata, anzi non lo è in questo momento, lo è da un po’. Ma oggi registriamo anche questo cambio di rotta. Vediamo se questo inciderà in qualche modo anche su di noi, sulle paure, su questa giurisprudenza difensiva che è stata adottata nel tempo. Va detto che siamo in pochi, stritolati tra numeri inaccettabili e anche un po’ isolati culturalmente. Ecco, non c’è una grande diffusione della cultura della rieducazione, ripeto che secondo me a tutt’oggi prevale fortemente l’idea vendicativa della pena, fortemente rispetto a quella rieducativa.

 

Forse si, ma forse si osa anche poco perché, guardi, noi con questo progetto con le scuole, incontriamo veramente migliaia di studenti e a volte anche i genitori e ci accorgiamo che, se le pene vengono spiegate in modo diverso, se le persone che sono in carcere si raccontano in modo diverso, sviluppando un pensiero critico e una consapevolezza rispetto al reato, ‘ questo desiderio di pene vendicative lascia spazio anche ad altre idee. Ma su questa visione cattiva della giustizia ha una responsabilità fortissima la politica, e anche l’informazione. E secondo noi l’informazione pesa spesso anche sulle decisioni di tanti magistrati.

Ne sono sicurissima. Perché io stessa, quando ho avuto in mano delle vicende pesanti, conosciute dai mass media e raccontate come casi emblematici, ho ricevuto delle lettere di minaccia addirittura da parte di semplici cittadini, persone che di fronte ad un permesso premio dato a chi aveva a suo tempo ucciso i genitori, mi scrivevano indignati, sostenendo l’ingiustizia di questa “concessione” fatta a chi non aveva dimostrato, secondo loro, sufficiente resipiscenza. Ma è vero anche che noi, in questi casi, di fronte a questo tipo di decisioni, siamo totalmente isolati, soprattutto culturalmente. È una prognosi, che si deve compiere, si fa una scommessa sulla persona, una scommessa che si basa su delle Relazioni di Sintesi, delle osservazioni fatte da altri, su dei colloqui, ma non molto di più. E questo è, come dire? esprimere un giudizio prognostico che può andare in mille modi, non ha dei contorni molto certi e molto definiti.

Di fronte poi ad una sostanziale non adesione, né da parte della politica, né da parte dell’opinione pubblica e neanche di buona parte della magistratura rispetto a questa idea del recupero, del reinserimento, rispetto a questa non adesione, la magistratura di Sorveglianza è paralizzata perché di fronte al delitto efferato, commesso con modalità efferate, di grande violenza, l’aprire la porta e consentire di uscire è una responsabilità pesante che è nelle mani di una sola persona: di qui la giurisprudenza difensiva degli ultimi anni, io credo. Poi ci sono stati dei singoli casi di cronaca che hanno portato indietro di dieci anni il pensiero e di questo noi paghiamo le conseguenze.

Chiaro che non abbiamo avuto il coraggio dove ci sarebbe voluto del coraggio, nel denunciare queste celle chiuse per esempio, nel dire che dovrebbero essere camere di pernottamento, toccava a noi dire che certi diritti non possono essere compressi. Il diritto alla salute, il diritto alla affettività, toccava a noi e non l’abbiamo fatto. È anche vero che lo spazio che ci avevano dato è un po’ poco.

Mediaticamente intendo dire che non c’è stato mai quello spazio per poter esprimersi, però io credo che sia venuto il momento di passare oltre. Vent’anni di dibattito sulla giustizia si sono incentrati sui problemi di una singola persona e sulle sue vicende giudiziarie e tutto ciò che ne era connesso. Oggi è un dibattito superato, per fortuna stiamo parlando d’altro, abbiamo deciso di cambiare passo, io credo che sia venuto il momento di dire delle cose diverse, di provare, di osare, e soprattutto, secondo me, di elaborare un pensiero. Un pensiero, se posso dire che sia un pensiero globale, che guidi un po’ l’azione del legislatore, che non può agire a caso ma che sia finalizzata ad un’idea, perché è questo il punto:  quello che manca, in questa fase storica, è un pensiero globale, un pensiero guida e quindi siamo un po’ in balia degli eventi, dei fatti di cronaca, di ciò che viene considerato un’emergenza e questo comporta una sostanziale precarietà di tutte le conquiste ottenute, come se dipendessero dall’emergenza del momento. Io mi auguro che sia giunta un’epoca nuova, io ne sono convinta, guardo tutte queste novità con molta speranza, dico la verità.

 

Senta un’ultima questione che ci ha accennato prima, dei permessi di necessità, su chi ha l’ergastolo ostativo o comunque reati ostativi. Ecco, non le sembra che sia venuto il momento proprio di superare il 4 bis è la legge che impedisce proprio la discrezionalità dei magistrati, là dove ci vorrebbe.

Si, certo. Io so che la commissione Palazzo aveva elaborato delle proposte in questo senso; io non so se i tempi siano maturi per l’abolizione dell’ergastolo, come io penso che dovrebbe essere in un Paese civile e per rivedere le preclusioni dell’art. 4 bis OP, ormai assolutamente fuori dalla storia. Si tratta, infatti, di preclusioni difficilmente superabili, che limitano in maniera pesantissima la discrezionalità del magistrato di Sorveglianza che, al contrario, è un valore da difendere, in tutti i modi e in tutte le sedi.

Io non so se i tempi siano maturi, certo è che anche qui occorre un po’ di coraggio nel fare delle valutazioni caso per caso.

 

 

 

 

 

Intervista a don Marco Pozza, cappellano della Casa di reclusione di Padova

 

Alla persona che non ha più la libertà oggi viene sequestrato anche il cuore

Le istituzioni hanno una grandissima responsabilità nei confronti di tutti quei legami d’amore che sono andati spezzandosi all’interno del carcere

 

a cura di Luca Raimondo e Lorenzo Sciacca

 

Don Marco Pozza è sacerdote da dieci anni, i primi tre anni di sacerdozio li ha passati in una parrocchia di Padova, poi quattro anni e mezzo li ha passati in parte a Roma, a fare un dottorato in teologia fondamentale e un anno a Dublino, e poi gli ultimi tre nella Casa di reclusione di Padova come cappellano. Con lui abbiamo parlato di affetti, di amore, di intimità, e di come il carcere rischia di distruggere i legami invece che aiutare a ricostruirli

 

E’ stata una scelta sua fare il cappellano in carcere o le è stato «imposto»?

Mentre studiavo a Roma, mi era stato chiesto di andare una domenica a “tappare un buco” a Regina Coeli, che è il carcere circondariale di Roma, e io che appartengo,  non mi vergogno a dirlo, ad una estrazione politica e culturale molto distante dal mondo della detenzione, e così distante da ritenere la detenzione un mondo che deve essere tenuto nascosto perché privo di dignità, una volta che sono entrato in carcere a Regina Coeli, ho visto che mi si sono aperti gli orizzonti, perché i miei erano davvero gli orizzonti ristretti, come dice il titolo della vostra rivista, per quello che riguarda il mondo dei detenuti. Di conseguenza studiando la teologia e vivendo la realtà delle carceri di Roma, mi sono accorto che queste due realtà si compenetrano a vicenda, cioè per me studiare la teologia significa comunque elaborare un pensiero sul Cristianesimo, che è la scelta di vita che io ho fatto nel mondo della chiesa, però elaborarlo tenendo i piedi piantati per terra nel mondo del carcere vedo che mi aiuta a trovare quell’equilibrio che poi mi è molto utile. Quindi diciamo così, che ho giocato di anticipo con il mio Vescovo, e quando ho saputo che qui non si trovava un prete che volesse venire ad esercitare un Ministero, mi sono offerto io, ma proprio perché era quasi un chiedere scusa al mondo della detenzione, per aver ragionato per trent’anni in una maniera sbagliata, solo per non aver avuto il coraggio prima di parlare di andare a conoscere questa realtà. Quindi è stata una scelta mia, che rifarei nonostante la fatica di questi tre anni, soprattutto alla luce del pontificato di Papa Francesco, grazie al quale del tema della periferia se non altro è ritornato di moda parlare, speriamo che per i prossimi anni questa moda diventi anche storia concreta.

 

Lei sa che la nostra redazione ha dato vita ad una campagna per una nuova legge che tratti in maniera più umana gli affetti delle persone detenute. Cosa ne pensa, anche in considerazione del fatto che nei giorni scorsi si è svolto il Sinodo dedicato proprio alla famiglia?

Io penso che quella che voi state combattendo, perché qui si tratta di una vera e propria battaglia sul mondo degli affetti, è una battaglia che non dovrebbe essere neanche necessario fare, per un semplice motivo: perché se tu ad una persona, ma non ad una persona che ha perduto la libertà, quello è un passaggio successivo, se tu ad una persona in stato di normalità o di apparente normalità limiti il campo degli affetti, il campo del cuore, che quindi è il campo della memoria, delle sue relazioni, dei suoi rapporti più intimi, già nel mondo fuori privi la persona della grammatica migliore per poter diventare uomo. Se tu questa privazione la infliggi a una persona che è già stata privata della sua libertà, questa privazione, non ho paura ad usare questo termine, diventa quasi come una forma di tortura, perché una persona che entra nel carcere, all’istituzione ha già riconsegnato tutto, cioè l’istituzione si è già ripresa tutto della sua storia, si è presa la sua libertà, e quando tu prendi la libertà di una persona gli porti via la possibilità di essere protagonista della sua storia.

Quello che gli rimane sono gli affetti e il cuore, perché il carcere vero e proprio secondo me inizia quando si chiude il blindato e tu sei lì che fai i conti con la tua solitudine, ecco se in quel momento alla persona che non ha più la libertà, non ha più relazioni, se a quella persona tu sequestri anche il cuore, allora vuol dire veramente che la persona la vuoi far patire all’inverosimile, ma il patimento non è la condizione migliore per rieducare un essere umano. Quindi la battaglia degli affetti è una battaglia così importante che se noi, e lo dico questo come uomo di fede, se noi apriamo il Vangelo, Gesù Cristo stesso, la prima cosa che fa quando incontra le persone, soprattutto le persone sofferenti, le persone che hanno un retroterra di fallimento, le vite deragliate, la prima cosa che Cristo riaccende dentro di loro è il cuore, perché il sogno di Cristo nei Vangeli è questo, che nessuna casa sia senza la festa nel cuore.

Qui il grande dramma è di ritornare in cella alla sera e avere il sospetto che non c’è più nessuno ad aspettarti, e allora si capisce il collegamento tra la disperazione, la solitudine e anche il suicidio, il carcere è sovraffollato di disperazione, non è sovraffollato di cattiveria ma di disperazione, e sulla disperazione il mondo del volontariato e le persone di buona volontà possono fare tanto.

 

Sicuramente le sarà capitato di vedere le lunghe file che si formano per fare i colloqui al di fuori del carcere, la prima volta che le ha viste cosa ha pensato?

Mi ha preso un magone, un forte senso di desolazione nel cuore, qui le mamme sono eroiche, lo ha detto Papa Francesco in una maniera splendida qualche mese fa, quando gli hanno chiesto: “Secondo te, come dovrebbe essere la Chiesa?”, e lui ha usato un’immagine che per noi è stato un vento a favore e ha detto: “Io la Chiesa la immagino come la mamma dei detenuti, perché sanno metterci la faccia e inseguire i propri figli anche quando si perdono nei sentieri di disperazione”. Ecco per me a vedere quelle lunghe file là fuori, da una parte mi viene un grande senso di desolazione, perché viviamo in una città così civilizzata, nella quale però è possibile vedere delle mamme che fanno dei viaggi di fortuna, per venire su dal Sud Italia, o quelle famiglie che vengono dall’estero che dormono in macchina la notte, che affrontano attese interminabili, tre, quattro ore per avere un colloquio, ma soprattutto dall’altra parte un senso anche di grande dignità. Quindi io spero che strada facendo riusciamo a costruire dei percorsi di riconciliazione anche all’interno di questa nostra città, all’interno della nostra Diocesi, per esempio per dare modo, soprattutto le parrocchie qui del vicinato, di aprire le porte a queste mamme, a queste famiglie che partono da lontano, che già devono affrontare la pesantezza di un viaggio, la tristezza di un percorso anche interiore, ma almeno che vengano qui e trovino la porta aperta per poter essere trattate come donne, non come mamme di delinquenti, perché non lo sono.

 

Ha conosciuto mamme, parenti o figli di detenuti, e se si, mantiene ancora oggi i contatti con loro?

Voi potete immaginare che il lavoro di un sacerdote all’interno di un carcere è un lavoro che viaggia su livelli diversi, c’è il livello del lavoro all’interno qui con voi, poi c’è un livello di lavoro che è altrettanto importante per me, che è quello di sensibilizzazione all’interno della nostra Diocesi. Tenete presente che la Diocesi di Padova ha un bacino di utenza di 1.200.000 abitanti, 456 parrocchie, voi provate a pensare se ogni parrocchia potesse tenere aperta la porta per una famiglia, significherebbe che per circa 500 detenuti ci sarebbe un punto di appoggio nella Diocesi, è su questo che noi stiamo lavorando, però è un cammino di sensibilizzazione da fare. Poi il terzo livello è quello con le famiglie vostre. Significa che, io lo so che qui dentro le esigenze possono essere tantissime per un detenuto, però quella carità concreta che noi raccogliamo grazie a tante persone di buona volontà che ci sono nel mondo, noi stiamo proprio cercando di usarla per questo, dare la possibilità a qualcuno che da tantissimo tempo non riesce a riabbracciare un bambino, una mamma, uno zio, un parente, la moglie, di dirgli: guarda questo Natale voglio che sia un Natale diverso per te, ti offriamo noi questa opportunità.

Ecco allora che anche la vostra battaglia per gli affetti, voi la combattete da una parte, noi la stiamo combattendo dall’altra parte nel nostro piccolo.

 

Se le diciamo la parola intimità, la prima cosa che le viene in mente qual è? Visto che le prime volte che si è parlato di una legge che permettesse i colloqui intimi per i detenuti, subito i media sono riusciti a sparare titoli come “Celle a luci rosse”…

Vi ringrazio per la domanda, perché grazie a Dio, pur appartenendo ad un’istituzione come la Chiesa, e una certa parte di Chiesa può essere forse tacciata di aver sempre legato l’intimità al sesso, io personalmente mi sento molto tranquillo nel pensare cha la prima immagine che a me viene in mente quando sento il termine intimità è l’abbraccio fra due persone che si vogliono bene. Per cui penso che questa battaglia sugli affetti comporterà una grossa opera di sensibilizzazione, perché tutto quello che viene chiesto dalle persone che sono detenute, suona sempre come qualcosa che non è giusto, perché loro hanno infranto le leggi, perché loro non fanno più parte della società. Invece voi fate ancora parte della società, però siete dentro queste discariche sociali, che sono diventate le carceri, che dovrebbero avere uno scopo preciso, che è quello di rieducare: però come si può rieducare qualcuno, lavorando su tutta la persona ma non sul cuore? È una follia!

Serve invece un procedimento contrario, devi partire lavorando sul cuore, sull’intimità di una persona, perché il cuore non è solo una sede dell’amore, attraverso il cuore passa la conoscenza. Questa questione degli affetti in carcere è dilaniante, questo è il paese dell’illogicità, una cosa semplice la si deve complicare all’estremo, solo per far soffrire la persona.

 

Secondo lei il fatto che le persone detenute a volte si trovino a centinaia di chilometri di distanza da casa per trasferimenti improvvisi, per processi, per il sovraffollamento, può provocare delle conseguenze nel loro comportamento durante la detenzione?

Le persone detenute non sono carne da macello, non sono come le bestie che tu prendi a maggio e le porti in montagna e dopo a settembre le riporti giù. È ovvio che ogni volta che uno viene coinvolto in un trasferimento è un po’ come rivivere lo shock del momento in cui sei stato arrestato. Dostoevskij nel suo bellissimo romanzo “Delitto e castigo” lo tratteggia in maniera sublime, è un istante il momento dell’arresto, però è l’istante che ti scompagina tutta l’organizzazione dei tuoi affetti, della tua famiglia. Io penso che anche il momento in cui dalla sera alla mattina ti dicono “domani sei trasferito” è un ricominciare da capo ogni volta. E le famiglie devono affrontare di nuovo l’organizzazione di tutto, devono passare altri giorni per avere il permesso di ricevere telefonate, ancora attesa, quindi questi affetti sono in balia del nulla, e capisci che le istituzioni hanno una grandissima responsabilità nei confronti di tutti quei legami d’amore che sono andati spezzandosi all’interno del carcere. Qualcuno di voi, e questo mi ha stupito, non ve lo nascondo, con molta sincerità è arrivato a dirmi: “Don Marco, io ho una condanna di tanti anni, non me la sono sentita in queste condizioni di chiedere a mia moglie, alla mia compagna, di rimanermi accanto, le ho detto “Fatti la tua vita!”, e questo è un gesto di onestà nel cuore. Allora io dico, se l’affetto in carcere fosse gestito in maniera diversa, probabilmente molte storie d’amore sarebbero

continuate, con la conseguenza che tenendo acceso l’amore, forse il cuore non avrebbe quell’indice di disperazione che c’è dentro. Qui la prima cosa che si deve annunciare è che Cristo ti sta cercando per salvarti, per amarti, c’è questa possibilità ma senza condizioni. Se però noi come Chiesa ci ostiniamo a dire cosa si può fare e cosa non si può fare sotto le lenzuola, non è questo il Vangelo, il Vangelo non è dirti questo si questo no, il Vangelo ha una grandezza che mi ha sempre stupito, che è questa: il Signore attraverso l’incontro con lui, ti aiuta a fare i gesti di tutti i giorni in maniera meno banale possibile, questo è l’unico frammento di morale che c’è al giorno d’oggi, tutto il resto ce lo siamo inventati noi preti ed oggi ci si sta ritorcendo contro.

 

Riprendiamo un attimo la parola “intimità”, perché purtroppo su questa parola nella società bisogna lavorare ancora molto. Noi pensiamo che anche il calore di una relazione fisica sia necessario, e poi per una persona che ha una condanna molto lunga e che non ha ancora un figlio, se ci fossero i colloqui intimi questo permetterebbe comunque di concepire e poi crescere un figlio in maniera umana, ecco vorremmo una sua opinione personale.

Quello che io dico è questo: certamente anche l’intimità sessuale tra due persone ha un valore che non è marginale, è grandissimo, perché attraverso l’intimità sessuale passa la possibilità, il progetto, il sogno, la realizzazione di un’altra vita, la vita di un figlio. Allora solo una persona stolta potrebbe pensare che, se una persona deve scontare vent’anni di galera, semplicemente perché è una persona detenuta gli deve essere impedita anche l’intimità sessuale, che non è un semplice sfogo d’istinti, ma è un canale di comunicazione, forse il canale di comunicazione più profondo che c’è tra due persone che si amano, quindi pensare che quando si parla di intimità nel carcere la prima cosa che viene alla luce sia quella di una cella in cui si fa sesso sfrenato a me rattrista, però da un certo punto di vista dico che una responsabilità ce l’ha anche la Chiesa, perché per secoli siamo andati avanti con questa mentalità in cui intimo significava sesso quindi peccato, quando se Dio ha creato l’uomo e la donna e ha messo nelle loro mani la potenzialità di costruire assieme una vita, non capisco dove sia il peccato.

E qui ritorniamo al concetto di prima, che cos’è che il Vangelo ci insegna su questa questione?

A cercare di rendere meno banale possibile anche l’atto sessuale, quindi metterci dentro quell’indice di amore maggiore che è possibile.

Io sono convinto che se a tante persone fosse data la possibilità di vivere con serenità la loro storia d’amore, noi oggi saremmo qui a narrarci la bellezza di tante storie d’amore, di tanti sacramenti perché la Chiesa lo ritiene un sacramento il matrimonio, di tanti sacramenti che sono andati a salvarsi perché è stata data la possibilità di avvolgerli nell’intimità e non metterli alla mercé di quattro mura di una sala colloqui, e di occhi indiscreti, perché l’amore ha anche bisogno di confidenze, ha anche bisogno di suoi spazi, di suoi tempi.

Questa certo è una battaglia, la dobbiamo combattere tutti assieme, però è una battaglia contro l’illogicità di un’istituzione e di un certo pensiero, che ha reso illogica una cosa che non è solo logica, è naturale. La vera battaglia dentro alla chiesa è di dire: guardate che il carcere ci aiuta ad aprire gli occhi sul dramma di una intimità che non è solo sesso, di una intimità che ha bisogno di avere i suoi spazi e i suoi tempi all’interno del carcere per salvare delle storie d’amore.

 

Lei ha parlato di divorzi, la società di questi divorzi non sa tanto. Secondo lei perché i detenuti prendono a volte la decisione di lasciar libera la propria moglie di farsi un’altra vita? E se si introducesse una legge che permette una maggiore intimità, questo aiuterebbe ad avere un tasso più basso di divorzi?

Io sono convinto che aprire delle finestre per fare entrare aria all’interno del cuore, aria fresca non aria artefatta, porterebbe prima di tutto a mettere il cuore in uno stato di consolazione, e quando il cuore è in uno stato di consolazione, un sasso che tu ti trovi davanti è solo un sasso, ma quando il cuore è in uno stato di desolazione e ti trovi davanti un sasso, quel sasso è una montagna. Quando si parla assieme con voi anche nel segreto della confessione di queste storie d’amore che scricchiolano, il rischio è quello di prendere una decisione in una situazione che non è di consolazione, è una situazione di desolazione, però voi lo sapete molto meglio di me che un conto è ragionare su una storia d’amore di un uomo che deve scontare una pena di due anni, un conto è ragionare sulla storia d’amore di un uomo che deve scontare la pena dell’ergastolo ostativo. Certamente in questa situazione sono fermamente convinto che più di qualche storia d’amore di quelle che ho raccolto nel segreto delle confidenze in questi tre anni che

sono qui con voi, si sarebbe salvata e quindi avrebbe fatto immenso piacere a Dio, al cielo se solo ci fossero state delle condizioni più vivibili. In questo senso qui è una battaglia che la chiesa deve sposare perché è sempre lì il problema, la misericordia e la giustizia, la misericordia senza la giustizia è la madre di tutte le dissoluzioni, la giustizia senza la misericordia è l’anticamera della tortura. Io in questi tre anni mi sono preso cura dei legami all’interno di qualche famiglia, legami che si sono spezzati, e quando entri all’interno di queste storie d’amore senti veramente i fili che sono messi in una tensione che non permette alla persona di essere serena.

 

Uno dei principi su cui è fondata la nostra società è la famiglia, perché si fa fatica a far comprendere alla società la disumanità che subiscono i nostri familiari?

Per un semplice motivo, perché la gente fuori, e io ero uno di quelli,  non riesce a fare un collegamento che se Marco Pozza che sono io prende un ergastolo, quell’ergastolo non è solo affare di Marco Pozza, quell’ergastolo è affare di tutta la sua famiglia, cioè se io sono sposato quell’ergastolo lo spartisco cinquanta e cinquanta con la mia compagna, con mia moglie, con i miei figli. Mi piacerebbe una volta assieme con voi riflettere per esempio su una cosa che per me è sempre stata fonte di sorpresa: che rimanere da soli moltiplica la paura, e rimanete da soli voi che siete in carcere però voi lo sapete meglio di me che rimangono da sole anche le vostre famiglie all’interno di un paese, abbandonate tante volte anche dalla Chiesa del paese, dal parroco del paese.

 

A fine carcerazione un marito, un padre fa fatica a riprendersi il proprio ruolo all’interno del proprio nucleo familiare. Una legge per gli affetti lo aiuterebbe a riprendersi il ruolo che gli compete? E poi, coltivare gli affetti in maniera più umana secondo lei può essere una forma di prevenzione sociale, cioè un modo perché un detenuto non ritorni a delinquere?

Noi sappiamo che stare in carcere significa per esempio non essere presenti a casa mentre il bambino fa i compiti, ma facciamo il caso di poter telefonare tre volte alla settimana e tenersi informato di un bambino che va a scuola, di un figlio che lavora, cioè sentire dalla parte del figlio che c’è un padre presente con il cuore anche ai piccoli appuntamenti della vita quotidiana, questo significherebbe molto per un figlio. Io non so se questo abbasserebbe l’indice di recidiva, io sospetto molto positivamente che questo innalzerebbe l’indice di umanizzazione di una persona che esce dopo un periodo di detenzione. Perché vale il classico esempio, se tu prendi un cane lo metti dentro a una gabbia e lo lasci lì dieci anni senza fare niente, se sopravvive per dieci anni quando vede la porta aprirsi la prima cosa che fa è quella di mordere, è rabbioso. Se tu in questi dieci anni invece lentamente gli dai dell’acqua, gli dai da mangiare, lo curi, da selvatico riesci anche a farlo diventare domestico, tu apri la porta della gabbia e la prima cosa che fa ti salta in braccio. Io penso che l’uomo sia fatto nella stessa maniera, c’è sempre questa grande sfida che noi come parrocchia cerchiamo di vivere, perché quando si parla di un detenuto c’è un’immagine di un animale che salta alla mente che è quella di un lupo, il lupo cattivo, il lupo che fa paura, e si cita sempre la storia di san Francesco, del lupo di Gubbio.

Però dobbiamo citare tutta quella storia, perché la fatica e la grandezza di Francesco non è stata solo quella di andare nel bosco e di dire al lupo “Lupo, guarda che si può vivere anche in maniera diversa”, ma il grande capolavoro di Francesco, dopo aver addomesticato il lupo, è stato quello di bussare alle porte delle case dei cittadini di Gubbio e di dire: fidatevi, il lupo non fa più paura, apriamo le porte. E se andate a leggere la pagina dei fioretti di san Francesco, si racconta che anni dopo, il giorno che muore il lupo cioè l’animale cattivo, i cittadini di Gubbio si sono messi a piangere perché si sentivano più soli. È certo che dobbiamo addomesticare i lupi, ma guardate che dobbiamo forse addomesticare anche le persone fuori, anch’io ho bisogno di essere addomesticato, di trovare qualcuno che mi dica di provare a fidarmi del lupo.

 

 

 

 

 

Servono più colloqui

 

Servono più colloqui, più lunghi e più “umani”

Una battaglia per figli, mogli, genitori condannati senza colpe

 

Se pensate che sia giusto occuparsi anche delle famiglie più sfortunate, quelle che oltre al dolore di avere un proprio caro in carcere si portano dietro pure la vergogna di essere additate come colpevoli, “regalateci” la vostra firma nel sito www.ristretti.org.

La nostra è una battaglia che ha pochi mezzi e la sola forza delle testimonianze che arrivano dalle carceri, e che raccontano il dolore di figli, di mogli, di genitori, è prima di tutto per loro che vogliamo combattere

 

a cura della Redazione

 

 

 

Ho provato a immaginare come tu potessi vivere in un buco cosi piccolo

 

Caro papà, è tua figlia che ti scrive e ho scelto di farlo qui su Facebook cosi tutti possono leggere queste mie parole. Papà non avere mai vergogna mai!!! Tu sei un uomo che sta scontando una pena molto pesante, e nessuno tranne te e tutte le persone condannate a questo regime può capire ciò che vivete ogni giorno. Quando ero più piccola mi mettevo in bagno, mi chiudevo in uno spazio di due metri per due e cercavo di immaginarmi come potessi tu vivere in un buco cosi piccolo, e al di fuori del mondo. Solo al pensiero ci sto malissimo perché deve essere davvero dura. Sono passati 15 lunghi anni, 15 sono i compleanni senza di te, 15 sono i natali e i capodanni senza di te, 15 sono gli anni che non sei più con noi, ed è peggio’ di quando una persona è morta, perché quando una persona non c’è più ti consoli sulla sua tomba. Ma quando sai che tuo padre è vivo, e però è chiuso, e che non sei libera di vederlo e passarci del tempo come vorresti, è un dolore che ti distrugge, non solo tu sei condannato, ma lo siamo tutti noi, siamo condannati a vedere la tua vita spegnersi attraverso quelle sbarre. E noi non abbiamo nessun potere, solo possiamo sperare che un giorno tu ritorni tra di noi, anche se rimarrà un sogno io ci voglio credere. Ti amo papà,

 

Rita

 

 

Figli che telefonano con l’ansia dei minuti contati

 

di Pasquale C.

 

Mi chiamo Pasquale, sono in carcere dal 2005 e mi rimangono ancora da scontare parecchi anni, e le più grandi difficoltà le ho per poter comunicare con i miei figli e vederli: crescere, perché la sola telefonata ordinaria di dieci minuti a settimana, per chi come me ha il problema di avere i figli in tenera età e con dei disturbi psicologici, balbuzie, ansia, dovuti alla mancanza della figura paterna, non può essere sufficiente, dieci minuti non possono certo rendere “normali” i rapporti tra padre e figli. L’adrenalina di un ragazzo con questo tipo di disturbi sale alle stelle in quei pochi minuti, nella foga di raccontare quello che ha fatto durante la settimana a scuola, o con i suoi compagni, magari una semplice partita a pallone, o la festa di compleanno di un amico, la normalità dei racconti diventa tensione e ansia di dover parlare così veloce perché ci sono tante cose da dire, cercando di non dimenticare niente, e sapendo di dover subito passare il telefono all’altro fratello, alla mamma, e poi c’è anche la nonna, il nonno e il resto della famiglia. Per questo ho provato qualche anno fa, con apposita documentazione specialistica, a chiedere alla direzione del carcere qualche telefonata straordinaria, e la mia richiesta è andata a buon fine. La documentazione poi l’ho inviata anche al magistrato di Sorveglianza competente, che mi ha concesso di usufruire ogni tanto di un permesso speciale, e così ho potuto guardare la felicità negli occhi dei miei figli e rassicurarli che oltre alla mamma ci sono anche io, e quindi possiamo essere una famiglia “normale”, anche se per poche ore, nella casa di accoglienza Piccoli passi, e non tanto di frequente, visto che la mia famiglia vive in provincia di Reggio Calabria.

Il disagio dovuto alla impossibilità di coltivare gli affetti, e di adempiere al ruolo di padre, si ripercuote soprattutto nella vita quotidiana dei miei figli con una sofferenza indescrivibile. Non poter scambiare una parola, dare un consiglio o quant’altro un genitore possa dare ad un figlio è veramente così doloroso, che chi non lo prova sulla propria pelle forse non può capire, ma tutto questo è la pura e semplice verità della condizione dei detenuti nelle carceri italiane. Carceri dove ci sono limiti pesanti per tutto, dalle semplici telefonate di quei dieci miseri minuti a settimana, ai colloqui di sole sei ore al mese, e oltretutto non ci sono locali adatti per poter fare un colloquio decente con la propria famiglia senza doversi sacrificare a stare seduti in salette comuni con altre dieci e più famiglie e sentire un rumore assordante di voci.

Peccato però che non ci siano invece limiti nel far stare tre/quattro persone in celle che ne potrebbero ospitare una o due solamente.

Sentiamo parlare spesso nei Tg dei diritti degli animali che non devono essere maltrattati dall’uomo padrone, e quindi vengono fatte delle leggi a loro tutela contro questi maltrattamenti, eppure tante volte abbiamo sentito anche di alcune razze di cani o altri animali che aggrediscono chi li accudisce, ma facciamo finta di niente cercando sempre di salvaguardarli. Se tali attenzioni fossero rivolte anche ai detenuti, la sofferenza dei figli, delle mogli o dei genitori si potrebbe ridurre, perché pagare per gli errori fatti non significa essere maltrattati e umiliati, né dover sopportare di vedere di continuo la sofferenza dei propri familiari senza poter fare qualcosa per renderla meno pesante.

 

 

 

 

Se si vuole bene alla propria compagna a volte si sceglie di dirle di farsi un’altra vita

 

di Luca Raimondo

 

Di articoli sugli affetti delle persone detenute in questi anni ne abbiamo scritti tantissimi, ma credo che quando si tratta delle famiglie che hanno un loro caro in carcere non è mai abbastanza.

In questi mesi stiamo cercando di affrontare una battaglia pacifica, che riguarda una cosa sacrosanta che ogni essere umano dovrebbe avere, cioè l’affetto dei propri famigliari. Basterebbe poter chiamare al telefono in maniera libera le persone che sono importanti per la nostra vita, e avere la possibilità di fare dei colloqui con un po’ di intimità, cioè passare del tempo con i propri cari in una stanza, senza dover stare con venti o trenta persone che fanno il colloquio con te e gli agenti che ti controllano, e tu non puoi dare liberamente segni di affetto come vorresti alla tua famiglia.

Purtroppo in questi anni su queste questioni si sono alzati polveroni: a proposito dei colloqui intimi in carcere qualche giornale ha parlato di “celle a luci rosse”, e quando abbiamo chiesto che le telefonate fossero liberalizzate hanno cominciato a dire che “anche i mafiosi potrebbero telefonare a chi vogliono e magari far fare degli omicidi su commissione”.

Ora vi spiego un po’ come stanno davvero le cose.

Per quel che riguarda i colloqui intimi, non si tratta affatto di spazi come case d’appuntamento, ma cose semplici come far fare i compiti ai propri figli, mangiare insieme come una famiglia normale, non traumatizzare i figli minori con l’allontanamento brusco del proprio genitore, e magari evitare tanti divorzi. Perché la fine del matrimonio è una cosa che succede tantissimo dentro le carceri, se si vuole bene alla propria compagna a volte si sceglie di dirle di farsi un’altra vita, perché non è giusto che una donna ti aspetti per anni senza avere il calore di un uomo che le stia vicino, o forse perché non stando vicino ad una persona si spegne qualcosa dentro, che con il carcere di mezzo non si potrà mai riaccendere, e questa è una cosa che segna sia te che la tua compagna.

Invece a proposito della liberalizzazione delle telefonate, forse non si sa che tutte le telefonate sono registrate, però nessuno dice che i detenuti ristretti in regimi di alta sicurezza possono effettuare solo due telefonate al mese e chi è nel regime duro del 41 Bis può effettuare una sola telefonata al mese, e la famiglia è costretta a ricevere la telefonata del proprio caro nel carcere più vicino a casa, e queste mi sembrano altre piccole crudeltà aggiuntive.

Questa nostra battaglia per gli affetti è genuina e non stiamo chiedendo nulla di impossibile, ma un diritto, che è quello di essere ancora degli esseri umani, e di essere presenti nella vita delle persone a cui teniamo.

Per questo spero che anche chi legge questo articolo aderisca ad una battaglia che dà una speranza a chi con quella speranza ci vive, come le nostre famiglie e le persone che per anni non vedranno più la libertà.

 

 

 

 

Per qualche ora in più coi nostri figli

 

di Carmelo Musumeci

 

Purtroppo una delle cose più brutte del carcere è che non ti danno abbastanza spazio per tentare di essere un buon padre.

In questi giorni ho ripensato a uno dei tanti colloqui che ho fatto in questi anni di carcere.

Fissavo il pavimento, il soffitto, le sbarre e le pareti della mia cella. Come un’anima in pena camminavo avanti e indietro per la stanza.

C’erano delle volte che mi pentivo di essermi fatto arrestare vivo perché soffrivo che i miei figli dovessero venire a trovarmi in carcere.

Per loro avevo sognato un padre migliore di quello che ero riuscito a essere. Avevo sempre paura di

avere rovinato la vita anche a loro.

Stavo aspettando il colloquio ed ero in pensiero per i chilometri che la mia famiglia doveva fare per raggiungere il carcere. Fuori c’erano la neve e il ghiaccio. Finalmente le guardie mi chiamarono. Si prepari per il colloquio. Risposi subito: Sono pronto! Evitai di dirgli che ero già pronto dalla sera prima.

Dopo dieci minuti due guardie mi perquisirono e mi portarono nella sala colloquio. Nella stanza c’erano già alcuni detenuti che facevano colloquio con i parenti. La sala era pitturata dei colori del carcere.

Le pareti di grigio e il soffitto di bianco. Il tavolaccio divisorio era consunto. Odorava di sofferenza. Chissà quante ne aveva viste.

Dopo pochi minuti vidi aprirsi la porta. Entrarono spingendosi insieme sia mio figlio sia mia figlia. Quando li vidi feci fatica a respirare.

E non riuscii a evitare che il mio cuore ruzzolasse dal petto per correre ad abbracciarli. Io invece rimasi fermo in piedi ad aspettarli.

Stava arrivando prima mia figlia, ma mio figlio, all’ultimo momento, diede una spallata a sua sorella e mi abbracciò per primo.

Ero felice di vederlo. Me lo mangiai con gli occhi. Erano mesi che non lo vedevo. Notai che stava diventando sempre più alto. Poi venne il turno di mia figlia. Ci baciammo, poi lei appoggiò la testa sulla mia spalla e io le accarezzai i capelli.

La mia compagna dietro aspettava il suo turno e vedendo che io e mia figlia non ci staccavamo sussurrò: Ehi! Ci sono anch’io! Sorrisi.

Io e la mia compagna restammo a guardarci per qualche istante, poi la abbracciai a lungo. E il mio cuore si aggrappò a quello di lei.  Non ci dicemmo nulla, intimiditi dagli sguardi dei nostri figli. Ci sedemmo sulle panche. Mia figlia mi afferrò subito la mano. Imitata da mio figlio che mi prese l’altra.

Rimanemmo in silenzio per qualche momento per lasciare parlare i nostri cuori. Guardai con soddisfazione i miei figli. Erano tutta la mia vita. L’unica cosa che avevo per essere felice. Poi parlò per prima mia figlia: Papà come stai qui?

Le sorrisi: Bene! Sono stato fortunato che mi hanno portato proprio qui, non potevo capitare meglio. Le nascosi che appena arrivato mi avevano sbattuto alle celle di punizione perché mi ero rifiutato di fare nudo le flessioni sopra uno specchio. Mio figlio scrollò la testa: Papà, ma dici così in tutte le carceri dove ti trasferiscono. Mia figlia fece un sorriso storto a suo fratello: Uffa! Stavo parlando io a papà. Io e la mia compagna ci scambiammo un’occhiata. E capii subito cosa mi stavano dicendo i suoi occhi. Te l’avevo detto che sono ancora gelosi e quindi era meglio che te li portavo uno per volta! Alzai le spalle e le feci un largo sorriso. Era da qualche tempo che desideravo vederli tutti e due insieme. Mia figlia riprese  parlare. È vero però papà… in qualsiasi carcere dove ti mandano, ci dici che stai bene, lo dicevi anche in quel brutto carcere dell’Asinara, dove non hai mai voluto che ti venissimo a trovare. Cambiai discorso: Spero che non stiate avendo dei problemi con i vostri amici perché avete un papà in carcere. Rispose subito il figlio. No! Papà che dici! Io sono fiero di te. Piuttosto è mia sorella che si vergogna con i suoi amici figli di papà che vanno al liceo scientifico.

Mia figlia gli diede un calcio da sotto il bancone. E stizzita negò. Non è vero papà… preferisco solo che i miei amici non sappiano che sei in carcere perché non voglio che pensino male di te perché sei qui. Le feci una carezza sul viso. E fai bene! Non c’è bisogno che lo sappiano tutti dove si trova vostro padre.

Mio figlio intervenne contrariato: Io invece lo dico a tutti i miei amici. Corrugai la fronte. E fai male perché non c’è nulla da essere orgogliosi ad avere un papà in carcere. Mio figlio mi fece un sorriso mesto. E triste. Non arrenderti papà… non arrenderti mai, noi ti aspettiamo a casa.

Poi parlò mia figlia. E mi guardò dritto negli occhi: Papà comportati  bene…mi raccomando non fare casini… perché se fai il bravo sento che alla fine ti faranno uscire.

Non avevo mai avuto paura di qualcuno o di qualcosa nella mia vita. Aveva paura solo di deludere mia figlia. Le feci gli occhi dolci. E le sorrisi. Da quando in qua sono i figli che dicono al padre di fare i bravi… non dovrebbe essere il contrario?

Mia figlia rispose al mio sorriso. Nel frattempo la guardia aveva gridato il mio nome. Il colloquio è finito. Mi alzai controvoglia. E rivolgendomi ai miei figli dissi: Uscite per primi… lasciatemi qualche secondo con vostra madre. Poi mi chinai per abbracciare mio figlio che mi sussurrò: Ti voglio bene papà. Lo abbracciai ancora più forte. Anch’io te ne voglio. Poi venne il turno di mia figlia. Rimanemmo un attimo in silenzio. Parlò per prima lei. Io aveva la gola secca. Papà la spesa te l’ho fatta io… e ti ho fatto il sugo … poi mi scrivi se ti è piaciuto… ti ho comprato anche un maglione pesante. Feci finta di non vederle gli occhi lucidi. Lei non piangeva quasi mai davanti a me.

Ero venuto a sapere che piangeva sempre dopo. Grazie amore… adesso vai. Lei mi abbracciò ancora una volta. Papà, io ti vorrò sempre bene. Ti aspetterò sempre, non mi sposerò mai fin quando non uscirai.

La mia compagna mi abbracciò. Io la baciai. Stai attenta ai bambini. Lei mi sorrise controvoglia. Quali bambini? Non lo vedi che i tuoi due figli ormai sono grandi. La accarezzai Vai piano con la macchina… ti amo.

La guardia mi aveva già chiamato tre volte per avvisarmi che il colloquio era finito. E la lasciai andare via. E pensai con amarezza che avevano fatto tutto quel viaggio per solo un’ora di colloquio dietro un bancone.

 

 

 

 

I colloqui “lunghi” per pranzare insieme

L’emozione della prima fotografia con i propri nipoti

 

Occasioni per “umanizzare” luoghi poco umani come le galere: questo sono giornate come quella che di recente nella Casa di reclusione di Padova ha visto i detenuti della sezione di Alta Sicurezza incontrare per alcune ore di seguito le loro famiglie, invece che fare i soliti colloqui striminziti della durata di una miserabile ora, come avviene di solito. Piccole emozioni incredibili, come quella di potersi fare per la prima volta una fotografia con i propri nipoti, che raccontiamo attraverso le testimonianze di un detenuto e della figlia di un altro detenuto: cerchiamo di fare in modo che questa esperienza eccezionale diventi la normalità, per quei figli che hanno diritto a un po’ di affetto in più.

 

 

Domenica in famiglia, in carcere

 

di  Biagio Campailla

 

21 Settembre 2014: sembrava una domenica come le altre, invece è stata una giornata di libertà per tutti i detenuti della sezione di Alta Sicurezza. Il motivo è che il direttore ha autorizzato un “colloquio lungo” di alcune ore, in via sperimentale, ai detenuti di quella sezione, per dare un segno di rispetto e di umanità anche alle persone che sono viste come “mostri”. Questo progetto di “colloqui lunghi” nasce dalla Redazione di Ristretti Orizzonti, che investe molta parte delle sue energie nelle battaglie per portare più umanità dentro le carceri italiane, e da quella che io credo sia la giusta convinzione del direttore della Casa di reclusione, l’idea che tenere chiuse le persone, isolandole dalle loro famiglie, significa rischiare di farle diventare più criminali. Oggi vi racconto la mia esperienza.

Sono un detenuto ergastolano, che aveva dimenticato anche come si mangiasse con la famiglia seduti attorno a un tavolo, dopo tanti anni mi sembra di avere vissuto una nuova vita, emozioni che non pensavo più di provare, invece oggi a Padova le ho ritrovate. 16 famiglie sono arrivate da ogni parte d’Italia, e anche dall’estero, come nel caso della mia famiglia, che proviene dal Belgio, per pranzare con i loro cari reclusi. Tutti noi sedici detenuti, già il giorno prima, abbiamo iniziato a preparare del cibo per consumarlo con le nostre famiglie, con tantissime emozioni, ricordandoci di cosa apprezzavano le mogli, i figli quando ognuno di noi si trovava a casa alla domenica a mangiare con i propri cari.

Alle ore 10 partiamo verso la palestra del Due Palazzi dove altri detenuti avevano sistemato dei tavoli con le sedie, lasciando dello spazio per giocare ai bambini, i figli, ma anche i nipotini dei detenuti. La redazione di Ristretti ha pure incaricato un volontario detenuto di fare delle foto con i propri famigliari, in questa occasione ero proprio io.

Così mi sono gustato tutte le emozioni di ogni singolo detenuto, di ogni bambino, moglie, di ogni figlio di ogni madre.

Alle ore 10.15 arrivano le famiglie, siamo tutti pieni di gioia, emozione, ansia, chi abbraccia i figli, le moglie, i nipotini, che per la prima volta potevano rimanere con il nonno, cosa emozionante e dolorosa nello stesso tempo: queste situazioni le ho vissute in prima persona, ma a vedere quegli abbracci, e qualche lacrima, mi sono emozionato tantissimo, e ho detto a me stesso: “Anche loro, anche i nostri cari sono nostre vittime”.

Inizio a sentirmi chiamare, mi chiedono tutti se posso fare delle foto con i loro cari, io mi metto subito a disposizione, dicendo alla mia famiglia di avere pazienza, perché “anche loro è da tanto tempo che non hanno una foto che li ritrae con i propri familiari”. Subito il mio compagno Salvatore mi dice una frase che mi lascia raggelato: “Biagio, quando mi hanno arrestato i miei figli avevano un anno, ho soltanto una foto del loro primo compleanno, oggi di anni ne hanno 21”.

Immediatamente dopo viene Peppe, un’altra persona anziana, e mi dice: “È la prima volta che conosco mia nipote, non sono stato presente neanche al matrimonio di mia figlia, oggi ha 30 anni”. Percepisco tutti i dolori di ogni persona detenuta, di ogni familiare. Mentre giro per fare altre foto, vedo una suora, subito mi avvicino e le chiedo se è venuta come volontaria per questa occasione, mi risponde con voce dolce: “No, sono venuta a trovare mio fratello!”.

Nello stesso momento mia mamma mi dice: “Vedi, anche le suore hanno familiari in carcere con l’ergastolo”.

Mi richiama, suor Consuela, mi avvicino, mi accoglie con un sorriso, mi dice: “Biagio, mi potresti fare una foto con mio fratello?”. Io a mia volta le chiedo se posso fare una foto con lei; mi risponde: “Sono qui per tutti voi, siete tutti i miei fratelli”. Mi sono uscite le lacrime, anche se sono una persona non credente lei è riuscita a farmi vedere una luce diversa. Lei mi ha spiegato che è una missionaria, io le ho raccontato il mio percorso con la redazione di Ristretti Orizzonti, il progetto scuola/carcere, le battaglie che facciamo, informandola della nostra battaglia per avere più telefonate e colloqui. Ci siamo lasciati come due amici che si conoscono da vent’anni.

Altra emozione la provo con il mio compagno Tommaso, che non aveva avuto mai una foto con i propri nipotini, due piccolini che sembrano due angeli, e poi ancora emozioni con Francesco, che vedo arrivare con una bambina di un anno: “Biagio, è la prima foto che faccio con mia nipote, e con sua mamma, mia figlia”. Il mio compagno Ernesto invece, che non ha potuto fare una foto con suo figlio di un anno, perché la moglie non è riuscita a portarlo, mi dice: “Peccato, era la mia occasione per avere un ricordo con lui”.

A un certo momento arriva una famiglia in ritardo, vedo che un assistente della Polizia penitenziaria si avvicina e mi chiede se possiamo preparare un tavolo in più, io a mia volta gli dico: “Non vedo molta presenza di Polizia penitenziaria”, e lui mi spiega: “Siamo sulla scalinata, vogliamo che viviate un giorno libero, i bambini non devono vedere delle persone estranee”. Hanno dimostrato una grande umanità, grande professionalità, rispetto verso di noi, e per i nostri cari, mi sento di ringraziare anche loro per aver dato un giorno di libertà a tutta la sezione di Alta Sicurezza.

Anche le famiglie si sono unite ai ringraziamenti, per la possibilità che abbiamo avuto di rimanere alcune ore speciali ed indimenticabili con i nostri familiari e per tutta la felicità provata, che rimarrà un ricordo importante per tutti quelli che hanno partecipato all’incontro di domenica 21 settembre 2014.

 

 

 

 

Un “memorabile giorno di colloquio”

di Antonio Papalia

Mi chiamo Antonio Papalia, detenuto fin dal lontano 1992, con fine pena 31/12/9999 cioè mai.

Dopo 22 anni di carcere, grazie alla sensibilità del direttore Salvatore Pirruccio e alla redazione di Ristretti Orizzonti che si è battuta per ottenere questi “colloqui lunghi”, domenica 21 settembre 2014, io e altri 16 detenuti abbiamo potuto fare un colloquio nella palestra del carcere, e per la prima volta, anche se dentro un carcere, mi sentivo libero, poiché in tutti questi anni trascorsi tra cancelli e muri non ho mai avuto un contatto con i miei familiari cosi vicino e senza sentirmi osservato, come succede quando di solito faccio il colloquio nella saletta angusta che neanche si riesce a respirare.

L’emozione è stata forte e indescrivibile: poter sedersi al tavolo con i familiari e poter pranzare insieme, cosa che non avveniva da ventidue anni, in quei momenti mi sembrava di essere al ristorante.

Dopo tutti questi anni di carcere ho anche avuto la possibilità di fare delle foto assieme a mia moglie, mia figlia e una delle mie sei nipotine, tutto ciò per me è stato un’esperienza bellissima, mi auguro che ci saranno tanti altri colloqui come questo. Inoltre, ho notato che i bimbi e le bimbe quel giorno si sono divertiti a giocare tutti insiemi avendo finalmente dello spazio sufficiente, diversamente da quello della saletta colloqui.

Inoltre, gli agenti si sono dimostrati dei veri professionisti nello svolgere il loro lavoro, si sono tenuti in disparte facendoci dimenticare che fossero presenti, per questo mi sento di ringraziare loro e tutti coloro, che si sono prodigati per questo memorabile giorno di colloquio.

 

 

 

 

La sofferenza di una figlia per il suo papà, che manca da una vita

 

di Miriana

 

Ciao sono Miriana, figlia di Pietro, detenuto a Padova da più di due anni!

Se ora sono qui a scrivervi una lettera, è perché vorrei che riusciste a capire come una figlia di un detenuto è arrivata al punto di scrivere a voi, degli sconosciuti, per cercare di spiegare a tutti da quanto tempo soffro per la mancanza di mio papà.

Avevo solo un anno quando è stato portato via, io realmente non ricordo nulla, ero piccolissima, e  poi sono passati tanti anni, ora ne ho 19, e da sempre ho capito tantissime cose, che è grazie alla mia mamma e al mio papà se sono cresciuta con i piedi per terra, perché anche se con mio papà siamo distanti, è riuscito ad essermi vicino con i dolori e le sofferenze, e con tanto amore. Certo avrei voluto che lui fosse accanto a me realmente, quante feste di compleanno sono passate, di Natale, di Capodanno, i primi giorni di scuola, la mia prima comunione, la mia cresima, e i miei 18 anni, tutti erano presenti, ma mancava la persona più importante, il mio papà. Io vorrei davvero che tutto questo finisse, perché soffrire tanto? Tuttora fa male, mi dispiace che non riesco ad esprimermi tanto, avrei voluto dire migliaia di cose, ma ora solo questo riesco a dirvi.

Vorrei, dopo tutti questi anni, un suo ritorno accanto a noi, la sua famiglia, accanto a suo nipote, che non ha visto nascere perché lontano, rinchiuso in quelle quattro mura. Chilometri che ci separano, e noi purtroppo non abbiamo possibilità di andare a trovarlo sempre, di lavoro qui ce n’è poco, fosse per me andrei fino in capo al mondo pur di stare tra le sue braccia e vederlo accudirmi come un papà accudisce la sua propria figlia.

Per me è indimenticabile quel giorno, in cui ho potuto stare tanto tempo accanto a lui, abbracciarlo, così tanto che non volevo staccarmi più, ora mi manca da morire.

Non sarà certo questa lettera a farlo tornare da me, ma spero che possa servire a far capire che noi famigliari soffriamo quanto lui, basta quanto ha pagato, e quanto ancora oggi sta pagando, sia lui che io personalmente. LIBERTA’, LIBERTA’, LIBERTA’, quanto la voglio per mio padre!

Tutto questo non sono riuscita a dirlo quel giorno, oggi scrivendo una lettera mi esprimo di più.

Queste sono le sensazioni che sento dentro, ed è tutta sofferenza di una figlia per il suo papà, che manca da una vita.

 

 

 

Servono più permessi

 

I permessi premio per “ritrovare” la famiglia

Erano otto anni che non vedevo mia sorella

Quando sono partito dal mio Paese lei aveva 21 anni, ora invece è una donna, una mamma, una moglie

 

di Eduard Tcacenco

Inizio col dire che sono entrato in carcere appena maggiorenne. Avevo lasciato la mia famiglia e mia sorella, appena sposata, per inseguire il mio amore adolescenziale in Italia.

Ho sempre desiderato visitare questo Paese, ma la mia avventura è durata poco: dopo circa un mese ho commesso un reato per cui sono stato condannato a 12 anni e 8 mesi di reclusione. Una festa di compleanno, eravamo in tre, abbiamo bevuto tanto e perso il controllo, un litigio violento finito con la morte di un ragazzo. Mi sembrava che tutto il mondo mi fosse crollato addosso, mi trovavo in un Paese straniero, senza conoscere la lingua, rinchiuso in carcere e senza la mia famiglia. Un vero incubo, una situazione che mai avrei potuto immaginare di vivere, ero giovane e pensavo ad un futuro diverso, pieno di obiettivi da realizzare, soddisfazioni per me, per i miei genitori, per mia sorella.

Anche se i miei cari erano lontani, tramite quei 10 minuti di telefonata alla settimana, ma soprattutto tramite le lettere mi sono stati vicini, sentire le loro voci e leggere la posta mi trasmetteva la sensazione che erano lì con me. Ogni volta che sentivo la voce dell’agente addetto alla posta, come tutti, speravo di ricevere notizie, per rivivere quei sentimenti di affetto e attenzione piuttosto che l’abbandono che vivono molti detenuti che le famiglie le hanno perse. Il Paese dal quale provengo non fa parte dell’UE e a causa di questo era un grosso problema per i miei potermi  raggiungere in Italia, comunque, facendo dei sacrifici enormi sono riusciti a venire a trovarmi, a sottoporsi a momenti che non sono certamente gradevoli, lunghe attese, perquisizioni, ansia e tutto quello che subiscono i familiari dei detenuti, vittime anche loro di quello che io ho causato.

L’unica che non era mai venuta è mia sorella, che durante la mia carcerazione mi ha fatto diventare zio di una “principessa”. La detenzione non mi ha impedito, una volta giunto nel carcere di Padova, di ricercare delle opportunità per sentirmi utile a me stesso, ma anche di dare un mio contributo a chi ho potuto incontrare in questi ultimi anni di detenzione. Mi sono iscritto alla scuola di Ragioneria, poi mi sono iscritto all’Università e sono entrato a far parte della redazione di Ristretti Orizzonti, dopo un periodo di inserimento nel corso di scrittura. In questo contesto ho avuto modo di incontrare tantissimi studenti, grazie ad un progetto di prevenzione con il quale ci confrontiamo con questa parte della società esterna. Agli studenti spieghiamo quello che non gli spiegano i media, cerchiamo di far capire loro quali sono i limiti che abbiamo superato, sperando che ascoltando il racconto delle nostre vite, possano evitare i nostri stessi errori. Sono studenti delle superiori, alcuni delle medie inferiori, spesso anche universitari. Dopo otto anni di detenzione, ho ottenuto un primo permesso giornaliero proprio per partecipare al progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, cosa che sicuramente mi ha fatto crescere e mi sta aiutando in un inserimento graduale nella società e nella vita normale di fuori. Questo mi ha permesso di incontrare mia madre non più ai colloqui ma fuori da quelle alte mura grigie, in un mondo senza sbarre, libero di abbracciarla, di parlarle a lungo. Mi sono trovato a calpestare spazi liberi, in mezzo al traffico cittadino senza sentirmi continuamente controllato, pur con la consapevolezza che dovevo rispettare le regole poste dal Magistrato che ha approvato il mio permesso. Questo ha dato una certa serenità anche ai miei familiari e una prospettiva futura di una vita con un po’ di serenità in più per tutti. Ma mi mancava ancora un obiettivo, poter incontrare mia sorella. Dopo circa sei mesi, finalmente è riuscita ad ottenere il visto e mi ha dato questa stupenda notizia: “Veniamo a trovarti!”.

Non riuscivo a crederci, cercavo di immaginare come poteva essere cambiata, perché quando sono partito dal mio Paese lei aveva 21 anni, ora invece è una donna, una mamma, una moglie. Non stavo nella pelle, poterla finalmente riabbracciare. Ma ancora la più grande gioia era di conoscere la mia

piccola principessa che ora ha già 7 anni. In tutta fretta ho predisposto una nuova richiesta di permesso premio spiegando la motivazione di questo tanto atteso incontro ed il Magistrato di Sorveglianza mi ha concesso dieci giorni: un sogno diventato realtà. Arrivato il grande e tanto atteso giorno dell’incontro, stavo con mia madre alla stazione dei treni ad aspettarle, quando si è fermato il treno io guardavo a destra e a sinistra e finalmente la vedo, corro verso di lei e ci abbracciamo, penso che non ci siamo mai abbracciati, è stata una emozione unica. Ad un certo punto ho sentito chiamarmi “Eddy, Eddy”, mi giro e vedo la mia nipotina con mio cognato, non ho avuto neanche il tempo di rispondere perché mi è letteralmente saltata in braccio direttamente dal treno, sono state le più belle emozioni e sensazioni della mia vita.

In quei dieci giorni ogni minuto mi era prezioso e non volevo mai staccarmi da loro, finalmente ho abbracciato mia sorella, mio cognato, la mia nipotina, con cui dal primo giorno siamo diventati amici. Sono stati dieci giorni intensi e belli sotto tutti i punti di vista. Sono felice che in quei giorni ci siamo sentiti di nuovo una famiglia unita come prima.

Certo vorrei che questo tipo di percorso fosse usufruibile da tutti i miei compagni di sventura, ma questo non è possibile, molti non hanno più famiglia, i legami si spezzano, sia per il reato commesso, ma spesso perché l’istituzione carceraria non dà la giusta attenzione agli affetti delle persone detenute. C’è il sovraffollamento, può capitare di venire trasferiti in luoghi di detenzione lontani, lo stesso Ordinamento Penitenziario pone molti limiti alle possibilità di coltivare gli affetti. Ecco perché nella redazione, tra i temi che di solito trattiamo, si torna spesso a discutere e promuovere l’attenzione della società per gli affetti delle persone detenute. Noi chiediamo che siano finalmente permesse più telefonate, e i colloqui intimi per consentire di ritrovarsi in ambienti protetti, provare a sentirsi in famiglia, lontano dai controlli degli agenti penitenziari, E non come succede ora, di essere sempre mischiati in sale assieme a tanti altri detenuti con i rispettivi parenti e amici. Anche per il bene della società esterna è utile capire che la famiglia è il primo passo per consentire un ritorno nella società, una volta che la pena sarà finita. Ma se si esce senza quel percorso di rieducazione, solo dopo una carcerazione fatta di un contenimento, anno dopo anno, in una cella a non poter fare nulla, cosa può trovare questa persona disadattata, in una società che ha già tanti problemi e tanti pregiudizi?

 

 

 

 

Il carcere che uccide gli affetti

   

La pena del “non amore”

Privare un essere umano dell’amore dei suoi cari è disumano

Quando non hai più al tuo fianco le persone che amavi un tempo, ti fai sopraffare da quella oscurità che contraddistingue il rancore

 

di Lorenzo Sciacca

 

Mi chiamo Lorenzo e sono un detenuto. Oggi sono un uomo, non solo per una questione anagrafica (ho 38 anni), ma perché ho raggiunto delle consapevolezze che prima, accecato dall’odio, non riuscivo a vedere. Non ho più una famiglia e tornare ad amare non è stato facile, ma anche quando, in un tempo passato avevo una famiglia, la forma d’amore che provavo era sopraffatta da quelle che credevo fossero ingiustizie. Non è stato facile tornare a riprovare questo sentimento perché quando non hai più al tuo fianco le persone che amavi un tempo ti fai sopraffare da quella oscurità che contraddistingue il rancore. Inizi a provare disprezzo e astio per tutto quello che ti circonda. Inizi a vedere ingiustizie ovunque, inizi a trovare ingiusta anche la tua pena, tanta o poca che sia.

Privare un essere umano, qualsiasi errore abbia commesso. dell’amore dei suoi cari è disumano, ma quello che provoca è la cosa più sbagliata che possa succedere a un detenuto: si darà degli “alibi”. Sono proprio questi alibi che si darà dicendo “voi umiliate me e la mia famiglia in questa maniera, allora aspettatevi un giorno la mia vendetta” (è quello che dicevo io).

Vedete io sono cresciuto con un padre carcerato anzi l’ho conosciuto in un carcere, l’ho conosciuto dietro a un bancone e con guardie che non mi permettevano di oltrepassarlo, anche se poi lo facevo lo stesso. Adesso che ci penso il mio primo reato è stato proprio quello, volere abbracciare mio padre. Da bambino ero felice di entrare in carcere perché per un’ora sarei stato in compagnia di mio padre.

Mi ricordo che il portone del carcere si apriva con un cigolio che ancora oggi rammentare mi provoca un certo fastidio. Entrando, il passo delle persone che come me e mia madre erano in attesa per fare il colloquio, era molto affrettato, ma alla fine dovevamo fermarci tutti per le solite perquisizioni di rito. Donne e bambini venivano perquisiti da guardie donne. Ormai era diventata una consuetudine per me la perquisizione.

Entravo con mia madre in questa stanzetta con per terra una coperta marrone scuro e con impresso il simbolo dell’amministrazione penitenziaria. Salivo sopra di essa e mi toglievo le scarpe per metterle sopra un tavolo, poi una guardia donna le controllava al loro interno e una volta finito si chinava verso di me e mi alzava il colletto della maglietta, toccava le tasche dei miei pantaloni e a volte mi faceva aprire anche la bocca.

Le procedure di controllo erano finite e finalmente, in gruppi di cinque o sei persone massimo, entravamo dentro la stanzetta dei colloqui. Il più delle volte i detenuti non c’erano ancora, allora ci sedevamo su queste lunghe panche in marmo dietro al bancone dello stesso colore della panca.

Sopra al bancone c’era un vetro di quaranta, cinquanta centimetri, proprio per evitare il contatto con

i nostri cari.

Arrivavano i detenuti, anche loro con delle borse in mano, la biancheria sporca, e le adagiavano fuori dalla stanza dei colloqui. Vedere mio padre mi provocava una forte emozione di gioia, ero felice di vedere quell’uomo alto, magro, con i capelli neri e sempre pettinati all’indietro. Indossava sempre una camicia e dei pantaloni eleganti. Era sempre ordinato e sorridente.

Il suo sorriso… mamma mia che sorriso che aveva mio padre, un sorriso che si sdraiava in tutta la larghezza del suo volto, i suoi occhi brillavano, avevano una luce che non aveva eguali.

Quando entrava nella stanza io salivo in piedi sulla panca dove ero seduto, le guardie erano subito pronte a dire qualcosa dietro a un vetro, mimavano, facevano cenni a mia madre per farmi sedere, ma neanche mia madre aveva il potere di tenermi fermo in quel momento, io dovevo abbracciare mio padre, io avevo il bisogno di avere un contatto con quell’uomo che mi era stato presentato come mio padre quando ero molto piccolo.

Quando mi prendeva in braccio tutti i rumori che riempivano la stanza svanivano. Ero inebriato dal suo profumo, da quel viso sempre rasato e liscio. Il più delle volte dovevano entrare le guardie per ripristinare l’ordine, per farmi tornare al mio posto, allora il volto di mio padre cambiava espressione.

La fronte si corrugava e la luce dai suoi occhi svaniva. Per tutto il colloquio rimaneva turbato, le rughe sul suo volto diventavano più marcate facendolo apparire più vecchio, anche il suo tono di voce cambiava.

Ora eravamo tutti composti, ognuno al proprio posto e con quel mezzo vetro davanti.

Ogni tanto sul viso di mia madre scorrevano delle lacrime e subito mio padre si apprestava a portare la sua mano sul suo volto per cancellare quelle tracce di dolore, ed ecco che il suono di chiavi sbattute contro il vetro richiamava l’ordine.

Un’ora, un’ora intensa, un’ora per dirsi sempre le solite cose.

“Ciao papà”

“Ciao Lorenzo, allora come stai?”

“Bene e tu?”

“Bene, la scuola come va? Stai studiando?”

“Sì, ma i miei compagni mi prendono sempre in giro”

“E tu cosa fai?”

Non rispondevo, erano le mie movenze che rispondevano da sole. Abbassavo la testa perché sapevo che mio padre non approvava i miei gesti violenti.

“Lorenzo non devi reagire così, guarda me. Io facevo le stesse cose e guarda dove sono”. Ma io

volevo essere lì con lui.

Poi alzavo di colpo la testa e dicevo: “Sì però ho preso dei bei voti”. Mi guardava con una chiara espressione di soddisfazione, mi accarezzava il viso con quella mano grossa e calda, ma quel maledetto suono si ripeteva.

Poi mi allontanava mandandomi a giocare con gli altri bambini presenti nella stanzetta. Andavo, ma il mio sguardo era sempre verso i miei genitori. Vedevo la testa di mia madre abbassarsi e quel lungo braccio di mio padre ripetere  lo stesso gesto sul volto di lei.

Piangeva mia madre, era difficile vederla sorridere durante l’ora di colloquio, e quel fottuto suono rimbombava nuovamente nella stanza. Mio padre rimaneva indifferente e a volte era mia madre a prendere la sua mano e stringendola a rimetterla al suo posto, lontano da lei. Li fissavo tutti e due.

Erano belli.

L’ora era finita. “Lorenzo vieni a salutare papà”, io mi avvicinavo correndo e saltando nuovamente in piedi sulla panca abbracciavo mio padre “Ciao papà ci vediamo sabato prossimo. Ti voglio bene”

“Mi raccomando Lorenzo, stai vicino alla mamma che tu sei l’ometto di casa e fai il bravo a scuola”

Una voce di uno sconosciuto affrettava l’uscita. Mio padre si sporgeva verso mia madre e lei faceva lo stesso, si abbracciavano. Le lunghe braccia di mio padre avvolgevano quel corpicino esile di mia madre e ancora una volta sul viso di lei scendevano lacrime. Non ho mai visto mio padre sfiorare le labbra a mia madre, la baciava sempre appoggiando le labbra sulla guancia di lei tenendole una mano sull’altro lato del viso. Si usciva contemporaneamente, solamente le strade erano diverse.

Oggi i colloqui non hanno più il bancone, ma non è quello che a noi interessa, a noi interessa poter avere dell’intimità con i nostri cari e non pensiate che la parola intimità ricopra solo il significato di “Sesso”, non banalizzate. L’intimità è anche una carezza sul viso di un figlio, di una moglie oppure anche un rimprovero a voce grossa per un figlio che non studia.

Questo accanimento nei nostri confronti di riflesso demolisce i nostri cari. Condannateci con le condanne che prevede il nostro codice penale, ma non condannate i nostri familiari con un codice che non esiste e che è più disumano del nostro.

 

 

 

 

Il carcere che uccide gli affetti

 

Non si può togliere la vita lasciando un’esistenza sola e senza senso né sentimento. Un paese misura il grado di sviluppo della propria democrazia dalle scuole e dalle carceri, quando le carceri siano più scuole e le scuole meno carceri. La pena deve essere un diritto, se sia condanna deve poter essere la condanna a capire e capirsi. L’ergastolo ostativo è ripugnante e indegno per una democrazia del diritto ad essere persone giuste.

 (Prof. Giuseppe Ferraro, Docente di Filosofia Università Federico II, Napoli).

 

 

Puniti a non amare

 

di Carmelo Musumeci

 

 

La redazione di Ristretti Orizzonti per portare umanità e affetti nelle carceri italiane ha lanciato la campagna per “liberalizzare” le telefonate e consentire i colloqui riservati delle persone detenute con i propri famigliari, come già avviene in molti Paesi.

Ed io ho pensato, per fare sapere come sono importanti i colloqui e le telefonate per i prigionieri, di rendere pubblici alcuni brani del mio diario di ergastolano condannato alla Pena di Morte Nascosta (come la chiama papa Francesco) che scrivo tutti i giorni da ventitré anni di carcere.

- Ho telefonato a mio figlio ed è stato buffo parlare con lui perché si era da poco addormentato e aveva tutta la voce impastata di sonno. Sia lui che sua moglie hanno fatto nottata e quando ho telefonato dormivano tutti e due come ghiri.

L’unico sveglio era mio nipotino Lorenzo ed ho parlato con lui e mi ha raccontato:  Michael (il fratellino), è fuori con la zia, mentre papà e mamma dormono, io gioco di là con la nonna. Mi ha fatto sorridere ed avevo bisogno di sorridere.

- Oggi mi è venuta a trovare mia figlia. Ci hanno concesso solo due ore di colloquio. Sono stato lo stesso felice. Quando però la vedo andare via mi commuovo perché a differenza di quando arriva, la vedo andare via con il viso malinconico.

- Ho telefonato alla mia compagna e quando il centralinista mi ha passato la linea, le ho detto: Pronto!

Tana Lupa Bella? Qui Zanna Blu! L’ho sentita ridere e mi ha risposto.

Brutto lupaccio… sbrigati a venire a casa che i tuoi figli sono grandi e ora sono rimasta sola. Vorrei tanto tornare a casa ma ormai dopo tanti anni questa più che una speranza è solo un desiderio.

- Sabato mi viene a trovare Lupa Bella, Coda Bianca e mi portano Lupo Lorenzo ed ho scritto ai due direttori del carcere:  Sabato 20 aprile mi viene a trovare Lorenzo, il mio nipotino di quattro anni. Ogni sua visita mi porta gioia e qualche dispiacere per lui per le lunghe attese al freddo e al gelo che spesso è stato costretto a subire. E proprio a causa di una di queste attese e della mia giustificata reazione, in passato, ho subito un rapporto disciplinare. Per evitare altri eventuali rapporti disciplinari ho detto a Lorenzo di non venire proprio la vigilia di Pasqua per evitare lunghe file fuori dal cancello del carcere anche se i bambini e gli anziani dovrebbero avere precedenza sugli altri. L’istante è consapevole dei problemi di sovraffollamento dell’istituto e ben sa che negli altri carceri la problematica è ancora peggiore e (…) comunque, l’istante si accontenta di poco e poiché nell’istituto non esiste l’area verde per i bambini, chiede di poter portare nella sala colloqui qualche matita e qualche foglio a Lorenzo per farlo disegnare. Spero che per una volta i motivi di sicurezza o altro siano messi da parte.

- Per una volta i “buoni” si sono dimostrati più umani dei “cattivi” e ieri ho fatto un bel colloquio. Mi hanno fatto passare i fogli di carta e i colori che avevo chiesto così ho potuto disegnare con Lorenzo.

Vedere i miei due figli insieme mi riempie sempre di gioia, sono tanto orgoglioso di loro. Sono l’unica ragione perché sono venuto al mondo e perché ancora ci sto.

- Oggi è il compleanno di mio figlio Mirko. Compie ventisei anni, l’ho lasciato che ne aveva sei. Non ho potuto volergli bene come ho sempre sognato, ma continuo ad amarlo con tutta l’energia dell’universo.

Il Direttore del carcere per l’occasione, in via del tutto eccezionale, mi ha concesso una telefonata

straordinaria e ho appena parlato al telefono con mio figlio, sua moglie e i miei due nipotini.

Sono felice perché ho sentito mio figlio felice che gli ho telefonato.

- Mi mancano i miei nipotini, mi hanno dato di nuovo la forza di vivere, di lottare e sperare. Da quando sono nati la mia vita è diventata meno dura perché Lorenzo e Michael tengono compagnia al mio cuore. Una persona in carcere dovrebbe perdere solo la libertà e non l’amore invece purtroppo molti uomini e donne in questi luoghi perdono tutte e due.

- Ieri ho telefonato a Lupa Bella, anche se viviamo separati da tanti anni, abbiamo sempre abitato nel solito cuore, lei nel mio ed io nel suo. A voce non riusciamo mai a dirci tutto quello che vorremmo.

Abbiamo solo dieci minuti poi l’Assassino dei Sogni fa scattare un’odiosa musichetta e dopo qualche secondo la linea cade sic!

- Ho telefonato a mio figlio Mirko, e mi ha passato al telefono sua moglie e i miei due nipotini che sembravano due terremoti. Urlavano e bisticciavano fra di loro e mi hanno fatto venire tanta voglia di essere con loro. Spero che questo mese me ne portino uno dei due al colloquio. Prima soffrivo il carcere per i miei figli, ora che sono grandi, lo soffro soprattutto per i miei nipotini. Chissà se vedendomi così poco riusciranno ad affezionarsi a me come sonoriusciti a fare i miei figli! Questodubbio mi fa stare male.

- Ieri ho telefonato a mio figlio, a sua moglie Erika, e ai miei due nipotini Lorenzo e Michael e mi hanno fatto gli auguri di compleanno a voce. Il mio cuore è scoppiato di gioia e sono stato bene tutta la notte nel ricordare le due vocine dei miei due nipotini che mi dicevano: Buon compleanno nonno.

- Oggi ho fatto colloquio con i miei familiari e mi hanno portato i regali di compleanno, tre bellissime magliette. Poi mi hanno portato tanta roba buona da mangiare e le more di bosco che mi piacciono tanto. Purtroppo, come al solito, l’Assassino dei Sogni rovina sempre tutto e ho potuto fare solo un’ora e mezzo di colloquio perché hanno fatto aspettare cinque ore i familiari fuori dalla porta del carcere.

 

 

 

 

Liberalizzare le telefonate

 

Più telefonate per un carcere meno crudele

Telefono nemico

Nella società “libera” il telefono è un mezzo straordinario per comunicare, e non a caso quando si parla di servizi telefonici che aiutano a far fronte alla solitudine si usa l’espressione “Telefono amico”. In carcere no, in carcere il telefono diventa ben presto “nemico” quando i dieci miseri minuti che hai a disposizione in una settimana, per giunta in un’unica telefonata, li devi dividere fra figli che non capiscono perché hai tutta quella fretta e una moglie angosciata di sentirsi addosso tutto il peso della famiglia. Il dialogo che segue è il racconto, minuto per minuto, della telefonata di un detenuto, inframezzato dai suoi pensieri, dalle sue ansie, dalle sue paure.

 

“I condannati possono essere autorizzati dal direttore dell’istituto alla corrispondenza telefonica una volta alla settimana. La durata massima di ciascuna conversazione telefonica è di dieci minuti”.

(Art. 39 del Regolamento penitenziario)

 

 

 

Dieci minuti d’amore tra le sbarre

 

di Carmelo Musumeci

 

Normalmente telefono di domenica. Verso l’una del pomeriggio. Quando ho più probabilità di trovare tutti i miei familiari a casa. Spero sempre soprattutto di trovare Michael e Lorenzo. Sono i miei due nipotini. Li penso di giorno. E di notte. Poi di notte. E ancora di giorno. Prima di telefonare sono sempre in agitazione. E guardo tutti i momenti l’orologio, e rimango teso dall’ansia fino a quando non faccio il numero di casa. Nel frattempo il pensiero dei miei figli inizia a poco a poco a occuparmi la mente. E il cuore. Finalmente è l’orario. Sono sempre in anticipo di qualche minuto. Non mi preoccupo tanto a casa lo sanno. Corro nella celletta dove c’è il telefono, accosto il blindato. E faccio il numero. Trovo la linea libera. Attendo qualche istante. Poi dalla parte del filo sento trattenere il respiro. Di sottofondo ascolto le voci dei miei due nipotini. Poi sento bisbigliare mio figlio.

Passami il telefono. Ascolto un rumore di cuscino sbattere. Sono arrivata prima io. Subito dopo avverto un grugnito di mio figlio: Sei una stronza, tanto papà vuole più bene a me che a te perché sono un maschio. Sento mia figlia sospirare.

Pronto. Da quando l’ho lasciata bambina è quasi sempre mia figlia Barbara che prende per prima il telefono.

Amore. Si potrebbe dire che è da ventitré anni che mi aspetta vicino al telefono.

Papà. È stata la prima cosa bella che i miei occhi hanno visto nella mia vita.

Come stai? Da quando è nata è l’energia del mio cuore.

Bene papà e tu? E della mia mente.

Anch’io. Voglio bene ai miei figli anche perché sono diventate le persone che avrei voluto essere io nella mia vita.

Ti vengo a trovare la prossima settimana. Spesso ho il senso di colpa di averli fatti crescere senza di me accanto.

Va bene amore. Ho sempre paura di non essere stato un buon padre.

Cosa vuoi che ti porto da mangiare? E questo pensiero mi fa stare spesso male.

La focaccia con le cipolle. Quando telefono sembra che il tempo voli via.

Va bene. E che non puoi fare nulla per fermarlo.

Amore, adesso passami tuo fratello. Non ho mai capito perché quando telefono sembra che i secondi volino via come le foglie in autunno.

Papà ti amo. Non li puoi afferrare.

Anch’io amore. E con il passare degli anni sembra che i minuti del telefono diventino sempre più brevi.

Papà, come al solito la Barbi s’è consumata tutta la telefonata lei. Se solo ci dessero più tempo.

Lasciala stare, sai com’è fatta. E più telefonate.

Papà ci sono i bambini che stanno aspettando. Mio figlio si lamenta sempre di sua sorella.

Chi ti passo per primo? L’ho lasciato che aveva sette anni.

Passami Lorenzo. Ormai è grande.

Ti voglio bene papà. Continua però lo stesso ad abitare nel mio cuore.

Anch’io figliolo. Mi ha dato due meravigliosi nipotini.

Ciao nonno Melo. E adesso che sono anziano sono entrambi loro il centro del mio mondo.

Ciao amore. Ed il principio del mio universo.

Nonno quando vieni a casa? Sono il cielo della mia anima.

Presto. La mia acqua nel deserto.

Ce la fai a venire a casa prima che compio dieci anni? E i raggi del sole che riscaldano il mio cuore.

Certo, adesso però amore passami tuo fratellino che la telefonata sta per finire. Quando parlo con i miei due nipotini la loro voce mi accarezza il cuore.

Ciao nonno ti voglio tanto bene. E m’immagino i loro visini.

Anch’io tesoro. E mi viene ancora più voglia di abbracciarli.

Ciao nonno. Michael è il più piccolo.

Ciao amore. E più scalmanato di suo fratello.

Lorenzo dice che le telefonate dove sei tu durano così poco perché le guardie sono cattive. Muovo la testa da una parte all’altra.

No amore, non sono cattivi. Poi chiudo gli occhi.

E allora perché non telefoni tutti i giorni? E penso a come rispondergli.

Perché qua la linea si prende male e dobbiamo fare a turno per telefonare. Non voglio che imparino ad odiare lo Stato.

Amore adesso passami la nonna perché ormai c’è rimasto poco tempo. La sua vocina si fa più dolce.

Va bene nonno, ti voglio bene più di Lorenzo. Spero che i sogni a forza di crederci diventino veri.

Ciao amore. E mi auguro di vedere crescere almeno loro.

Adesso è il turno della mia compagna.

Carmelaccio. E scatta l’avviso che la telefonata sta per terminare.

Amore Bello. Fra trenta secondi cadrà la linea.

Il magistrato di Sorveglianza ti ha risposto sul permesso che hai chiesto? Lei è sempre la più scalognata.

Ancora no. E le rimangono solo una manciata di secondi.

E porca miseria quanto ci mette? Non capirò mai perché ci danno cosi poco tempo per telefonare a casa.

Non dire parolacce che le telefonate sono registrate. Mi sembra una pura cattiveria.

Sono due anni che aspettiamo questa c. di risposta. In fondo la telefonata la paghiamo noi.

Amore, lo so, ma che possiamo farci? La presenza della mia compagna nel mio cuore mi aiuta a vivere giorno per giorno.

A me dispiace per te. Senza di lei nel mio cuore non ce l’avrei fatta.

E a me per te. Non ce l’avrei mai potuta fare.

Carmelaccio sbrigati a venire a casa. Potrei fare a meno della libertà, ma non potrei certo fare a meno del suo amore.

Penso che questa volta sia quella buona. Vivo grazie o per colpa del suo amore.

Mandami un bacino. È stato facile amarla.

Prima mandamelo tu. Impossibile smettere di amarla.

Cade la linea. E mi arrabbio perché come al solito io e la mia compagna non abbiamo avuto il tempo di mandarci neppure un bacio o di dirci qualche parola affettuosa. Sospiro. Mi sento di nuovo solo. In compagnia solo di me stesso. E contro tutto il resto del mondo. Ho il cuore pesante. Mi sento frustrato. E penso che le telefonate potrebbero essere più lunghe e più numerose. Ritorno nella mia cella come un lupo bastonato pensando al motivo perché il carcere ha così paura e terrore dell’amore dei nostri familiari e ci proibisce le telefonate libere e i colloqui riservati come accade negli altri Paesi. Non riesco a trovare una risposta razionale. Penso solo che i buoni quando puniscono non sono meno malvagi dei cattivi.

 

 

 

 

Per fortuna non ho più la famiglia

 

di Lorenzo Sciacca

 

Non pensiate che sia pazzo. Mi chiamo Lorenzo e sono uno dei tanti detenuti. Vi voglio descrivere una delle telefonate che facevo quando avevo una compagna e soprattutto un figlio, forse solo così potrete riflettere sulla mia affermazione.

Io ho fatto tante carcerazioni e quasi tutte lontane da casa centinaia di chilometri, anche più di mille, per questo la telefonata, una a settimana, per me erano dieci minuti di grande sofferenza. Avevo preso il vizio di tenere di fronte a me l’orologio durante la chiamata per evitare che mi venissero “rubati” minuti, anche i secondi per me erano di vitale importanza.

Tutti i 10 minuti erano cronometrati, ogni domanda aveva il suo tempo e la risposta da parte della mia compagna doveva essere breve e precisa. Questa precisione era dovuta al fatto che volevo parlare con mio figlio e lui voleva parlare con me il più possibile. Salvatore, mio figlio, aveva un brutto male, un male che poi con una prepotenza spietata me lo ha portato via. Beh le domande che facevo a mia moglie erano sempre le stesse, se aveva notizia dai medici, com’era il morale di mio figlio e lei come stava. Il suo tono di voce era molto basso ed era percepibile che si sforzava di non far trapelare dalla sua voce tutta la depressione e la tristezza che provava, cercava di non farmi sentire il peso della responsabilità che avevo per la mia assenza. Poi arrivava il momento più bello ma anche il più crudele. Mamma mia ricordare la sua voce è dura. Scrivere certe cose è dura.

Avevo tra le mani la cornetta e ogni volta che udivo la sua voce quel pezzo di plastica acquisiva un’anima. La sua voce era il più delle volte debole, si sforzava di parlare con un tono chiaro e limpido, ma per quanto si sforzasse si sentiva tutto il suo dolore. Facevo sempre la domanda più stupida e banale che possa esistere “come stai?”. Non ha mai risposto che stava male, mi diceva sempre che andava meglio. Aveva 8 anni ma era intelligente, aveva già la consapevolezza che le persone si preoccupavano per lui, che suo padre soffriva per le sue condizioni di salute e lui cercava di alleviare il mio dolore dicendo sempre che stava meglio. Io sapevo che non era così, ma per telefono mi piaceva credere alle sue parole. Durante la telefonata lo immaginavo seduto sulla mia grossa poltrona e con in mano il telefono. Solo questo potevo fare, immaginarlo. Lo immaginavo bello, con il suo viso luminoso e con un sorriso che ti sapeva conquistare, era fantastico il suo sorriso, ma la realtà non era quella, la realtà è che portava sempre un cappellino perché si vergognava di farsi vedere senza capelli, anche in casa. Per telefono non mi chiedeva mai quando tornavo a casa, ma chiedeva quando sarebbe potuto venirmi a trovare e io gli rispondevo sempre appena stava meglio, e sentirmi rispondere con quella vocina che lui già stava meglio, mi dava un dolore indescrivibile.

In quei dieci minuti mi sentivo impotente. A volte mi si stringeva un forte nodo alla gola che cercavo di buttar giù per non far trapelare tutta la mia disperazione nella mia voce. Poi arrivavano gli ultimi due minuti. Solitamente un padre fa le raccomandazioni al figlio, io no, era mio figlio che le faceva a me. Mi diceva di stare tranquillo perché lui stava bene e che presto sarebbe riuscito a farsi quel lungo viaggio per venire a trovarmi. Ma ecco che la voce di un estraneo si intrometteva tra me e lui “Saluti”, era la guardia che avvisava che era finita, allora le parole assumevano un ritmo diverso da quelle precedenti, i saluti erano molto veloci perché la comunicazione si sarebbe interrotta da lì a breve e senza più preavviso. Odiavo sentire una parola di mio figlio incompleta, allora cercavo di dire le ultime parole io. Poi pensavo che anche a mio figlio avrebbe dato fastidio sentire la mia voce interrompersi, ma era più forte di me, avevo bisogno di sentire tutte le sue parole e tutte complete.

Mettevo giù quella cornetta che era tornata fredda, senz’anima. Tornavo in cella e i miei compagni mi chiedevano sempre se era tutto a posto. Forse il mio viso faceva trapelare quello che una volta mi custodivo molto gelosamente, la disperazione, ma poi dentro di me si riaccendeva un fuoco, un fuoco che riuscivo ad alimentare con tutto l’odio che provavo per le persone che mi tenevano rinchiuso e costretto a vivere lontano da mio figlio. Così la mia guerra tra me e le istituzioni prendeva sempre più corpo e la concretizzavo comportandomi come se stessi combattendo veramente qualcuno. Alla fine era sempre la mia disperazione che combattevo, combattevo l’odio che provavo verso me stesso per non essere seduto su quella poltrona con in braccio mio figlio.

Oggi non ho più la mia famiglia. Nei miei scritti voglio essere sempre sincero e con tutta onestà non so, se non avessi perso quello che per me era la mia vita, se oggi metterei tutto in discussione come sto facendo. A volte l’essere umano deve perdere qualcosa a cui tiene più di se stesso per capire, per vedere cose nuove, cose diverse dal passato, ma voi che siete all’esterno, voi che pensate che i detenuti per quello che hanno commesso non meritano di viversi la propria famiglia, i figli in maniera umana, ascoltate con il cuore le nostre testimonianze e quelle dei nostri cari. Abbiamo commesso degli errori, anche gravi, ma paghiamo con anni di carcere, non è giusto che le famiglie paghino per i nostri errori, significa solamente rispondere al male con altro male.