Quando un luogo di chiusura e di esclusione si trasforma in un luogo di confronto

Succede, quando la scuola in carcere funziona, e diventa un momento di esperienze forti e di apertura verso la società

 

66 studenti tra alfabetizzazione e scuole medie, 99 iscritti all’Istituto tecnico commerciale Gramsci: sono tanti i detenuti studenti nella Casa di reclusione di Padova, ai quali vanno aggiunti più di cinquanta iscritti a corsi universitari. Sono numeri che fanno essere un po’ meno pessimisti, perché almeno la scuola funziona in molte carceri, ed è una boccata di ossigeno: per gli studenti reclusi, che nello studio investono per ricostruirsi un futuro; per la società, perché una persona che comincia ad appassionarsi alla cultura, alla conoscenza, alla lettura è comunque una persona meno pericolosa. Biblioteche e scuole possono trasformare un luogo di chiusura e di esclusione come è il carcere in un luogo di confronto, dove le persone imparano ad ascoltare gli ALTRI, a vederli, ad avere attenzione alle loro vite come forse non hanno mai avuto prima, quando al centro della loro esistenza c’era il più delle volte la ricerca delle scorciatoie per star bene, con la droga, i soldi, il potere.

 

 

La scuola in carcere? Non è solo cultura…

 

di Giuliano Ventrice

 

Pochi sanno che anche nelle carceri c’è la scuola, e i corsi scolastici che iniziano, parallelamente a quelli esterni, con il medesimo programma scolastico, cominciando dal primo anno fino al quinto, e diversi detenuti riescono a conseguire il diploma. Qui nel carcere di Padova ci sono tutti i livelli scolastici, dalle elementari alla ragioneria. Ma quali sono i vantaggi per la società e per il detenuto che li frequenta? Credo che sia abbastanza evidente a tutti il fatto che portare la scuola in carcere equivale a portare la cultura dove ha regnato, spesso indisturbata, l’ignoranza. Anche perché la maggioranza dei detenuti non porta con sé un bagaglio culturale accettabile, ma ha avuto la sola “scuola” della strada, della delinquenza, la stessa che li ha “promossi al carcere”. Quindi la scuola, quella vera, offre l’occasione a chi non l’ha mai avuta di conoscere attraverso gli studi nuove prospettive di vita, opportunità per migliorarsi. La scuola è anche un importante punto di risocializzazione, se pur graduale, grazie alle persone che in carcere vengono solo per lavorare, come gli insegnanti, che sempre operano privi di pregiudizi, dando così la migliore lezione di vita che un essere umano possa ricevere. E qui in carcere, chi lo vuole, può imparare non solo ciò che c’è scritto sui libri, ma anche, attraverso i volontari, gli insegnanti, le persone che vengono da fuori, può capire quali sono e come sono i volti di chi, con sacrifici, vive oggi una vita faticosa, e sa comunque che le regole bisogna rispettarle a prescindere dai nostri desideri, se si vuole essere parte di una società civile. Accettare per onestà di stare dalla parte più difficile, più dura, quella di chi sa fare sacrifici, quelli che tante volte non siamo stati capaci di fare noi…

Qui al carcere Due Palazzi siamo più di un centinaio noi detenuti che possiamo accedere alle scuole, chi alle elementari, chi alle medie e chi alle superiori, forse per la maggior parte di noi una volta fuori dal carcere (per chi ha un fine pena) il diploma non sarà utile ad integrarsi meglio nella società, come pezzo di carta non varrà nulla, anche perché la maggior parte di noi è interdetto dai pubblici uffici, ma sono certo che a tutti coloro che hanno frequentato le scuole è rimasto un senso di civiltà più forte, più integro di come l’avevano prima dell’esperienza scolastica. Ed ecco che l’utile per la società è nell’aver scarcerato un uomo non imbruttito dall’ozio che regala il carcere, non imbruttito dalla violenta quotidianità delle nostre patrie galere, ma più consapevole e più responsabile nelle sue future scelte. Per alcuni di noi la conoscenza è anche sinonimo di sofferenza, ti consente di sensibilizzare la tua coscienza in modo più forte, permettendoti di vedere meglio le scelte del passato, e di conseguenza di proiettarti più consapevolmente verso il futuro.

Purtroppo non avviene spesso che le scuole in carcere vengano valorizzate per come si dovrebbe, anzi restano come attività marginali di un carcere vissuto come un istituto che rinchiude “chi non serve più”. Invece bisognerebbe comprendere che nella scuola in carcere bisogna investire coltivando la fiducia nell’essere umano, offrendo nuove “finestre” alle quali potersi affacciare per vedere delle alternative a una vita sbagliata, restituendo a voi che siete fuori persone più rispettose nei confronti della società. È necessario quindi rafforzare questo sistema scolastico interno alle carceri, valorizzando il lavoro degli insegnanti, dei volontari e dei reclusi che con passione scelgono di migliorarsi. A tutti i presidi (ora si chiamano dirigenti, credo) di questi istituti scolastici, che sono attivi nella realtà carceraria, desidererei mandare un invito affinché possano essere più presenti anche personalmente. Sedersi per qualche giorno all’anno al banco con gli ultimi non può che arricchire un po’ tutti, voi presidi e noi “alunni” particolari.

 

 

La vita mi ha insegnato che non è mai tardi per studiare

 

di Lejdi Shalari

 

Era l’anno 2001 quando ho finito le scuole medie. Nel mio paese, l’Albania, erano tanti i ragazzi della mia età che percepivano la scuola come un posto dove andava chi aveva tempo da perdere.

All’epoca i miei genitori me lo dicevano spesso, che la scuola era importante per riuscire nella vita, ma io non gli ho mai dato retta.

Sono emigrato in Italia quando ero ancora minorenne, avevo poco più di sedici anni, e sono scivolato in una brutta vita che poi mi ha portato in carcere.

Dopo tre anni e mezzo, mi hanno trasferito nella Casa di reclusione di Padova, dove c’è la possibilità di frequentare i corsi di ragioneria. Non ci ho pensato due volte, mi sono iscritto subito, e quando sono cominciate le lezioni, vi voglio dire che non è stato facile risedersi sui banchi della scuola dopo dieci anni. I primi mesi sono stati difficili, mi ci è voluto un po’ ad abituarmi a stare seduto per cinque ore di seguito. Tanto è vero che a volte prendevo e me ne andavo in sezione.

Superata la fase in cui dovevo imparare a seguire con pazienza e attenzione le lezioni, grazie anche alla grande capacità di comprensione dei professori che, con molta serietà e passione, svolgono il loro lavoro d’insegnamento, adesso frequento il triennio della ragioneria e cerco con tutte le mie forze di studiare e dare il meglio di me, e anche se in carcere si soffre abbastanza, io mentre sono a scuola mi immergo completamente nel ruolo del vero studente.

Quando sei adulto impari a riflettere, capisci quanto sia importante l’istruzione, ne valorizzi la sua funzione, che in carcere è ancora più importante. A scuola si imparano tante cose, per me è come una fabbrica di informazioni che servono per sviluppare l’intelligenza e per aiutarci a formarci una cultura più aperta, lasciando alle spalle il nostro passato oscuro.

Io ho ventisei anni, spero di diplomarmi al più presto, con un diploma in tasca posso sognare una eventuale iscrizione all’Università di Padova, cosi avrò la mia rivincita, il mio riscatto.

La vita mi ha insegnato che non è mai tardi per studiare, bisogna solo avere fiducia nelle proprie capacità.

 

 

L’istruzione in carcere: norme e realtà

 

di Anna Grazia Stammati,

Cesp - Centro Studi per la Scuola pubblica di Roma

 

Inizio la stesura di questa voce con un ‘furto’: “rubo” infatti letteralmente il titolo a quello scelto dai miei alunni “ristretti” nel carcere di Rebibbia per l’apertura del numero zero della rivista “ Fuori-classe. Carceri in rete” (un periodico di informazione e cultura della sezione tecnica dell’IIS “J.von Neumann” di Roma, operante nella sezione penale e giudiziaria del carcere romano). Una rivista fortemente voluta da un gruppo di insegnanti che operano da alcuni anni a Rebibbia - per dare ‘significato’ a questa esperienza tanto particolare dell’insegnamento in carcere - e da un gruppo di studenti che volevano “lasciare traccia”, fare della propria esperienza qualcosa di utile anche per coloro che – purtroppo - verranno dopo, ma che in questa rivista, come in tutte le altre già esistenti nelle carceri italiane, potranno trovare un punto di riferimento.

Le prime tracce di un diritto all’istruzione come attività obbligatoria tesa alla “rieducazione” dei detenuti è contenuta nel “ Regolamento generale degli stabilimenti carcerari” del 1891 e da allora, passando anche attraverso il fascismo, con il “ Regolamento carcerario” del 1931, l’istruzione viene considerata mezzo per recuperare i reclusi ai valori sociali comuni.

La Costituzione non fa eccezione e stabilisce, nell’art 27, che le pene devono “tendere alla rieducazione del condannato”, mentre nell’art 34 afferma che “l’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita”, guardando alla scuola non più come a un fatto coercitivo, ma come a un elemento di promozione sociale.

All’alba degli anni Sessanta l’istituzione effettiva di scuole elementari carcerarie viene vista ancora come contributo “all’educazione e redenzione sociale e civile” (L.503/58) e si può accedere all’insegnamento attraverso ruoli transitori speciali, che vengono però soppressi nel 1972, in quanto si ritiene che non “speciali” debbano essere tali ruoli, ma “ordinari” e che gli stessi programmi debbano seguire quelli ministeriali previsti per le scuole pubbliche (L. 354/75 “Norme sull’Ordinamento penitenziario; CM del 14 luglio 1976).

Non è un caso che proprio negli anni Settanta si faccia avanti un nuovo concetto di istruzione carceraria, intesa come risocializzazione positiva del detenuto in vista del suo reinserimento nella società, insieme al lavoro, alla partecipazione ad attività culturali, religiose, ricreative e sportive.

Accanto ai corsi di alfabetizzazione, assimilati ai corsi per adulti che si tengono nelle scuole pubbliche e ne prevedono le stesse condizioni per sostenere gli esami, viene peraltro riconosciuto il diritto di istituire scuole di istruzione secondaria di secondo grado negli istituti di pena e viene agevolato il compimento dei corsi degli studi universitari (art.19 L.354/1975).

Le direttive successive, dalla Legge Gozzini (L.663/1986) alla legge Smuraglia (L.193/2000), dalla CM 253 dell’agosto1993 al DPR 230/2000 non sono altro (rispetto all’istruzione negli istituti penitenziari) che una riedizione della normativa precedente e nessun passo ulteriore in avanti è stato più fatto nella riconsiderazione del diritto allo studio come diritto eguale per tutti e da tutti esigibile, indipendentemente dal trattamento rieducativo intrapreso dal singolo ristretto. Un diritto che non dovrebbe essere sottoposto alla discrezionalità dell’amministrazione carceraria, ma fruibile, indipendentemente da qualunque carattere ‘premiale’, da tutti coloro che ne fanno richiesta, così come obbligatoria dovrebbe essere l’istituzione delle classi indipendentemente dal numero minimo per la formazione delle classi ste se (in realtà non è formalmente prevista alcuna deroga alla norma generale, ma semplicemente concessa - e non sempre - ‘per gratia et amore dei’, dall’ amministrazione scolastica).

Questi i dati, oltre i dati una realtà difficile, anche per la semplice applicazione di diritti sanciti (si pensi solo al fatto che l’attuale corso di studi della sezione tecnica dell’Istituto Neumann - nel quale mi trovo ad operare dal settembre del 1997 - è stato istituito dall’ITC “Gaetano Martino”nel 1986 ed è stato il secondo d’Italia, il primo è stato quello del carcere di Alessandria, a più di dieci anni dalla norma che ne prevedeva l’attuazione).

Spesso, tra l’altro, si riesce ad ottenere ciò che sarebbe normativamente previsto o perché il risultato costituisce un’utile “vetrina” o per “pietismo” più che perché si persegua una coerente politica del diritto dei detenuti ad avere comunque una vita dignitosa anche in carcere.

Quando si parla di carcere è infatti difficile non percorrere la lunga strada della retorica del recupero del disagio attraverso la buona azione volontaristica di pochi che spendono il proprio tempo per rendere meno gravosa la condizione della carcerazione.

Il senso dell’insegnamento in carcere dovrebbe invece essere quello di fornire strumenti di analisi e di indagine, momenti di riflessione e di confronto tra punti di vista differenti, in relazione ad una condizione che costituisce un buco nero, una voragine infernale da indagare anche attraverso gli strumenti propri dell’esperienza scolastica carceraria. Una modalità strettamente legata al ‘fare’ proprio della scuola, nella consapevolezza dell’importanza che la cultura e l’istruzione hanno nella vita di un individuo.

In realtà, di fronte ad una popolazione detenuta che ha alle proprie spalle(nel 90% dei casi) un percorso scolastico difficile, costellato da abbandoni precoci, disaffezione totale, semianalfabetismo e che al posto della scuola ha avuto agenzie formative da deriva televisiva, l’esperienza dell’insegnamento in carcere dimostra sempre più l’importanza e l’urgente necessità (contro il dilagare di una concezione aziendalistica della scuola e il tentativo di mercificare l’istruzione) di dare a tutti gli studenti più cultura e non semplicemente “più addestramento al lavoro”. Certo, la nostra rimane una scuola segnata dal carcere, istituzione forte, dalle grandi ombre e dalle poche luci, nella quale spesso tutti sono lasciati soli a risolvere problemi che dovrebbero invece essere risolti in modo sinergico, attraverso quel confronto costante che elimini la sgradevole sensazione della solitudine della propria condizione, che metta in rete e ponga a confronto problemi che a volte sono problemi di semplice, drammatica sopravvivenza.