Bambini che non devono essere considerati “di serie B”

 

“Potremmo fare di più se fossimo più numerosi: per questo cerchiamo volontari, consapevoli e motivati”: è questo l’appello lanciato dall’associazione Telefono azzurro, che sulla protezione del

bambino ha incentrato la sua attività, iniziata 25 anni fa come linea telefonica d’emergenza per

minori in difficoltà e successivamente ampliata a tutti gli ambiti nei quali sia necessario un intervento

per prevenire abusi o intervenire in difesa del bambino. I volontari in questo caso servono per dedicarsi a dei bambini, per troppo tempo e in troppi luoghi considerati “di serie B”: i figli delle persone detenute. L’inaugurazione delle ludoteche della Casa di reclusione e della Casa circondariale di Padova, rimesse a nuovo ad opera della filiale IKEA, che ha gratuitamente offerto l’intero arredo, è stata l’occasione per portare a conoscenza dell’opinione pubblica l’attività che l’associazione presta all’interno delle carceri fin dal 1998. La testimonianza di una persona detenuta, che non vuole che la figlia subisca le umiliazioni dei colloqui e delle perquisizioni, fa capire quanto è difficile trovare delle strade nuove per l’incontro in carcere tra genitori e figli. Ma forse la nuova ludoteca e la paziente cura delle volontarie di Telefono azzurro possono far capire a tanti detenuti che in qualche carcere, come a Padova, c’è la possibilità di vedere i propri figli in condizioni più umane.

 

volontari.telefonoazzurropd@gmail.com

 

 

Genitori che con i loro figli devono riprendere un discorso lasciato interrotto

 

Le volontarie di Telefono azzurro

 

 

Da quando si è formato il gruppo di Telefono azzurro di Padova, abbiamo cercato di prestare il nostro servizio con serietà e costanza, consapevoli e certi dell’importanza dell’attività che andavamo a svolgere sabato dopo sabato, ed in seguito anche nei giorni infrasettimanali, accogliendo i bambini e dedicandoci a loro, vedendoli crescere, affezionandoci a loro, interpretando i loro umori e cercando di alleggerire le loro difficoltà. Fra le attività di volontariato che vengono svolte all’interno degli Istituti padovani, quella di Telefono Azzurro ricopre un ruolo particolare, essendo l’unica espressamente rivolta all’infanzia coinvolta nella realtà carceraria. Il rapporto fra il minore ed il genitore o un congiunto recluso rappresenta uno di questi ambiti sui quali intervenir poiché l’interruzione forzata della relazione può causare al bambino degli squilibri in termini di fiducia in se stesso e nei propri familiari, e in termini di benessere relazionale e materiale. Abbiamo fatto in modo di essere sempre adeguatamente formati per affrontare le situazioni in questo ambiente non certo facile, e forse ci siamo riusciti. Non possiamo che essere grati a tutte le figure all’interno degli istituti di Padova che hanno supportato la nostra attività fin dall’inizio e che continuano a farlo ogni volta che siamo presenti, dai Direttori, agli Educatori, agli Agenti di Polizia Penitenziaria. Ci hanno aiutato a rendere consapevole o ad aggiungere consapevolezza anche nei padri detenuti su quanto importante sia interagire con il proprio figlio per riprendere un discorso lasciato interrotto, per capire la misura della sua crescita, per ricominciare a ridere e divertirsi con lui, anche se per poco, pochissimo tempo…. Durante le nostre presenze vediamo famiglie che restano unite attorno ad un tavolo per tutto il tempo a loro disposizione, mangiando e giocando insieme, e vediamo famiglie in cui il comunicare sembra quasi imbarazzante. Vediamo figli che cercano l’attenzione dei genitori e da questi vengono quasi ignorati, e quelli che invece dalle loro attenzioni sfuggono. Il nostro è certamente un punto di osservazione privilegiato, che ci permette di capire quanta strada ci sia ancora da fare per aiutare questi bambini. Siamo perfettamente consapevoli che il tempo che riusciamo a dedicare a questa attività è ancora poco rispetto a quanto sarebbe necessario perché queste relazioni potessero mantenersi, crescere o addirittura nascere. Noi comunque ci siamo, felici dell’affetto che i bambini ci restituiscono.

 

 

 

 

Il carcere è un luogo poco adatto per una bambina

 

di Klajdi Salla

 

So che la mia storia non è facile da capire, e che io non sono abile nel raccontarla, ma provo a farlo perché quella che noi viviamo spesso è proprio una forma di carcerazione sbagliata, che non fa altro che punire gli affetti delle persone che sono chiamate a scontare la loro pena. Sono in carcere ormai da cinque anni, per una pena complessiva di dieci anni. Dopo il mio arresto ho iniziato a fare i colloqui con i miei familiari, e quando si discuteva sull’ipotesi di portarmi mia figlia, sono stato sempre restio ad accettarla, in quanto pensavo che il carcere fosse un luogo poco adatto per una bambina e che un’esperienza del genere l’avrebbe potuta segnare per il resto della sua crescita. Ma dopo otto mesi che non la vedevo la sua mancanza era troppo forte, e cosi iniziai a maturare l’idea di farmela portare. Quando è venuta al primo colloquio le emozioni sono state tante, anche se per fortuna lei era piccola e non mi ha fatto molte domande, e ha passato l’intero colloquio in modo spensierato giocando con me e altri bambini. La situazione più imbarazzante per me si è presentata alla fine del colloquio, quando dovevamo separarci, perché mi ha chiesto di tornare a casa con lei, ma io purtroppo ero impreparato a una domanda tanto semplice, così i miei familiari presenti al colloquio hanno capito il mio disagio, e sono intervenuti dicendole che non avrei potuto in quanto dovevo rimanere lì per lavorare e con i soldi contribuire alle spese della famiglia, ma che ogni settimana avremmo avuto la possibilità di vederci. Tuttavia dentro di me è nato un senso di colpa per le bugie che le raccontavo, ma in quel momento mi sembrava giusto farlo per cercare di proteggerla da una verità troppo forte e dura per una bambina della sua età: come si fa a dire che suo padre dovrà starle lontano per dieci anni e spiegarle le ragioni in un ambiente come quello carcerario? Non lo fai e ogni volta rimandi ad un futuro prossimo. Sono passati così un bel po’ di colloqui quando un sabato, mentre vado nella sala colloqui per svolgere il colloquio settimanale con la mia famiglia, non vedo mia figlia.  Essendo sicuro che avrebbe dovuto esserci ho chiesto subito a mia madre perché la bambina non era lì con lei, e dopo vari tentativi di nascondermi la verità, hanno dovuto dirmi che la bambina all’ingresso dei colloqui si rifiutava di farsi perquisire perché aveva paura che le prendessero la caramella che aveva in tasca, che con tanto amore aveva pensato di portami. Hanno provato a farla desistere da quella sua scelta ma  non c’è stato verso, anzi ha iniziato a fare i capricci e a piangere. Mentre accadeva tutto ciò, qualcuno del personale le ha ricordato con un tono di voce alto che quello era un carcere e se voleva vedere suo padre avrebbe dovuto svuotare le tasche come un adulto, e la bambina ha compreso definitivamente la verità delle cose, a tal punto da chiedere a sua madre perché io fossi in carcere. Dopo questa esperienza ho deciso di non farmela portare più al colloquio, da allora sono passati quattro anni, lei attualmente di anni ne ha nove e nonostante sia un anno e mezzo che sono recluso nel carcere di Padova, e rispetto ad altri istituti il carcere sarebbe meno “arido” per farla venire al colloquio, per ora rimango saldo in quella mia decisione, mantenendo i rapporti con lei solo telefonicamente. Molto spesso negli incontri avuti con educatori e psicologi all’interno del carcere, ho affrontato questo tema, e la possibilità di raccontare alla bambina la verità sul perché sono rinchiuso in carcere, evitando così di andare avanti con le bugie che ormai da anni le dico, ma per telefono non è facile affrontare questo argomento, quindi continuo a rimandare ad un futuro prossimo nella speranza di trovare un ambiente più adeguato per parlare con mia figlia. Tuttavia per questa brutta esperienza che lei ha vissuto c’è una responsabilità mia, perché avrei dovuto tutelarla non trovandomi rinchiuso in un carcere e facendo una scelta di vita diversa.

 

 

 

Figli a cui chiedere perdono

I genitori detenuti sono costretti ad affrontare da soli le sofferenze, le domande severe, i giudizi a volte spietati dei loro figli

 

A cura della Redazione

 

Per i figli dei detenuti nel nostro Paese si fa poco, pochissimo, non ci pensano quasi per niente le istituzioni, ci pensa poco anche il volontariato, con alcune eccezioni come Telefono azzurro e qualche altra associazione, che organizzano spazi decenti per i bambini che vanno a colloquio da un genitore detenuto. Per il resto, il vuoto. Riempito unicamente dai sensi di colpa dei genitori detenuti, che sono costretti ad affrontare da soli le sofferenze, le domande severe, i giudizi a volte spietati dei loro figli.

 

 

La medicina più forte che mi ha curato è stata la forza di mio figlio

 

di Luminita G.

 

David. Un ragazzino che aveva appena compiuto 10 anni. Mio figlio aveva 10 anni e due mesi quando sono stata arrestata. Nel buio di dolore che attraversavo nella cella d’isolamento pensavo soltanto a come non perderlo. Sono divorziata e correvo il serio rischio di perdere la potestà genitoriale, e avevo paura di perdere anche la sua fiducia. A distanza di 4 anni e 7 mesi, senza mai vederci, David lotta sia per difendermi, sia per conoscermi, sia per darmi forza. Le nostre prime telefonate sono state silenziose e abbastanza “tragiche”, e si sono concluse tra le lacrime. Allora ho trovato una soluzione molto più forte. La posta. E con questa vorrei dare un forte messaggio per far capire che una lettera a un carcerato a volte vale più di qualsiasi medicina. Una lettera può contenere a volte un semplice disegno da un figlio che, nonostante la sua fragilità, prova in tutti i modi a sollevare da un peso la madre rinchiusa nel suo dolore e avvolta nella sofferenza. Questo è stato il nostro primo rapporto epistolare. Parlando con i colori, per ogni suo disegno io gliene mandavo 5 o anche 10. Tutto aveva un significato. Dopo di che si sono aggiunte le prime parole, le prime frasi. Il timore di mio figlio si stava sciogliendo attraverso i colori. Nel momento in cui abbiamo iniziato a scriverci, i disegni per lasciar posto alle parole diventavano più piccoli, come anche la mia paura di perderlo. Quando siamo passati alle parole le nostre sono diventate direttamente lettere molto serie e molto interessanti. Io facevo da medico a lui e lui a me. Questa corrispondenza man mano ci legava. Il coraggio che acquisivo mi determinava a rinunciare a ogni tipo di psicofarmaco e a curarmi con le sue parole. Ma poi passavano gli anni e io mi rendevo conto che iniziavo a conoscere di meno mio figlio. E così mi sono inventata lettere che erano dei veri interrogatori. La prima volta non pensavo che lui avrebbe risposto, invece lo ha fatto. E così sono riuscita a conoscerlo meglio, nonostante ci separino 2000 chilometri e 4 anni e 7 mesi. Non ricordo quante domande gli ho mandato in questi anni, ma l’ultima lettera ne aveva 180, dalla più banale a quelle a cui sarebbe stato davvero difficile rispondere anche per me. Ci sono state anche domande che riguardavano il carcere con il suo mondo, perché volevo capire che idea se ne era fatto lui in questi anni in cui io non ci sono stata. Sono tantissimi i temi che ho toccato e la cosa che mi ha sorpreso è che le sue risposte sono state molto giuste, molto sagge, e mi ha stupito ancora di più proprio il fatto che ha risposto a tutte le domande, anche quelle alle quali non pensavo rispondesse. Non vorrei dire che mio figlio è sorprendentemente diverso dagli altri, però apprezzo la sua capacità di trasformare il dolore in forza, di trasformare la mia disgrazia in un trampolino per sognare un futuro per noi due, sereno e senza ostacoli. E penso che se con i suoi 15 anni ha già questa capacità di affrontare la vita, posso dire di essere una madre fortunata. E lo sono, nonostante non possa dirlo con “formula piena”, perché la metà del mio cuore è spezzato per l’atroce silenzio della seconda figlia.

 

 

 

Negli anni più importanti della vita dei miei figli Io non c’ero

 

Di Alain Canzian

 

Io ho due figli, finché ero a Belluno, più vicino a casa, bene o male li vedevo, da quando sono qui a Padova li ho visti ad agosto dopo tre anni. Prima nelle lettere e nelle telefonate sembravano un po’ sul chi va là, poi invece piano piano mi hanno anche perdonato tutte queste sofferenze che gli ho

causato, e se non vengono a colloquio, non vengono perché hanno problemi, non perché non vogliono Quando li ho visti il mese scorso è stata una bella cosa. Con il più piccolo però non abbiamo un dialogo, perché io non ci sono stato negli anni più importanti della sua vita, quando l’ho incontrato lui mi teneva la mano e poi mi ha dato un grosso bacio, sento che mi vuole bene però manca sia da parte mia che da parte sua quell’approccio naturale tra padre e figlio. L’ultimo colloquio che abbiamo fatto era all’area verde, che effettivamente dà a tutti un po’ meno l’impressione di essere in carcere, il senso di oppressione è minore, anche se il muro di cinta c’è. In quella occasione c’è stata più intimità tra noi, lui mi abbracciava, non parlava però… comunicava con i segni. Invece prima nella sala colloqui con la presenza di altra gente lui stava sempre zitto, impaurito. Gli chiedevo “Come stai?”, lui rispondeva “Bene, bene”, “Come ti senti?” “Bene bene”. Anch’io sono uno che parla poco, e quindi non ce la faccio ad esprimermi neanche con lui, faccio una fatica tremenda, ma spero proprio di poter ricucire presto il nostro rapporto fuori da qui. Più che fare il padre adesso il mio compito è di conoscere questo figlio, perché lui è andato avanti, ha le sue amicizie, ha la sua scuola, ha tutto, io ho perso gli anni nei quali aveva bisogno di una figura paterna forte. Il figlio più grande invece ha la sua famiglia, ha avuto una figlia, ha una casa, sta pagando il mutuo e va avanti per la sua strada. Adesso se mi daranno un permesso premio andrò due giorni a casa, la mia ex compagna si è rifatta una vita, però mi ha detto  che per me ci sarà posto. Al carcere bene o male ci fai l’abitudine, ma ti accorgi di quanto sia distruttivo nella vita delle persone proprio quando vengono a colloquio i tuoi famigliari.

 

 

 

Come chiedere perdono ad un figlio per averlo tradito

 

Federico T.

 

Nella vita gli affetti famigliari ci accompagnano fin dalla nascita, nei momenti più difficili guardiamo a chi ci vuol bene con occhi di speranza, desiderosi di un’attenzione o un gesto d’amore che nella maggior parte delle volte arriva puntuale. Poi cresciamo e siamo noi a diventare padri e madri di altre creature, che con la loro vocina ci chiamano papà o mamma e noi con il cuore pieno di gioia e orgoglio vediamo questi nostri bambini che ci ricambiano con un amore che molte volte non meritiamo. Purtroppo la vita può giocare brutti scherzi e sa essere molto crudele con noi uomini. Una delle peggiori pene è la prigione dove vieni spogliato di tutta la tua dignità d’uomo e diventi un automa alla mercé del sistema. I nostri figli dalla sera alla mattina vedono scomparire i loro padri, si chiedono dove sono finiti, perché e cosa hanno fatto di male per essere abbandonati dal loro genitore. Perché non hanno più le loro carezze e perché sono stati allontanati così. Poi crescono e si rendono conto che i genitori sono solo uomini come loro. Con tanti difetti e pochi pregi, però gli rimane dentro un dolore sordo che li accompagna nello sguardo e nell’anima. Questo è il vero motivo di queste due righe: come chiedere perdono ad un figlio per averlo tradito e lasciato solo quando ne aveva più bisogno, come fargli capire che è il carcere stesso ad allontanarci ogni giorno di più ed a far sì che la parola “perdono” non riesca a uscire dalle tue labbra, ma esploda dal tuo cuore. Come guardare tuo figlio e potergli raccontare tutto il tuo dolore per la impossibilità di abbracciarlo stretto stretto. Come trovare le parole giuste senza cadere nella retorica, senza sembrare un uomo fallito che cerca d’arrampicarsi sugli specchi per sentirsi dire un “ti voglio bene papà”. Senza che i tuoi occhi facciano uscire le lacrime guardando quanto è cresciuto ed è già un giovane uomo. Il perdono di un figlio è la cosa più grande a cui noi uomini dimenticati da altri uomini possiamo ambire, sentire quelle parole sarebbe come rivivere nella speranza di una vita migliore, dove il dolore sia sostituito dalla gioia di far parte della tua famiglia un’altra volta.

 

 

 

Sovraffollati, ma almeno sentiamo più spesso le voci dei nostri cari

Succede a Padova: sei telefonate al mese per tutti, un piccolo miracolo da estendere a tutte le carceri

 

di Ulderico Galassini

 

Chi vive nel mondo fuori, e sente dire da un detenuto “Mi hanno concesso due telefonate in più”, non conoscendo la realtà del carcere, non può apprezzare e capire il grande valore che diamo noi a cose così piccole come due telefonate. Non siamo fuori di testa, ma la nostra è una realtà drammatica e spesso nascosta alla società. Il Direttore della Casa di reclusione di Padova vive pure lui le conseguenze del sovraffollamento (la capienza del “suo” carcere è di circa 400 persone, ma la struttura oggi ne contiene quasi 900) e capendo le esigenze espresse dai detenuti, e la necessità di mantenere un livello di tensione più contenuto, ha accordato due telefonate in più al mese a tutti. Abbiamo guadagnato 20 minuti di contatti con i nostri familiari. In questi giorni, a sentire la nostra voce, inaspettata, quando erano ormai abituati a ricevere la chiamata una sola volta alla settimana, per i classici dieci minuti, sono rimasti sorpresi. Mio figlio, quando mi ha sentito, subito dopo avermi detto “ciao papà, come stai?”, ha avuto un attimo di dubbio e mi ha chiesto meravigliato: “Ma non mi avevi già chiamato per il mese di settembre?”. Era abituato che da oltre un anno lo chiamavo solo una volta al mese, questo lo spazio concesso dalle complicate regole del Ministero di Giustizia, relative alle chiamate ai cellulari, davvero poco, pochissimo, quasi nulla per una cosa così essenziale come il mantenere i rapporti affettivi con l’unica persona che mi è rimasta della mia famiglia. Era così contento di avermi risentito, la soddisfazione e la gioia erano palpabili, il suo tono di voce soddisfatto mi faceva immaginare anche il suo volto sorridente, ed io ero ancora più soddisfatto nell’avergli fatto una sorpresa e garantito qualche minuto in più di dialogo. Prima di questa novità, una sola telefonata al mese mi era stata concessa dal direttore, in deroga a quanto riportato dal regolamento per le chiamate al cellulare: non devi avere avuto altri colloqui con familiari o amici e nessun’altra telefonata nei 15 giorni precedenti, e queste regole valgono per tutte le carceri. E pensare che ormai il telefono fisso lo utilizzano sempre di meno per i costi che comporta, e al contrario siamo invasi da cellulari, anche i ragazzini delle elementari ne hanno uno. Difficilmente ormai si vede una persona senza un cellulare a portata di mano, ma allora perché lo Stato rende così difficile ai detenuti chiamare quei famigliari che dispongono solo di un cellulare? Non è che debba sostenere i costi delle telefonate, quelle se le paga il detenuto. Qui niente è gratis, e alla fine della pena ti presentano anche il conto del “mantenimento carcere”, e paghi lo stesso prezzo sia che tu sia in cella da solo, come dovrebbe essere nel carcere di Padova per come è stato costruito, sia che tu sia in due o in tre in pochissimi metri quadrati di cella, come siamo ora. Uno solo può calpestare il pavimento, per quel poco spazio rimasto libero, gli altri due devono stare stesi sulle brande. In quel pochissimo spazio ci devono stare tre brande (due una sopra l’altra e una sotto la finestra) un tavolino, tre sgabelli (non sedie, sono proibite), un porta TV, tre armadietti e tre pensili a muro. Un arredamento che soffoca parte dello spazio a disposizione, al quale devi aggiungere il piccolo vano utilizzato per servizio cucina e bagno con solo un water e un lavandino. Lo spazio calpestabile è di 12 piastrelle, e bisogna tener presente che la misura di ognuna è di 30 cm x 30. La maggior parte dei detenuti ci deve rimanere venti ore al giorno in queste celle, e questo moltiplicato per lunghi anni di detenzione, alla faccia della certezza della pena che tutti chiedono nei programmi Tv, ma nessuno dice che è veramente una certezza. Lo dimostrano i numeri del sovraffollamento, senza contare quante persone hanno l’ergastolo, il fine pena mai, e per tanti di loro il carcere è la loro morte. Forse con questo si può comprendere che aver conquistato anche solo venti minuti di telefonate per noi che abbiamo sbagliato, ma anche per i nostri cari che di colpe non ne hanno proprio, è come aver raggiunto la cima di una montagna invalicabile e da lì respirare un po’ di aria sentendo meno l’oppressione del cemento, dei cancelli enormi in ferro, e della assenza di quel percorso di risocializzazione di cui parla l’Ordinamento Penitenziario in tanti articoli, che rimangono solo sulla carta. Se hai però la fortuna di trovare spazi di confronto con un Direttore che conosce e capisce le situazioni e che attua anche piccole concessioni, forse le tensioni si stemperano: a Padova per lo meno le cose sono andate così. Un po’ di umanità, qualche possibilità in più per i colloqui e le telefonate sono fondamentali per che sono rese ancora più pesanti dalle situazioni di crisi, di mancanza di fondi e di personale adibito alla gestione complessiva del carcere come agenti penitenziari, educatori, psicologi, psichiatri. Lasciare le cose così come sono, oltre ad evidenziare uno stato di grave inciviltà, è anche una sconfitta per lo Stato e la conferma che il carcere è tenuto solo come luogo, dove rinchiudere quello che fuori non si può gestire con azioni di prevenzione e attenzione al sociale, soprattutto per le fasce più deboli. Ecco perché è importante che almeno ci sia un po’ di attenzione alle persone, che nessuno si senta abbandonato, e qualche apertura sul fronte degli affetti in questo contesto assume un significato davvero straordinario.