A lezione da Luigi Ferrarella

Uno dei migliori cronisti di giudiziaria ci insegna a far diventare i nostri giornali, realizzati da dilettanti, fonte credibile per i giornalisti, quelli “veri”, i professionisti dell’informazione

 

a cura della Redazione

 

Luigi Ferrarella, giornalista del Corriere della Sera, è uno dei migliori cronisti di giudiziaria in circolazione. Ha partecipato, nella nostra redazione, a un incontro dei giornali realizzati in carcere. Quelli che seguono sono i suoi suggerimenti, la sua esperienza di professionista messa al servizio della “nostra” informazione fatta da dilettanti, che però la galera la conoscono davvero.

 

“Io intanto vi ringrazio moltissimo e devo dire che sono qui perché sono un vostro lettore, attraverso soprattutto il sito.

Voi ai vostri seminari invitate prima di tutto giornalisti della cronaca nera e giudiziaria. Di solito i colleghi che fanno la cronaca nera sono quelli che si occupano di tutta la prima parte, cioè quando succede il fatto e i primissimi giorni dopo l’evento, la maggior parte dei problemi insorge però quando si raccontano le indagini, i processi, le sentenze.

I colleghi della cronaca nera normalmente hanno più rapporti con le varie forze di polizia, che sono destinatarie delle indagini all’inizio, mentre quelli che fanno la giudiziaria di solito li hanno con gli avvocati e i magistrati, ovviamente questo se non è bilanciato da un filtro provoca delle conseguenze, perché il rapporto con la fonte è un rapporto in cui tu giornalista sei quello che ha bisogno, che senza questo rapporto non riesci ad avere nessuna notizia.

Tenete conto che, per come funziona il sistema dell’informazione giudiziaria in Italia, teoricamente quando noi scriviamo qualcosa il 99 per cento di quello che scriviamo non sarebbe “scrivibile”, perché sarebbe coperto dai vari segreti nelle diverse fasi del procedimento.

Quindi il rapporto con la fonte è quello che ti permette di acquisire le notizie sulla cui base tu poi scrivi, ma è anche quello che ti permette di scrivere le cose giuste e di evitare di scrivere delle stupidaggini, e però è, nello stesso tempo, proprio il rapporto con la fonte che, se non viene filtrato, ti fa scrivere queste stupidaggini.

Ecco perché secondo me quello che voi avete cominciato a fare con il seminario di formazione per giornalisti è una cosa importante, cioè è un bene che voi riuscite a fare a questi colleghi, perché riuscite a dargli, in un lasso di tempo ovviamente più concentrato, quello che loro forse riuscirebbero un po’ a capire e imparare accumulando esperienza, così come nel nostro piccolo da praticoni abbiamo fatto noi lavorando con altri colleghi. E qualcuno ci spiegava qualcosa, qualcuno no, incontravamo magari delle fonti un po’ più attendibili, un po’ più sensibili, magistrati e avvocati un po’ più disponibili, purtroppo facendo anche errori e quindi imparando dagli errori, che però in questo campo sono errori piuttosto sensibili, perché fanno male alle persone, voi da questa parte, le famiglie delle vittime dall’altra.

Perciò tutto quello che voi state facendo con questo modello di seminario è uno strumento formidabile. Ma cos’è che un giornalista vuole da voi? vuole che voi diventiate una fonte, vuole che voi diventiate una di quelle fonti di cui il giornalista ha bisogno, perché ci sono diversi tipi di fonte, a seconda dei diversi tipi di giornalista. E ci sono giornalisti che si accontentano di una fonte sola, prevalentemente quella ufficiale che gli garantisce un minimo di routine standard, e pochi guai. Poi che non sia proprio il massimo dal punto di vista dell’informazione, e chi se ne frega, dirà qualcuno. Ma attenzione, anche voi potete diventare questo tipo di fonte, perché nella routine io immagino che anche voi che fate il nostro stesso lavoro in un altro modo possiate avere questa tentazione ogni tanto, o perché le cose diventano scontate, per voi sono scontate, o perché per esempio cominciate a non tenere più in considerazione chi è il vostro lettore, che è un’altra cosa che per un giornalista è fondamentale. 

 

Quando il lettore è “maldisposto”

 

Non basta infatti che voi diciate, scriviate, facciate sapere le cose giuste, se poi tanto questa “giustezza” non arriva al lettore, e al lettore a volte non gli arriva perché il giornalista non considera che magari il lettore è maldisposto nei confronti di quel tipo di comunicazione. Allora a noi succede per esempio quando ci tocca spiegare processi, sentenze, questioni che hanno una qualche complicazione giuridica, e quindi ci sono quelli che le ipersemplificano, fino a trasmettere un messaggio che alla fine è sbagliato, ed escono alcuni di questi obbrobri di cui parlate voi. L’altro versante invece è quello di scriverla benissimo, precisissima, ma in una maniera talmente ostica che è come non spiegarla, perché tanto poi il lettore alla terza riga cambia articolo e il risultato è uguale, cioè non gli è arrivato lo stesso il messaggio giusto.

Allora per prima cosa chiediamoci chi è il nostro/vostro lettore di questo argomento, qui ormai lo sappiamo, purtroppo il lettore al 90 per cento è un lettore su queste cose maldisposto per una serie di ragioni, quando va bene è maldisposto per ignoranza, come tutti noi all’inizio, perché conosce poco di questa materia. Quindi è più esposto a quelli che gli raccontano delle bestialità, che però passano in maniera più semplice, specialmente in certi contenitori televisivi, perché già il giornale purtroppo in Italia ha un target medio-alto, si vendono sempre 5-6 milioni di copie come 30 anni fa e dentro sono compresi i tre quotidiani sportivi, poi alla fine i giornali veri arrivano a una parte della popolazione che è ancora minoranza, la maggioranza si nutre di notizie guardando la televisione.

Poi c’è anche un lettore maldisposto, scientificamente maldisposto per esempio per ragioni ideologiche, ho sentito citare alcune trasmissioni “epocali” da questo punto di vista, lì vi dovete confrontare con il fatto che voi glielo potete spiegare quanto volete, ma loro scientificamente continueranno a fare il contrario, perché hanno una ideologia che ritengono di perseguire attraverso lo strumento informativo, cioè attraverso la trasmissione o l’articolo di giornale.

Questo è un tipo di pressione cattiva che subiamo, poi c’è un tipo di pressione altrettanto forte con cui fare i conti, diciamo che io la chiamo più buona, però sempre pressione, è il fatto che ovviamente il giornale è portato a considerare di più le ragioni delle vittime, le famiglie delle vittime, anche questa è una cosa che non si può far finta che non esista, bisogna tenerne conto.

Fra tutte le cose che voi fate, ho visto che ci sono delle iniziative e dei percorsi che mettono proprio in contatto gli autori di reato con le vittime, e questa è un’altra cosa che è fortissima dal punto di vista del moltiplicarsi della potenzialità informativa, perché mette assieme due fronti rispetto ai quali altrimenti il lettore è portato a fare inevitabilmente una scelta di base preconcetta, che lo rende meno disposto ad ascoltare quello che arriva dall’altra parte.

Poi c’è un altro tipo di pressione, che è la pressione e l’aria che tira dal punto di vista politico in questi anni, l’esempio della legge che è stata modificata dopo lo stupro di capodanno è significativo, se voi fate correttamente una valutazione su questo tipo di legislazione vedete che ha in comune questo: sono leggi che cercano di ampliare tutti gli automatismi, cercano di ridurre tutti gli spazi di discrezionalità che il giudice ha di volta in volta per decidere se qualcuno deve essere messo o no in carcere nel corso del processo, per decidere il tipo di pena tra il bilanciamento delle aggravanti e delle attenuanti, per decidere se dare o no i benefici penitenziari.

 

Serve una credibilità “moltiplicata per mille”

 

Questo sono le caratteristiche che voi vedete, che sono ovviamente molto congeniali alla politica che vuole vendere emergenza, perché sono la risposta perfetta: c’è emergenza, c’è il pericolo, la risposta che ti tranquillizza è automaticamente che ci sarà meno discrezionalità in quel singolo settore, un restringimento delle possibilità di dare un beneficio.

Dobbiamo quindi commisurare l’informazione a questa serie di blocchi che abbiamo davanti, poi c’è anche un blocco che la gente ha, rispetto a questi argomenti, anche qui si tratta di una pressione non buona, ma che viene da gente buona. Quando adesso per esempio diciamo che il governo vuol costruire nuove carceri, al di là del fatto, se sia questa la soluzione al sovraffollamento o no, se voi andate per strada la gente dice: 600 milioni per fare delle nuove carceri, dei nuovi padiglioni per i detenuti? ma li mettano negli ospizi, nelle caserme, li lascino stretti, io sono in lista per la casa popolare e non riesco ad averla…

Questi sono comunque cittadini ai quali dovete cercare di arrivare. Allora come arrivare? secondo me impugnando l’unica arma, che qualunque giornalista in qualunque settore di cui si occupi ha, che è la credibilità, attraverso dati, circostanze nuove, elementi di fatto che lui può opporre a tutti coloro che di volta in volta hanno invece interesse a mistificare una certa situazione.

L’esempio che ho sentito fare da voi, della liberazione condizionale, è calzantissimo: quando si parla di qualche caso noto di autori di reato, spesso i media fanno i conti di quanto presto usciranno dal carcere, e calcolano anche automaticamente la liberazione condizionale, poi andiamo a vedere e scopriamo che solo il 3 per cento delle richieste di liberazione condizionale viene accolto. Per quanto troverete lettori impregnati di opposizione ideologica, per quanto troverete lettori che per scarsa dimestichezza non conoscono queste questioni, lettori maldisposti, però alla ventesima volta che gli dite questo dato e glielo dimostrate, qualcosa entra anche nella loro testa.

Questo però richiede un lavoro formidabile, perché presuppone il fatto che voi siate inattaccabili, rispetto alle circostanze e ai dati e numeri che fornite, perché già nel lavoro dei quotidiani fuori è forte la sproporzione tra il giornalista e la controparte di potere, che può essere un piccolo o un grande potere. La mia controparte può essere un magistrato che non ha interesse che io scriva la cosa giusta, che lui invece ritiene nociva per la sua indagine. Può essere l’avvocato che si lamenta perché io scrivo una cosa che lui ritiene che non vada bene per il suo processo, può essere il politico di turno che dice una cosa e tu gli fai vedere che non è vera, per cui lui ha uno smacco per questo.

In qualunque di questi rapporti se io sbaglio la circostanza, oppure anche se do un dato giusto, ma lo “condisco” in un modo che mi rende attaccabile, finisce che svaluto quel dato, svaluto l’unica forza che ho, svaluto l’unico piccolo patrimonio che ha il giornalista, che è la sua credibilità.

Questo per voi che fate informazione dal carcere è moltiplicato per mille, perché voi ovviamente partite da una condizione nella quale, come diceva qualcuno delle persone detenute, “al seminario con i giornalisti abbiamo invitato un avvocato e un magistrato perché dicessero alcune cose, perché abbiamo paura che se le diciamo noi la gente non ci crede”. Questo problema che già abbiamo noi in generale voi ce l’avete ancora di più. Quindi ancora più di noi dovete essere scientifici proprio nel momento in cui date un numero, un dato, una circostanza, però poi con quel numero, dato e circostanza dovete essere implacabili.

 

Provare a “smontare” una notizia

 

Dovreste provare a fare un lavoro di controinformazione che passi attraverso lo smontaggio di una notizia, una al mese di cui voi percepite la mistificazione sui giornali. Ma la dovete smontare pezzo per pezzo dalla catena di montaggio attraverso la quale è stata costruita, per poi far vedere come quell’errore, quella mistificazione è stata costruita ed è arrivata sui giornali o in televisione, perché attraverso questo lavoro di smontaggio, alla prima, seconda, terza, quarta volta, anche quei lettori inizialmente ostili dovranno fare i conti con queste iniezioni di verità, perché è questo che noi possiamo fare, piccole iniezioni di verità.

Certo si tratta di questioni complicate rispetto alle quali nei giornali non lavorano sempre persone che sono specializzate, se voi andate a vedere sia nella cronaca nera sia nel settore della giudiziaria, ci sono spessissimo giornali che mandano su quei fatti cronisti che conoscono di quelle vicende quello che io conosco delle centrali atomiche, cioè niente. Però si trovano a scrivere e a fare informazione, e magari ad essere inconsapevoli tramiti di quelle notizie errate, perché in quel momento sono loro l’interfaccia tra il fatto, di cui magari chi è qui in carcere è stato protagonista, e i lettori che lo leggono.

Per smontare invece le notizie e fare vedere come sono costruite le mistificazioni, in realtà secondo me a regime forse la cosa dovrebbe funzionare cosi: se non il giorno dopo, due giorni dopo o quello che è, dopo aver smontato la notizia, tradurre quello smontaggio, visto che adesso tutti i giornali hanno dei siti internet, in una lettera da mandare al giornale, a chi ha scritto l’articolo, al direttore, se riuscite ad individuare anche il capo di quella redazione, dove gli si dice solo: guarda su questa cosa ti diamo noi un servizio, questa cosa che hai scritto è sbagliata tecnicamente per questa ragione, e dà questa rappresentazione poco rispondente alla realtà. Secondo me la prima volta, la seconda volta, la terza volta la ignorano, alla decima volta non la buttano via la lettera, all’undicesima volta forse vanno a guardare il sito vostro dove, già solo consultando molti dei materiali che avete dentro, tanti giornalisti eviterebbero di fare una serie di errori che fanno.

 

Allora, riassumiamo le idee: il seminario di formazione per i giornalisti, da realizzare in carcere, sui temi dell’esecuzione della pena è un modello fondamentale, bellissimo; la controinformazione attraverso lo smontaggio delle notizie e, terza e ultima cosa, far “esplodere le contraddizioni” che ci sono, sia nella politica, sia nell’informazione rispetto a questi temi.

Come farle esplodere? non tanto sull’appello ai rispetto dei diritti, che è una cosa che purtroppo fa breccia solo in una seconda fase. Prima devi agganciarlo, il tuo lettore, quando lo hai agganciato puoi fare forse anche un discorso di questo genere, ma come prima volta lui non ti segue, anche se è cinico dirlo secondo me lo devi agganciare sull’interesse. Gli devi far vedere che quello che voi dite, quello che voi motivate con i numeri e con la scientificità del vostro lavoro, non è qualcosa che spinge a un generico buonismo, ma è qualcosa che a lui conviene. Se oggi vogliono costruire 500 milioni di euro di nuovi padiglioni nelle carceri, se voi dite che è sbagliato lo dite voi e non vale niente per chi legge. Voi gli dovete dire che: A) è una cosa inutile, perché al ritmo di affluenza che c’è con quel tipo di stanziamento che loro hanno messo ci stanno circa 6.000 posti, 6.000 posti che sono 8-10 mesi di autonomia rispetto al riempimento attuale; B) ci sono 30.000 ingressi all’anno di persone che stanno dentro meno di una settimana, cioè si investirebbero valanghe di soldi per costruire carceri, quando 30.000 detenuti ci stanno pochi giorni, anche questo è un dato interessante per smontare certe notizie.

Bisogna nel contempo fargli vedere che, non con 500-600 milioni di euro, ma con una frazione, un segmento di quella somma, l’investimento su altre voci della vita penitenziaria, per esempio su tutto quel lavoro che c’è prima del momento in cui il giudice decide se dare o no una misura alternativa, bisogna far vedere che quell’investimento renderebbe di più, a lui cittadino, a lui elettore, alla società, in termini di sicurezza, fargli vedere che è molto più sicuro con un investimento sulle misure alternative che sulla costruzione di nuove carceri”.

 

Ristretti Orizzonti: La questione che hai sollevato sulla scelta di non partire subito dalla tutela dei diritti dei detenuti per noi è importante, noi siamo d’accordo con te, che il tema della tutela dei diritti così com’è deve essere mediato in modo diverso. Altrimenti incontri subito l’obiezione che uno, commettendo un reato, i diritti se li è persi, e bisogna lavorare su questo, perché il tema semplicemente della tutela dei diritti anche secondo noi non arriva ai lettori.

“I diritti sono un tema fondamentale, però il problema di nuovo è che, se siamo giornalisti, dobbiamo tener conto del lettore che abbiamo, non possiamo scrivere per qualcuno che non esiste, quello che ci legge è fatto in un certo modo per una serie di ragioni, sulle quali hanno un gran peso televisione e politica, e ti ci devi confrontare, se no quello che fai diventa inutile. E tu devi fargli capire che il suo interesse non è risparmiare 20 euro adesso di presunte tasse, non investendo sulle misure alternative, il suo interesse è non essere scippato da quel 70 per cento di detenuti che esce dal carcere dopo essersi scontato tutta la pena e poi ritorna a delinquere: in questo senso, anche se mi rendo conto che è un discorso non molto popolare, vi dovete agganciare sul piano della convenienza, dovete far vedere che voi state facendo delle cose che convengono.

 

Carcere? chiedi a noi

 

Il fatto che dobbiamo sapere a chi parliamo, per voi che fate informazione dal carcere significa anche sapere chi è il vostro lettore giornalista, che poi deve comunicare al lettore “comune”. Quando avete fatto l’esempio dello “stupro di capodanno” e di quel quotidiano che aveva chiesto ai suoi lettori se erano d’accordo che chi ha subito una violenza si faccia giustizia da solo, non è che queste cose nascono su Marte o perché chi le fa è cattivo. I giornali accusano una gravissima crisi, ormai sono sempre meno i giornalisti assunti a tempo indeterminato, sostanzialmente lavorano con contratti, quando va bene, a tempo, quando non va bene con collaborazioni che vengono pagate una miseria. Ma voi pensate che quel collega lì sia d’accordo o gli piaccia il titolo che gli hanno messo sul suo pezzo? certo che no, ma il problema è che se faccio fatica io in un giornale normale a spiegare che un dato titolo è sbagliato, se facciamo fatica noi in queste situazioni, figuratevi che margine di manovra ha un ragazzo, che ha una doppia fregatura, non ha nessun potere contrattuale e il suo interesse per vivere è scrivere più pezzi di quel genere.

Allora torniamo al discorso di prima sui diritti, anche se è brutale, non è bello ma bisogna sapere che è cosi, per questo io continuo a dire che la nostra arma sono i dati, i numeri, i fatti agganciati alla convenienza, non perché sminuisco il discorso dei diritti, ma perché il discorso dei diritti lo puoi fare una frazione di secondo dopo che hai agganciato il tuo lettore, ma non lo agganci su questo, lo agganci sulla sua convenienza, oppure, se sei molto bravo, sulla sua convenienza rispetto ad un discorso che subito introduce la questione dei diritti.

Un esempio: c’è stato un convegno nel quale, se non ricordo male, un assessore della regione Toscana aveva quantificato che, mentre un detenuto costava 54.000 euro all’anno, l’affidamento di un detenuto tossicodipendente in comunità costava 18.000 euro.

Certo che a noi interessa di più l’effetto buono del fatto che sappiamo che quell’affidamento è molto più efficace dal punto di vista del risultato, però la gente in prima battuta probabilmente la agganci di più, dicendole: guarda che costa un terzo non tenere il tossicodipendente in carcere, poi gli dite anche che il risultato è fantastico, ma intanto gli dite che gli costa un terzo, e sarà quello il titolo che ovviamente il giornale farà. Non farà il titolo su quanto è giusto far uscire in affidamento, invece che tenere in carcere la persona che ha problemi di tossicodipendenza, il titolo sarà che costa un terzo in meno. Credo che sia un compromesso accettabile rispetto alla idea che abbiamo nella nostra testa del mondo fantastico in cui tuteleremmo prima i diritti e poi il resto.

E potrebbe essere un’idea implementare sul vostro sito uno spazio che potrebbe essere intitolato “Carcere? Chiedi a noi”, con questa finalità: caro collega chiedi a me, nel senso che se devi scrivere un articolo che comporta una qualche conoscenza di un istituto, di una regola di una modalità di vita del carcere, mi mandi la domanda e io ti rispondo subito. Lo strumento del seminario per i giornalisti i suoi frutti li produce un po’ di tempo dopo, questo del sito invece potrebbe essere uno strumento per tamponare un po’ la marea di sciocchezze che possono circolare su questi argomenti.

 

Lavorare per diventare fonte dei giornalisti “non falsari”

 

Tenete presente che il vero “conflitto di classe” nelle redazioni è tra i falsari e i non falsari, tra gli inventori e i non inventori. Nelle redazioni c’è una guerra furibonda tra queste due categorie, furibonda, questo voi lo dovete sapere perché diventa anche un fattore competitivo per voi. Lavorate sui “non falsari”, aiutateli a diventare più forti diventando la loro fonte, sulla base ovviamente della maggiore affidabilità e precisione delle notizie che in questo campo avete, fate leva su questa guerra che c’è nei giornali. Diventare fonti per gli altri tenendo presente che noi abbiamo come problema il fatto che su queste materie noi giornalisti siamo normalmente “ciechi” all’ottanta per cento, proprio perché quasi tutto nella fase delle indagini, specialmente fino al processo, sarebbe coperto dal segreto. Quindi molte delle imprecisioni o falsità di cui voi avete parlato sono frutto di malafede, altre sono frutto di una ignoranza, ma molte sono frutto di una contingenza, cioè di una indisponibilità di informazioni nel momento in cui il giornalista avrebbe bisogno di averle.

Perché questo? perché se succede per esempio un arresto, io da dove le vado a prendere le notizie per scriverle poi il giorno dopo? se fossi nel mondo ideale quello che io vorrei, lo penso e lo dico sempre anche se poi capisco di essere minoritario perfino nella mia categoria, è andare a prenderle legittimamente alla luce del sole, proprio in quanto giornalista, nello stesso posto e nella stessa misura che in quel momento è disponibile alla persona che rappresenta chi è stato arrestato o indagato, che è il suo avvocato. Cioè secondo me tutto quello che è già noto alla persona oggetto dell’indagine e al suo difensore, dovrebbe essere come patrimonio dato ufficialmente al giornalista, ma non è cosi che vanno le cose, quindi vi racconto quello che succede nella realtà.

Ipotesi uno: il giornalista va dalla sua fonte di riferimento, che non è sempre la polizia, che non è sempre il magistrato, che a volte è per esempio l’avvocato, perché tra le tante strumentalizzazioni a cui siamo presumibilmente sottoposti, non è che c’è solo quella dei rappresentanti di una parte, c’è anche quella dei rappresentanti dell’altra parte, perché nessuno ti dice niente gratis, anzi se qualcuno mi dice qualcosa spontaneamente, io mi preoccupo perché comincio a pensare che me lo sta dicendo per una qualche ragione che a me sfugge.

Allora la mia difesa, però è un discorso di autodifesa, è di fare l’accattone, cioè io di lavoro faccio il “nobile accattone”, cerco di svincolarmi da tutte le possibili strumentalizzazioni che ciascuna singola fonte, polizia, carabinieri, finanza, magistrato, cancellieri, avvocati, indagati, famigliari tutti, vorrebbe fare di me dandomi solo il pezzetto di notizia che a loro interessa, cerco di staccarmi da questa dipendenza nell’unico modo che posso, che è recuperare il documento che è all’origine di quella iniziativa giudiziaria. Ma se non riesco a sapere il contenuto di quella carta, dovrei prendere un pezzetto da ciascuno mettendo assieme il mosaico finale di tutto. È chiaro che in questa operazione voi come lettori siete garantiti solo dal mio scrupolo, ammesso che questo scrupolo ci sia, perché se invece io sono sciatto, pigro o “venduto mentalmente”, diciamo, a qualcuna delle parti in gioco, mi accontento di quel segmento che prendo da quella parte e finisce cosi. E a voi arriverà unicamente quel segmento di notizia. Solo se io voglio fare un po’ più fatica e mi sbatto un po’ di più, forse alla fine della giornata ottengo questo cento per cento di notizia, e a quel punto sono responsabile poi io di come la scrivo.

Però bisogna considerare anche le condizioni pratiche di lavoro, questo lavoro a volte si deve fare in poche ore, quindi con tutta la buona volontà, a volte persino un collega che condivida questo modo di operare che vi ho descritto, può non riuscire a metterlo in atto, per questo a chi critica quello che io propongo, che gli atti che sono alla base dei provvedimenti eseguiti e ormai stranoti alla persona indagata potrebbero essere tranquillamente, liberamente attinti dal giornalista, io dico: guarda che è un tuo interesse, di te come lettore nonché di te parte in causa, che io abbia tutte le notizie, perché faccio molti meno errori di quanti invece normalmente vengono fatti, se mancano le notizie nel momento in cui le si debbono scrivere.

Lo “smontaggio” della notizia sbagliata attraverso poi la lettera al giornale che ne smentisce i contenuti può un po’ riaggiustare a volte le cose, evitando che quella notizia continui a fare danni, e anche questo secondo me potrebbe essere un valore, evitare che certe notizie continuino a galleggiare nel tempo. Perché per esempio molte di quelle informazioni non rispondenti al vero su questi temi, pochi sanno che sono sbagliate, e nella testa della gente sono rimaste, perché poi quei giornali, quelle televisioni non le hanno corrette con la stessa evidenza con la quale le avevano date.

Però di nuovo, lo ripeto, la correzione deve passare attraverso numeri, dati, circostanze non impugnabili e che siano scevri di qualsiasi tipo di giudizio.

 

Una anagrafe pubblica del mondo dei penitenziari

 

Una ultimissima cosa che invece prendo da una idea di fondo che i radicali sono anni che vanno proponendo, è quella di una anagrafe pubblica del mondo dei penitenziari, io non so se sia possibile, ma sul vostro sito, visto che il Ministero si guarda bene dal farlo, potrebbe essere interessante per esempio avere un’idea di ciascun carcere, anche di ciascun giornale del carcere, di tutto quello che dentro si muove, una idea esatta, in tempo reale. Allora a Padova, quanti detenuti ci sono oggi, la settimana prossima quanti detenuti ci sono, quanti educatori, qual è il bilancio del vostro carcere, ci sono lavori in corso, che imprese li stanno facendo, quanti detenuti hanno misure alternative in corso, tutto quello che da un lato crea più trasparenza, quindi diventa anche una forma di autodifesa, e tutto quello che porta una persona estranea a questa realtà a entrare anche nelle dinamiche pratiche, proprio terra terra, della vita di un carcere.

Secondo me avreste tantissime difficoltà a fare un lavoro di questo genere, perché tutto quello che è notizia in più, tutto quello che porta trasparenza spesso viene osteggiato dalle istituzioni, non sempre per malafede, piuttosto per un riflesso condizionato di ogni burocrazia, tanto più per l’istituzione chiusa che per definizione è un carcere. Però potrebbe essere forse anche un altro strumento di informazione importante.

 

 

Portare i giornalisti in carcere “a studiare”

Un seminario di formazione per giornalisti che nasce per offrire degli spunti di riflessione sulle questioni riguardanti pene e carcere, per poi aprire un dialogo e dare degli strumenti in più a chi deve lavorare in questo ambito

 

di Gianluca Amadori, Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto

 

Innanzitutto ringrazio Ristretti Orizzonti: la collaborazione con l’Ordine dei giornalisti del Veneto è iniziata da un paio di anni ed è stata un’esperienza, una scoperta molto positiva anche per me. L’idea di portare i giornalisti in carcere costituisce un’occasione molto importante per offrire una prospettiva diversa di visione delle cose. Chi si occupa di nera e di giudiziaria, è solito vedere e affrontare i problemi della giustizia dal di fuori: la possibilità di entrare nel carcere e di confrontarsi con chi le esperienze le vive “da dentro”, ci dà l’opportunità di avere un quadro più completo. Esattamente ciò che dovremmo cercare di fare tutti i giorni.

Questa iniziativa nasce, dunque, per offrire spunti di riflessione sulle questioni riguardanti pene e carcere, con l’obiettivo di avviare un dialogo su questi temi e mettere a disposizione degli strumenti in più a chi deve lavorare in questo ambito.

Noi giornalisti dobbiamo cercare di fare sempre meglio la professione. Oggi sono frequenti, purtroppo, esempi d’informazione che a me, e credo anche a molti altri, non piacciono: notizie che si trasformano in spettacolo, che privilegiano il pettegolezzo all’approfondimento e all’inchiesta, che esasperano inutilmente i toni.

Io credo che lo sforzo da fare, partendo anche da iniziative come questo seminario, sia quello di valorizzare un modo di fare informazione che punti sulla correttezza; un giornalismo pacato, capace di approfondire le cose, pur nella necessaria semplificazione, che ci viene imposta dal poco spazio a disposizione nei giornali o in servizi radio-televisivi. In quel poco spazio si possono affrontare le questioni in maniera diversa, cercando di spiegare alla gente che cosa succede davvero, più che urlare e suscitare inutili paure e ansie.

Per farlo spesso basta poco. Alle conferenze stampa, ad esempio, ci raccontano: “Abbiamo arrestato il rapinatore, il mostro, lo stupratore…”. Premesso che fortunatamente in uno stato di diritto si è colpevoli solo dopo essere stati condannati in via definitiva, l’approccio corretto per un giornalista non deve essere quello di “sposare” acriticamente le tesi di parte. Dunque va precisato con chiarezza che quella è la versione che viene data dalle forze dell’ordine (o dalla procura), non la verità. E, quando possibile, va fornita anche la versione dell’altra parte. Cosa che non sempre avviene. Si continua a scrivere: “Ecco il rapinatore”, mentre si dovrebbe spiegare che sono i carabinieri, la polizia, il magistrato ad indicare quella persona come il rapinatore. L’informazione così sarebbe più corretta e completa: quante volte è accaduto, tra l’altro, che pochi giorni più tardi si è scoperto che quella persona non era il rapinatore o lo stupratore? Che il riconoscimento effettuato dai testimoni non era sicuro e non vi erano prove?

Non lo dico per criminalizzare i giornalisti, che in gran parte dei casi fanno bene il loro mestiere: ma un po’ di autocritica è giusta per cercare di migliorare ancora; per valorizzare le molte cose buone, le professionalità dei tanti giornalisti che fanno ancora dei servizi eccezionali con grandi approfondimenti e che rischiano la vita per informare l’opinione pubblica.

Un altro aspetto da valorizzare è il rispetto della dignità delle persone: quando scriviamo ci occupiamo sempre di persone che meritano di essere rispettate, qualsiasi cosa abbiano commesso. Anche se hanno ucciso, anche se hanno commesso i reati più atroci. Non bisogna mai offendere, non bisogna mai schernire perché ci sono sempre sensibilità da rispettare: quelle delle vittime, innanzitutto, ma anche quelle dei familiari degli autori dei crimini, dei loro figli, che quasi sempre non hanno alcuna colpa.

 

Le semplificazioni estreme che non fanno bene all’informazione

 

Un ultimo tema che vorrei porre all’attenzione è quello relativo alla semplificazione utilizzata spesso nei media quando si parla di scarcerazioni, di arresti domiciliari, di benefici carcerari: “È GIÀ FUORI”, riportano i titoli.

I giornalisti hanno le loro responsabilità per un’informazione a volte non precisa. Ma vi sono anche altre pesanti responsabilità: quelle di una politica che privilegia posizioni populiste e demagogiche.

Tutto si fa sull’onda dell’emotività: bastano due incidenti provocati da un automobilista ubriaco per reclamare pene esemplari per tutti gli omicidi colposi.

In un quadro di questo tipo assume importanza ancora maggiore un’informazione corretta, in grado di spiegare alla gente come funziona il sistema: per spiegare che il carcere è previsto soltanto dopo che una sentenza è passata in giudicato, e che le altre forme di limitazione della libertà personale, di detenzione (la custodia cautelare) sono delle eccezioni. In custodia cautelare cioè si va (o si dovrebbe andare) soltanto se ricorrono delle esigenze particolari che sono quelle del pericolo di fuga, del pericolo d’inquinamento probatorio oppure quella della reiterazione del reato. Si finisce in carcere in custodia cautelare solo se c’è la previsione che la pena che ipoteticamente potrebbe essere inflitta per quel reato sia superiore ad una certa entità. Queste sono tutte cose che chi scrive dovrebbe sapere e cercare di spiegare alla gente. Altrimenti si alimenta confusione. Una persona arrestata per un furto, per un borseggio sul bus, finisce davanti a un giudice e, dopo aver patteggiato, viene scarcerata. Ma non è che va fuori perché il giudice è buono o perché nessuno finisce in galera in Italia: viene rimessa in libertà perché, con una pena di quel genere comminata a una persona incensurata e con la sospensione condizionale, non si sta in carcere. Così dice la legge. Ovviamente si può fare una campagna per cambiare la legge, se ritenuta ingiusta, ma non è corretto contribuire a creare il convincimento nella gente che tutti sono fuori nonostante abbiano fatto qualcosa di male. Perché ciò non corrisponde al vero.

Noi giornalisti dovremmo avere una maggiore consapevolezza, una maggiore preparazione, in modo da poter illustrare al meglio i meccanismi della giustizia, in modo da poterli spiegare e farli capire. Anche i casi di malagiustizia, gli errori per colpa dei quali vengono scarcerate persone pericolose, che meriterebbero di essere detenute. Casi eccezionali che però accadono.

Sono questi alcuni degli spunti di riflessione che voglio offrire alla discussione, perché credo che oggi più che mai ci sia la necessità da parte dei giornalisti di aggiornarsi, di studiare e di essere più consapevoli dei problemi per poter fare al meglio questa professione non sempre facile.

Ritengo che questo seminario sia un’iniziativa che va nella direzione giusta e l’auspicio è che sia utile a tutti per offrire la possibilità di riflettere su alcuni temi di grande importanza.

Grazie a quanti hanno voluto partecipare: il solo fatto di essere qui testimonia il vostro interesse, la vostra sensibilità.

 

 

Il magistrato di Sorveglianza, tra concessione dei benefici e tutela dei diritti

 

di Marcello Bortolato, Magistrato di Sorveglianza a Padova

 

Ringrazio i giornalisti per essere venuti e ringrazio chi mi ha invitato, perché il problema di come l’informazione tratta la materia della pena e del carcere è importantissimo.

Io sono sia un lettore di giornali sia un tecnico, perché faccio il magistrato di Sorveglianza, e quindi spesso mi accorgo di quanti problemi ci siano nel descrivere la complessità dell’esecuzione penale e del carcere.

La complessità della vita si riflette nella complessità del carcere, dove la vita continua anche se in forme diverse e con tutte le contraddizioni e le difficoltà che ci possono essere in una struttura in cui viene limitata la libertà personale: e descrivere e rappresentare questa complessità in termini corretti non è facile.

Vorrei però subito dire una cosa, io sono il magistrato di Sorveglianza, colui che sovrintende all’esecuzione penale sotto due aspetti. Il primo riguarda la concessione dei benefici penitenziari: il magistrato da solo, o insieme ad altri componendo il Tribunale di Sorveglianza, quindi in un collegio formato da quattro magistrati, di cui due sono esperti, giudici onorari, cioè cittadini che svolgono le professioni di psichiatra, medico, criminologo o anche assistente sociale, delibera se concedere o meno i benefici ai detenuti. L’altro aspetto che riguarda i compiti della magistratura di Sorveglianza è la tutela dei diritti dei detenuti, in quanto la compressione della libertà personale, che è il bene che viene limitato dalla pena, non deve e non può comportare la compressione degli altri diritti che un detenuto porta con sé durante tutta l’esecuzione della pena e che devono essere tutelati e garantiti al pari che per i cittadini liberi.

In questa duplice veste il magistrato di Sorveglianza si occupa sia dei detenuti definitivi, cioè quelli che entrano in carcere per scontare una pena definitiva, sia di coloro che sono in custodia cautelare, ma riguardo a questi solo ed esclusivamente sotto il profilo della violazione di eventuali diritti nel corso dell’esecuzione della misura cautelare.

Leggevo nell’opuscolo preparato dalla Redazione di Ristretti Orizzonti che l’unico automatismo esistente nel sistema penitenziario italiano è la scarcerazione a fine pena, e questo è verissimo perché in carcere l’unica cosa certa e automatica è che la pena prima o poi finirà: non c’è nulla di scontato, nonostante quello che si dice e che si legge riguardo agli automatismi nella concessione dei benefici; io che sono il magistrato di Sorveglianza e che quei benefici posso concedere, vi dico che non c’è nulla di automatico poiché tutto dipende da una valutazione che, pur avendo un tasso di discrezionalità elevato, è comunque guidata dal principio finalistico della rieducazione della pena. E questo è il primo punto.

 

La certezza della pena viene confusa con la certezza del carcere

 

Il secondo punto è che in questo Paese la certezza della pena viene confusa con la certezza del carcere. Quindi lo slogan abusatissimo della certezza della pena, di cui anche autorevoli intellettuali si rie­mpiono la bocca, non vuol dire assolutamente certezza del carcere, che è invece il frutto di una “ignoranza” del nostro sistema penitenziario, nel senso letterale del termine, nel senso cioè di ciò che non si conosce.

Cosa può voler significare allora che la nostra Costituzione abbia assegnato alla pena una finalizzazione rieducativa?

Chi ha fatto studi giuridici sa che nel corso dei secoli, nel corso della storia delle civiltà, alla pena sono state attribuite sempre varie funzioni, tre in particolare.

La prima, quella retributiva, consiste nel ripagare un male con un altro male: hai ucciso, uccidiamo l’assassino; hai rubato, tagliamo la mano al ladro e così via. Da Beccaria in poi si è invece pensato di limitare questa retribuzione alla privazione della libertà personale, riparando la “ferita” inferta alla società con un’altra ferita, che è quella di isolare il responsabile del reato dal contesto sociale e chiuderlo in un luogo dove non possa avere contatti con l’esterno. Chi ha tradito il patto sociale va isolato e dunque recluso.

Poi c’è una funzione della pena che si dice special-preventiva: la pena deve servire ad impedire a quel soggetto, che un giudice ha riconosciuto responsabile del reato, di delinquere ancora; quindi non mi interessa retribuire il male con un altro male, ma voglio soltanto impedire a quella singola persona di fare del male. Questa opzione presuppone il giudizio di pericolosità sociale (che nel nostro ordinamento è alla base delle misure di sicurezza) e pertanto fintantoché non verrà meno quella specifica pericolosità, il condannato va tenuto separato dalla società.

Infine c’è la funzione general-preventiva, cioè di deterrenza per l’intera collettività. La pena serve a “spaventare” la società dicendo a ciascuno di noi: se compi quella violazione della regola sociale ti sottopongo ad una limitazione della libertà, quindi la pena ha una funzione deterrente finalizzata ad impedire la commissione dei reati da parte di chi ancora non li ha compiuti.

L’articolo 27 della Costituzione, che è il faro che deve illuminare tutta la materia dell’esecuzione penale, e non solo di questa posto che anche il giudice che applica la pena lo deve tenere in alta considerazione, dice che c’è un’unica funzione che riassorbe e condensa in sé tutte le altre; cioè la Costituzione non prende posizione se la pena debba essere retributiva, special-preventiva o general-preventiva, poiché sarà il legislatore, e la legge (che è in un gradino più basso della Costituzione) può essere cambiata dalle maggioranze parlamentari che di volta in volta si formano, a dire che cosa privilegiare, ma comunque c’è una funzione assegnata dalla legge fondamentale della Repubblica che le deve assorbire tutte e che è la finalità rieducativa. Del resto i costituenti sono stati in carcere, erano veri e propri “avanzi di galera”, l’Assemblea costituente del 1946 era composta da gente che era stata in carcere, era stata al confino, era stata torturata; eppure sono usciti ed hanno voluto che il carcere fosse messo in Costituzione perché l’avevano conosciuto, ma vi hanno assegnato una tensione rieducativa, lo sforzo cioè di reinseire nella società chi ha violato quel patto; inoltre hanno stabilito, proprio perché lo avevano provato sulla loro pelle, che la pena non può mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e dunque deve rispettare la dignità delle persone, che è un altro aspetto importante ed oggi purtroppo di estrema attualità.

Ed è in quest’ottica che si inseriscono i benefici.

 

Non c’è solo il carcere, ci sono altre forme di esecuzione della pena

 

Se la pena deve essere rieducativa, non necessariamente deve rimanere stabile dal punto di vista quantitativo e qualitativo: nel caso ad esempio della condanna a cinque anni per rapina, la pena che dovrà essere applicata deve tendere a rieducare il condannato, quindi deve cercare di fare in modo che alla fine di questa carcerazione il condannato non compia nuovamente una rapina.

Studi scientifici e giuridici approfonditi ci hanno detto che, se una persona sta in carcere fino all’ultimo giorno non vedendo nessuno, non potendo stare con i propri familiari, non potendo mai mettere il naso fuori dal carcere e venendo a contatto magari con persone molto più delinquenti di lui, imparando cose più gravi, inserendosi nel circuito della criminalità proprio attraverso la promiscuità della detenzione, quando uscirà dal carcere è molto probabile che ricominci a delinquere. Chi invece espierà la pena in forme diverse e magari parzialmente fuori dal carcere in misura alternative, avrà meno possibilità di ricominciare a delinquere (in questi casi si valuta le recidiva in una percentuale del 19 % a fronte di una recidiva, per chi espia la pena fino all’ultimo giorno, invece del 69 %) e sono dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

Spesso non si capisce che non c’è solo il carcere, ci sono altre forme di esecuzione della pena, diverse ma con un grado di afflittività comunque apprezzabile, come ad esempio la detenzione domiciliare.

La detenzione domiciliare significa stare chiusi in casa per lungo tempo (anche anni); significa che i Carabinieri vengono alle due di notte a vedere se sei a dormire e ti suonano ripetutamente il campanello; se sgarri anche di pochi minuti ritorni dentro, puoi essere denunciato per evasione ed arrestato in flagranza.

Quindi la detenzione domiciliare non è libertà, così come non lo sono gli arresti domiciliari, significa che invece di stare chiuso in una cella stai chiuso in casa ma nel contempo puoi stare con la tua famiglia che ha bisogno della tua presenza e tu della loro; ti può aiutare a riflettere su quello che hai fatto forse meglio del compagno di cella, su che senso dare alla tua vita futura, puoi provare a recuperare l’affetto dei tuoi familiari stando con loro, anche se avere un detenuto domiciliare in casa non è una cosa semplice per dei bambini che vanno a scuola, e che magari chiedono al papà che li accompagni e non riescono a capire perché tu debba rimanere in casa. Per una famiglia a volte è più dolorosa e difficile una misura domiciliare che il carcere, pensateci.

Un’altra misura alternativa è l’affidamento in prova, il beneficio più ampio che i giudici di Sorveglianza possono concedere ai detenuti che hanno meno di tre anni di pena residua da espiare, nel caso in cui ci sia un giudizio prognostico favorevole, che emerga da un’osservazione prolungata in carcere.

Quindi noi non diamo i benefici così a pioggia perché ci piace o non ci piace un detenuto, ma perché in carcere ci sono delle persone che vedono i detenuti giorno per giorno, anche se purtroppo sempre meno perché i reclusi sono tanti e gli educatori pochi, però diciamo che quantomeno li vedono più di noi. Li osservano, li studiano in base alle loro competenze specifiche (ci sono anche degli psicologi), sentono le loro esigenze, si fanno da tramite verso di noi e alla fine ci forniscono un parere. Affidamento in prova significa che il condannato è “affidato” ai servizi sociali, che lo accompagnano nel suo cammino di recupero, significa che devi lavorare e se non hai un lavoro hai l’obbligo di cercartelo, hai l’obbligo di risarcire il danno alle persone offese o di svolger in cambio attività riparatorie (opere di volontariato le più varie); devi startene in casa per alcune ore di notte e non puoi girare indisturbato per il paese. Guardate che paradossalmente c’è gente che rinuncia all’affidamento e preferisce stare in carcere, magari perché gli mancano 4/6 mesi, perché non vuole questi obblighi che noi giudici di Sorveglianza imponiamo nell’affidamento, perché la legge li prevede. La pena è un progetto anche per chi la subisce e chi non partecipa rimane fuori dai benefici. Puoi meritare l’affidamento solo se ti impegni a risarcire il danno e se non hai la possibilità di pagare devi fare delle attività riparatorie, che significa anche lavori socialmente utili e attività di volontariato. Noi abbiamo moltissimi affidati che fanno lavori di volontariato e spesso vengono a contatto con altri settori del disagio sociale che mai avrebbero conosciuto. La maggior parte delle persone che sono in carcere appartiene ad un’area immensa del disagio sociale che la società non riesce a risolvere in altri modi, anche se ovviamente c’è una responsabilità personale, c’è un reato che viene commesso con piena libertà di determinazione (è questo il presupposto di ogni condanna): non tutte le persone infatti che si trovano in una situazione di disagio decidono di commettere dei reati, ma certo il disagio li favorisce.

 

Ma chi sono davvero i recidivi?

 

Si parla spesso della troppa discrezionalità che avrebbero i magistrati di Sorveglianza, tant’è che quando si concede un beneficio a un detenuto che poi uscendo dal carcere compie un reato, si dice subito che il potere lasciato a questi giudici è immenso e va dunque limitato. Da qui tutta una serie di normative degli ultimi dieci anni che hanno cercato di limitare questa discrezionalità, una per tutte la legge ex Cirielli che ci ha legato le mani, ci ha impedito di far uscire i detenuti se recidivi. Ma il carcere è pieno di recidivi, è ovvio: chi commette un reato una volta sola, voi sapete che non va quasi mai in carcere, se non per reati gravi, perché gli viene concessa quasi automaticamente la sospensione condizionale della pena. Non si tratta di beneficio carcerario; è una sospensione dell’esecuzione della pena inflitta a chi ha commesso la prima volta un reato non grave (contenuto nei 2 anni di pena): il giudice (della cognizione) che applica la pena contemporaneamente la sospende per cinque anni per vedere se per caso venga compiuta un’altra violazione, nel qual caso anche quella pena viene fatta eseguire.

Quindi coloro che compiono un reato la prima volta non vanno di solito in carcere, va in carcere chi i reati li compie più volte e cioè proprio il recidivo. Allora impedire al recidivo, come ha fatto la legge ex Cirielli, di avere un beneficio contenitivo come la detenzione domiciliare, implica che molte persone detenute non possono accedere alle misure alternative anche se ne ricorrono tutte le condizioni di merito.

Ma chi sono questi recidivi? Se andiamo a vedere, oggi su 68.700 detenuti il 30% è tossicodipendente, quindi ha compiuto un reato per procacciarsi la droga, rapina e ruba perché deve drogarsi. E lo reitera più volte perché ha sempre più bisogno di drogarsi.

In questo Paese il problema della droga, che è complesso e, per carità, nessuno ha la bacchetta magica, viene risolto, semplificando, con il carcere e quindi i tossicodipendenti sono i primi ad andare in carcere, che è il posto più sbagliato dove dovrebbero andare.

Di questi 68.700 detenuti circa il 52 per cento sono definitivi, quindi in Italia quasi la metà dei detenuti sono in carcere perché in custodia cautelare, dunque presunti innocenti in attesa di giudizio o in attesa di sentenza definitiva. Solo il 52 per cento dei detenuti quindi può usufruire dei benefici, perché questi non possono essere chiaramente dati a chi è in custodia cautelare e deve ancora essere condannato.

Tra i benefici penitenziari, oltre alla detenzione domiciliare e l’affidamento in prova, vi ricordo la semilibertà. Spesso si dice che il detenuto in semilibertà è “libero”; mi viene in mente il caso di Pietro Maso e i titoli sui giornali “Maso è libero”: no, è semilibero e c’è una bella differenza, se le parole hanno ancora un senso in questo Paese.

Ma che cos’è la semilibertà? La semilibertà è il beneficio secondo il quale un detenuto, se ha un lavoro all’esterno, può uscire dal carcere solo per svolgere questo lavoro; ma deve prima trovarsi un lavoro, che di questi tempi non è affatto facile. Se lo trova, gli si consente di uscire per svolgerlo ma deve rientrare in carcere per dormire, quindi non è libero; perciò quando sentite, mi rivolgo proprio direttamente a voi giornalisti, la parola “semilibertà” dovete pensare che si tratta di una persona che è in carcere ed è detenuta a tutti gli effetti, parificata a tutti gli altri detenuti sotto il profilo del trattamento, salvo per una cosa, che esce la mattina, va a lavorare per poi ritornare alla sera in carcere. Ovviamente può essere controllato durante il tragitto, se sgarra il beneficio può essere revocato, se non lo trovano al lavoro glielo revocano immediatamente; certo, è una piccola apertura della porta e un rischio c’è chiaramente, come c’è nel permesso premio, ma sempre inferiore al rischio di mettere fuori una persona dopo che ha scontato tutta la pena in carcere e che a quel punto deve cominciare a trovarsi un lavoro e magari seguirà la scorciatoia del crimine perché più rapida.

Il permesso premio è la possibilità che viene concessa dal magistrato di Sorveglianza di uscire dal carcere per coltivare gli affetti, gli interessi culturali o di studio; il permesso premio è la prima occasione che il detenuto ha di “mettere il naso fuori”. Quindi lo si concede dopo che si è conosciuta la persona in carcere e che la si è osservata: certamente è una “scommessa” su di lui.

 

I magistrati di Sorveglianza lavorano sul futuro

 

Del resto i magistrati di Sorveglianza lavorano sul futuro mentre il giudice della cognizione, quello che applica la pena, lavora sul passato, deve giudicare un fatto, sente i testimoni e accerta la verità di una certa vicenda processuale dopodiché applica la pena. La sua è una diagnosi sul passato e solo parzialmente sul futuro. Il magistrato di Sorveglianza deve invece fare una prognosi vera e propria, quindi lavora sul futuro, e qualche errore può compierlo ed è quello che poi trova spazio sui giornali con titoli come “Ergastolano evade”, “Detenuto va a fare una rapina durante un permesso premio”.

Certo ci può essere qualche caso, ma andiamo a vedere le percentuali di cui ho parlato prima, torna a delinquere molto di più chi ha trascorso tutta la pena in carcere, di chi ha scontato in misura alternativa parte della sua condanna.

Vorrei fare un’ultima annotazione sull’ergastolo.

Qui a Padova ci sono molti ergastolani, sapete quanti sono gli ergastolani in Italia? Sono 1.434 e io quando l’ho letto sono rimasto sorpreso perché non pensavo fossero così tanti; quindi anche quando si dice che in Italia non si dà più un ergastolo, che i grandi criminali sono tutti fuori, si deve ricordare che vi sono più di 1.400 ergastolani su 68.700 detenuti e 600 detenuti sottoposti al regime dell’art. 41 bis: non sono pochi.

Allora come si concilia l’ergastolo, che è una pena definitiva con fine pena mai, con la finalità rieducativa? Il problema c’è, tant’è che la Corte costituzionale si è occupata della questione e ha detto una cosa importantissima: che l’ergastolo, la cui previsione astrattamente potrebbe contrastare con il principio rieducativo dell’articolo 27 della Costituzione (perché non si può dare rieducazione a chi mai uscirà dalla galera) è costituzionalmente legittimo solo in quanto c’è un beneficio che si può dare anche agli ergastolani, e cioè la liberazione condizionale.

La liberazione condizionale non è una misura alternativa, è un beneficio che esisteva prima delle misure alternative (introdotte nel 1975), è prevista dal Codice penale - e stiamo parlando del Codice Rocco quindi un Codice fascista – e consiste nella possibilità di uscire anticipatamente, anche gli ergastolani, se dopo aver espiato una parte assai considerevole di pena (che per l’ergastolo è di 26 anni) ci si è pienamente ravveduti, si è risarcito il danno oppure si è dimostrato di essere nell’assoluta impossibilità di risarcirlo. Per cinque anni il liberato viene sottoposto ad una misura che si chiama “libertà vigilata” e quindi deve firmare tutti i giorni dai carabinieri, deve stare a casa di notte, non può guidare, non può muoversi dal Comune di residenza; dopo questi 5 anni, se si è comportato bene, la pena residua non si eseguirà più, anche quella perpetua.

L’ultima annotazione riguarda l’articolo 21, un beneficio che non viene dato dal magistrato di Sorveglianza ma dal Direttore del carcere e che a mio parere dovrebbe essere incrementato: consiste nel lavorare fuori dal carcere per alcune ore in situazioni assolutamente protette e poi rientrare in carcere; è simile alla semilibertà ma è più restrittivo. Anche questo beneficio favorisce la rieducazione attraverso lo svolgimento dell’attività lavorativa, principale motore, assieme allo studio, di ogni recupero.

 

 

L’informazione si interessa degli elementi obiettivi della commissione del reato

Quello che però è importante sia per i minori sia per gli adulti è che c’è anche un’altra dimensione, obbligatoria peraltro da considerare nel caso dei minori, che dice che “bisogna valutare la personalità”

 

di Mauro Grimoldi, Presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia,

autore del libro “Adolescenze estreme”

 

Il tema che voglio trattare, quello dei reati dei minori, si incrocia in maniera molto chiara con quello della bontà e della cattiveria, del chiedersi cioè “ma l’autore di un reato è buono o cattivo?”.

Io non sono in grado di fare una valutazione di questo tipo, non lo so e non credo che sia scritto nel fatto che una persona commette un reato, il principio che intrinsecamente questa persona debba essere o buona o cattiva o che ci possa essere più bontà o più cattiveria in chi commette un reato rispetto a chi non lo commette.

Quello che però è certo è che la commissione di un reato, sia da parte di un minore che di un adulto, in qualche modo segnala la violazione di un patto sociale e questo è un patto che, secondo Freud nel “Disagio della civiltà”, quindi secondo un autorevolissimo psicologo padre della psicoanalisi, per noi rappresenta qualcosa di molto importante e di molto profondo.

In fondo una persona per stare in una comunità, che è fatta anche di altre persone, rinuncia ad una certa parte del proprio godimento. Quindi decide di non realizzare sempre e comunque in via diretta le cose che vuole e desidera, perché stare insieme agli altri è meglio che starsene da solo, perché riesce a procacciarsi meglio le cose di cui ha bisogno e perché alla fine diventa un processo, appunto, conveniente.

Il patto sociale è una cosa che in linea di massima funziona, nel senso che funziona per la stragrande maggioranza delle persone, tranne per coloro i quali ad un certo momento della loro vita commettono un reato.

Il punto è un po’ la chiave anche di tutta la questione attorno alla quale ruota il problema della sicurezza sociale, e sapere perché alcune persone rispettano il patto sociale e quindi si trovano all’interno di una cornice di convenienza e perché invece alcuni, per realizzare dei bisogni, che si possono situare su di un versante pulsionale, non lo rispettano, diventa importante.

Proprio in questi giorni si discute se lo zio di Sara Scazzi sia l’autore del gravissimo reato di cui è accusato perché rifiutato rispetto ad una rea­lizzazione di un suo desiderio di tipo libidico, oppure viceversa se di fatto lei lo stesse accusando di mettere in luce e di rendere pubbliche le sue attenzioni. Io credo che possa essere assolutamente importante capire il perché per diverse ragioni, nel caso dei minori perché innanzitutto queste ragioni in una stragrande maggioranza dei casi e direi quasi nella totalità non sono note.

In uno scorso evento che abbiamo vissuto qui insieme, e sono sempre momenti meravigliosi devo dire, avevo sottolineato quella che è stata la frase di un ragazzino accusato di un reato sessuale, che vedendo all’interno del nostro ufficio diverse illustrazioni e ritagli di giornali ed articoli, mi chiedeva “ Ma voi conoscete gente cattiva, frequentate persone cattive?”.

Cioè come dire “Che coraggio avete nell’incontrare queste persone e chissà quante ve ne capitano!”; questo ragazzo era accusato di un reato ex articolo 609 che aveva poi effettivamente commesso, quindi di fatto non simulava neppure di non aver commesso il fatto. Però si attendeva qualcosa di diverso per sé, non vedeva, specchiandosi, l’emblema di una sostanziale cattiveria, ma vedeva qualche cosa che segnava la cifra di una domanda, di un enigma, lui si domandava il perché.

Il perché lui si era trovato lì, il perché di fatto si era trovato a commettere quel reato, ed effettivamente il quesito esiste e la risposta a questo quesito può essere usata per fare non più di due cose. Una cosa è fare il profiling, cioè fare quell’attività che viene messa al servizio della’attività investigativa e che consente di dire, e in un caso come quello di Sara Scazzi sarebbe abbastanza semplice, quale dei vari scenari che vengono proposti e che sembrano tutti plausibili è più plausibile di altri, in base ad una serie di dati statistici che abbiamo ampiamente a disposizione, in base all’esperienza e all’elemento soggettivo che riguarda la commissione di questo reato.

Ma poi ci interessa poco, ci interessa invece il secondo utilizzo, quindi non quello che viene messo al servizio dell’attività investigativa, ma quel servizio che viene reso dalla valutazione della persona che commette un reato, rispetto alla probabilità di reiterazione, rispetto alla pericolosità sociale.

È importante comprendere il significato che ha avuto, all’interno della vita di una persona, il fatto di essersi trovato lì e di essere uscito da quel contratto sociale che dovrebbe funzionare per tutti, ma che non funziona per tutti.

Allora io ho anche delle ottime possibilità di sapere in che tempi si può realizzare quell’elemento sia prognostico, sia anche quell’elemento qualitativo che mi permette di dire di quali esperienze ha bisogno quella persona per riuscire a pensare che possa non ripetere il reato.

Questa è una questione che è importante per i minori, anzi diciamo che per i minori è essenziale perché per i minori è inscritto all’interno di una legge che è la 448/88 e che è una legge importantissima che ci mette all’avanguardia sul piano della legislazione e dell’esecuzione penale per i minori che commettono reati, questa legge potrebbe avere un senso e un’utilità anche rispetto ai discorsi che riguardano gli adulti. Per cui trovo che sia assolutamente importante, direi essenziale non limitarsi alla commissione di un reato per dare un giudizio spesso semplificato della persona in base a quello che è accaduto.

Io l’ho visto succedere molte volte occupandomi di reati gravi, di solito reati contro la persona commessi da minori tra i 14 e i 18 anni, di vedere come l’informazione si interessi degli aspetti e dei dettagli che riguardano gli elementi obiettivi della commissione del reato, tipo quante coltellate, in che modo è stata brandita l’arma, il perché e il per come sono avvenute le singole e più cruente fasi dell’episodio delittuoso. Badate non ne faccio una colpa ai giornalisti, io per altro sono giornalista, per cui sono iscritto anch’io all’albo dei giornalisti della mia regione, quindi ho la massima simpatia per quelli che un po’ impropriamente posso definire miei colleghi.

Però la questione è quella che ci sono anche altri dettagli, e questi altri dettagli sono importanti e a mio parere non privi di un certo interesse, e sono quelli che riguardano non solo l’azione criminosa, o quella che si suppone sia stata l’azione criminosa, visto che spesso le notizie gustose per il giornalista sono quelle che addirittura precedono il momento in cui un giudice per le indagini preliminari è in grado di dire quello che è avvenuto. Prima si ha la notizia e meglio è, se poi è una supposizione poco importa, l’importante è in quel momento dire una cosa che può essere di qualche interesse, ma lo dico senza che per me questo rappresenti un elemento di colpa.

Quello che però mi sembra assolutamente interessante e importante sia per i minori sia per gli adulti è che c’è anche un’altra dimensione, obbligatoria peraltro da considerare nel caso dei minori, come stabilito dall’art. 9 della legge 448/88, che dice cioè che “bisogna valutare la personalità” .

 

La messa alla prova è uno strumento straordinariamente potente

 

E perché bisogna valutare la personalità?

Perché se io mi metto nell’ottica di attribuire a ciò che faccio, alla pena ma anche a ciò che la precede, quindi anche all’atto di eseguire un’indagine e di fare una valutazione, una funzione rieducativa, se io do a tutto l’atto una funzione rieducativa allora io ho bisogno di fare questo, di sapere chi mi trovo davanti e cercare di capire perché quella persona abbia realizzato quel reato, visto che c’è un patto sociale che dovrebbe aver trovato conveniente e che invece, in un certo momento della sua vita, non ha più trovato conveniente, ha trovato più conveniente commettere un reato.

Dobbiamo allora cercare di capire che cosa è avvenuto, affiancare agli elementi che riguardano tutto ciò che è la parte obiettiva della commissione del reato, anche quelli che costituiscono la parte soggettiva. Quindi ci si inizia ad immaginare i perché, che cosa sta nella mente, nell’affettività, nelle emotività di una persona che si ritrova a commettere un reato.

Io credo che si faccia un’operazione che a lungo termine diventa un’operazione intrinsecamente di sicurezza sociale.

Per i minori lo è in modo chiaro, perché c’è l’articolo 28 sempre della stessa legge 448/88, che prevede la messa alla prova, un istituto che permette alla stragrande maggioranza dei circa 40.000 minori che commettono reati ogni anno in Italia di non finire in prigione.

La carcerazione per i minori è una punizione decisamente residuale, tant’è vero che in tutta l’area della Lombardia esiste un unico carcere che è l’istituto minorile Beccaria che contiene circa 50/60 ragazzi. Quindi sono tutti quelli che all’interno di una regione così grande come la Lombardia finiscono in prigione, gli altri in linea di massima e in grande misura sono sottoposti a ciò che prevede l’articolo 28 della 448/88, e cioè sono sottoposti alla messa alla prova.

Questo vuol dire che per un certo periodo gli si fanno fare delle cose, ma la vera domanda e la vera questione è se noi vogliamo pensare che queste cose che fanno, facciano sicurezza sociale, ovvero diminuiscano la probabilità che quello stesso minore domani commetta un altro reato.

Allora vuol dire che io devo scommettere sul fatto che io ho compreso le ragioni profonde per cui è stato commesso il reato per il quale loro sono giudicati, e che sto facendo azioni mirate in quel senso, in quella direzione.

La messa alla prova è uno strumento straordinariamente potente, e a una possibile applicazione di strumenti analoghi anche per gli adulti certo che dico sì, ma il problema non è quello dell’efficacia dello strumento della messa alla prova, ma è nel fatto che la messa alla prova è anche uno strumento straordinariamente complesso.

Cioè non esiste messa alla prova se la messa alla prova significa che io vado e faccio un po’ di attività socialmente utile andando a lavorare alla mattina e torno a casa alla sera, non è questo il problema.

Guardiamo ad esempio i minori che commettono reati nell’area dei reati sessuali. I reati sessuali intrafamigliari, per esempio, vengono tradizionalmente commessi da minori che passano molto tempo in casa, che sono bravi studenti, che non danno problemi a livello di sicurezza sociale, che hanno famiglie tendenzialmente piuttosto adeguate e piuttosto accudenti nei loro confronti.

Che senso ha che un minore che ha queste caratteristiche pensi di fare un’attività che previene la reiterazione del reato andando ad aiutare gli anziani in un istituto piuttosto che dando una mano agli handicappati? Questa diventa un’attività retributiva mascherata che non ci interessa, perché non ha più la funzione di limitare la reiterazione del reato, mentre noi siamo oggi assolutamente in grado di risolvere.., lo dico in potenza ma lo dico anche in atto, perché in alcune zone come quella in cui ho la fortuna di lavorare io, che è la corte d’appello di Brescia, lo facciamo, siamo assolutamente in grado di risolvere il problema della stragrande maggioranza dei minori che commettono reati.

In pratica io sono in grado di dire che possiamo restituire alla società civile al termine della messa alla prova, un’elevatissima percentuale di minori che non sono più pericolosi e che quindi non costituiranno più un costo sociale.

Il problema qual è?

Il problema è che non posso risparmiare su tutta quella parte che chiamo prevenzione terziaria, che è ciò che avviene dal momento in cui io arresto un minore, al momento in cui io lo restituisco alla società civile.

Quello che succede lì in mezzo non ha sconti possibili, quello che succede lì in mezzo richiede competenze elevatissime, io non posso pensare che ci sia un assistente sociale o uno psicologo o un educatore che si mette a costruire un progetto riabilitativo senza saper rispondere alla domanda sul perché quel minore ha commesso quel reato.

Quello è un elemento essenziale, perché il fallire una messa alla prova è come per una persona che vada fuori in un permesso premio e si ritrovi a commettere un reato, questo crea un danno a tutti gli altri. Una messa alla prova che non funziona fa pensare che sia l’istituto della messa alla prova a non funzionare, ma non è così, è il fatto che la messa alla prova prevede un’attività diagnostica precisa e un’attività prognostica altrettanto precisa.

Non può essere che uno psicologo o un educatore si presentino di fronte ad un magistrato e non sappiano prevedere ragionevolmente la probabilità che quel minore, ma penso che possa applicarsi anche agli adulti, possa reiterare quello o altre tipologie di reato e che sappia addirittura anche prevedere quali reati quel minore rischia di ripetere.

Questo è assolutamente essenziale, gli sconti sulla qualità, gli sconti sulla prevenzione sono come gli sconti sulla cultura, non fanno bene a nessuno e creano solo un danno sul piano della sicurezza sociale.

 

 

 

Carcere, custodia cautelare e trattamenti degradanti. L’intervento della Corte Costituzionale

e della Corte Europea dei diritti dell’Uomo

 

di Monica Gazzola, Membro delle Commissioni Human Rights, Criminal Law e Access to Justice del CCBE

(Consiglio degli ordini forensi europei); membro della Scuola Superiore dell’Avvocatura, Gruppo Diritti dell’Uomo;

già presidente della Commissione sul patrocinio a spese dello Stato,

difese d’ufficio e problematiche carcerarie dell’Unione dei Consigli degli Ordini del Triveneto.

 

Attualmente ci sono 69.000 persone in carcere in Italia, contro una capienza di 44.000 posti. Di questi, 26.000 sono stranieri, 29.000 sono in attesa di giudizio.

Altri numeri, i morti in carcere. Solo quest’anno (2010), siamo già a 54 suicidi, su un totale di 135 morti in carcere. Di questi 135, per alcuni in realtà vi è tutt’ora l’ombra di un suicidio e non di una morte “accidentale”. In ogni caso, anche per una persona che muore in carcere per una malattia… io credo vi sia da riflettere, non è classificabile facilmente come una morte “naturale”.

I due terzi delle persone che si sono suicidate, avevano meno di quarant’anni. Dal 2000 nelle carceri italiane si sono suicidate 612 persone. Il numero complessivo dei morti in carcere, nello stesso periodo, è di 1695.

In America vige la pena di morte. Tutti noi siamo contro la pena di morte, lo Stato italiano è stato uno dei primi a impegnarsi a fondo per l’abolizione della pena di morte e di questo andiamo orgogliosi. Però voglio ricordare che in America nel 2010 ci sono state 41 esecuzioni capitali. Cosa significa? Vuol dire che nello stesso periodo, ci sono stati più morti in carcere in Italia per suicidio, che non in America per esecuzione di pena capitale.

Io do questi dati, non do giudizi. Sono numeri, la maggior parte di voi siete giornalisti e quindi sapete che molte volte i numeri dicono molto di più di tante parole, di tante chiacchiere.

Ed allora partendo da questi dati, da giurista, il punto di vista che vi offro è quello di due sentenze che, debbo dire, non hanno avuto grande risalto sulla stampa nazionale, e che secondo me sono invece due sentenze fondamentali e forse, per certi versi, rivoluzionarie in questo contesto politico e sociale.

La prima è la sentenza della Corte Costituzionale del 21/07/2010, che è intervenuta in tema di custodia cautelare in carcere. Ed è intervenuta dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 275 del Codice di procedura penale (per i non addetti ai lavori, è l’articolo che disciplina, che dà le coordinate in base alle quali il giudice può o deve applicare la custodia cautelare in carcere) nella parte che era stata modificata con la famosa legge del 24/04/2009 (quella che ha introdotto il reato di stalking, gli atti persecutori – art.612 bis del Codice penale). La stessa legge aveva anche introdotto la presunzione assoluta di idoneità della sola custodia cautelare in carcere per i reati di violenza sessuale, di pornografia con minori e atti sessuali con minori, prevedendo che nel caso in cui il giudice avesse valutato l’esistenza di gravi indizi a carico del sospettato (stiamo parlando sempre di persone sospettate di un reato, di persone ancora “giudicabili”, non di un giudizio definitivo e inappellabile), doveva applicare la custodia cautelare in carcere.

Quindi una presunzione assoluta sul fatto che l’unica misura cautelare possibile è quella della custodia cautelare in carcere.

 

Una sentenza che riafferma che la misura cautelare non è un “anticipo” di pena

 

La Corte Costituzionale con la sentenza del 21/07/2010 (che io credo dovrebbe essere una sentenza da far studiare non solo nelle scuole di diritto, ma da far studiare anche ai nostri politici e da divulgare) anzitutto si richiama ad un concetto “cardine” del nostro ordinamento, non solo giuridico, ma fondante il nostro stesso ordinamento sociale e costituzionale, che è quello espresso dell’art. 27 della Costituzione, ossia la presunzione d’innocenza.

Io aggiungo: non solo l’art. 27 della Costituzione, ma anche l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo, che a tutti gli effetti è diritto vincolante, sancisce che nessuno può essere giudicato colpevole fino alla sentenza passata in giudicato.

Ricorda la Corte Costituzionale come la misura cautelare non è un “anticipo” di pena, non ha la finalità di espiazione della pena. Le sole finalità sono la tutela della collettività nel caso in cui ci siano degli elementi concreti, dai quali si desuma che il soggetto possa commettere altri reati gravi della stessa specie, ovvero tutelare il fatto che si possa celebrare il processo ed eventualmente irrogare la pena nel caso in cui si tema che il soggetto possa darsi alla fuga (ma sempre con elementi saldi, fattuali) e, infine, tutelare le prove, nel caso in cui si abbia un fondato motivo di ritenere che il soggetto indagato possa inquinarle.

Questi sono i casi. Ciò posto, afferma la Corte che quindi il Giudice ha un potere/dovere di valutazione nell’applicazione delle misure cautelari, con una modalità che la stessa Corte Costituzionale chiama una “discrezionalità tecnica”, ossia egli è si libero nella valutazione, ma entro dei parametri che sono sanciti dalla Costituzione e dagli art. 275 e seguenti del Codice di procedura penale. Questi parametri sono: in primo luogo, il principio di personalizzazione della misura cautelare (bisogna guardare il fatto concreto e la persona); poi, il principio di “adeguatezza” (la misura cautelare va scelta, va applicata, in relazione all’idoneità a tutelare l’esigenza cautelare).

Il terzo principio fondamentale è quello del minor sacrificio del bene costituzionalmente garantito della libertà personale. Questa è la chiave di volta del sistema delle misure cautelari, la custodia cautelare in carcere è l’estrema ratio. Perché un principio sacrosanto, sancito dalla Costituzione, sancito dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, sancito dal Patto dei Diritti Universali, è il diritto inviolabile alla libertà di ogni individuo. Diritto che può essere vulnerato solo nei casi espressamente previsti dalla legge, con tutte le garanzie di cui abbiamo accennato. E questo è il quadro che fa la Corte Costituzionale.

E allora, andando al caso concreto, la Corte Costituzionale che cosa dice? Dice che l’art.275 co.3 C.p.p. così come modificato dalla L.23/472009 è illegittimo per violazione dell’art. 27 e dell’art. 3 della Costituzione (quell’art. 3 che afferma l’eguaglianza di tutti i cittadini e non cittadini, di tutti) e che non è in relazione al reato di cui una persona è sospettata che può mutare il sistema costituzionalmente garantito in tema di libertà personale.

Quindi la Corte afferma che, nel caso in cui ci siano gravi indizi di colpevolezza, per questi reati di violenza sessuale, si applica la custodia in carcere salvo il caso in cui vi siano elementi dai quali risulti che sono sufficienti misure meno afflittive. Io credo che questa sentenza rappresenti un faro, soprattutto nell’attuale contesto di giustizialismo.

A questa sentenza voglio contrapporre l’intervento di un esponente del Governo, il Ministro delle pari opportunità. Io riporto qui, comunque con il rispetto che si deve ad un rappresentante delle istituzioni, il suo commento, perché credo sia sintomatico del clima attuale di giustizialismo frettoloso, che secondo me sta facendo scempio del nostro stato di diritto. Il giorno dopo la pubblicazione di questa sentenza, il Ministro Carfagna è uscito con un comunicato stampa nel quale diceva: “per noi chi violenta una donna o peggio un bambino, deve filare dritto in carcere senza scusanti da subito…”. Quindi dando già per scontato che chi è accusato di un reato di violenza sessuale, è sicuramente colui che ha stuprato, che ha violentato. E prosegue “L’intervento della Corte Costituzionale è giustificazionista, lontano dal sentire dei cittadini e purtroppo ci allontana dalla strada verso il rigore e la tolleranza zero contro i crimini”.

Io credo che un Ministro che dice queste cose in relazione ad una sentenza della Corte Costituzionale, dovrebbe dimettersi.

Quanto a questo riferimento che ho fatto alla sentenza della Corte Costituzionale, giusto per allontanare dubbi, vorrei aggiungere che mi occupo di violenza sulle donne e sono la prima ad applaudire la riforma del 2009 in tema di introduzione del reato di stalking. Ma sono due cose diverse: un conto è affermare che esiste il dovere dello Stato di tutelare le donne, di intervenire laddove vi siano casi di violenza, un conto è dire che questo deve portare ad un giustizialismo sommario.

 

Il sovraffollamento e la “sentenza Sulejmanovic”

 

Passando alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo - anche questa accolta dall’indifferenza generale -, voglio prima ricordare che l’Italia ha un triste primato di condanne da parte delle Istituzioni europee per le condizioni delle nostre carceri.

Lo scorso settembre ho partecipato ad un convegno sui diritti umani in Europa. Uno dei relatori era un membro della Commissione Europea contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, una commissione che dipende dal Consiglio d’Europa ed è composta da un rappresentante per ognuno dei 47 stati membri del Consiglio d’Europa. La Commissione visita, come sua attività istituzionale, tutte le carceri e le stazioni di polizia dell’Europa, fa delle ispezioni a sorpresa e redige dei rapporti. Sulla base di quei rapporti, il Consiglio d’Europa può irrogare sanzioni e l’Italia credo che abbia uno dei primati in tema di sanzioni.

Ad un certo punto, questo relatore ha detto: “…attualmente abbiamo tre Paesi che sono sotto il costante controllo della nostra Commissione per i continui abusi, le continue violazioni del divieto di tortura e trattamenti disumani, e sono la Cecenia, la Romania e l’Italia”.

La sentenza che voglio ricordare è stata pronunciata il 16/07/2009, ed è la numero 22635/03 ricorrente Sulejmanovic.

Come sapete, la Corte Europea dei diritti dell’uomo si interessa di tutti i casi in cui vi sia una violazione di uno degli articoli della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Il ricorrente aveva lamentato la violazione dell’art. 3 della Convenzione (che stabilisce il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti), dimostrando di essere stato rinchiuso con altre quattro persone in una cella mi pare che fosse sui 16 metri quadri, quindi con uno spazio per ciascuno di circa 2,70 mq.

La Corte Europea di regola chiede degli accertamenti molto rigorosi, prima di affermare che vi è stato trattamento inumano e degradante, prendendo in considerazione altri fattori, quali le ore d’aria, le condizioni igieniche ecc. Ma in questo caso ha statuito che allorquando ad un detenuto è consentito uno spazio vitale autonomo inferiore ai tre metri quadri, automaticamente sussiste la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea, senza necessità di ulteriori accertamenti. Quindi l’Italia è stata condannata.

Se adesso tutti i detenuti agissero avanti la Corte Europea per i diritti dell’uomo rappresentando la condizione di sovraffollamento, ritengo che l’Italia sarebbe sommersa da condanne.

 

 

La giustizia riparativa per il mondo dell’informazione è un oggetto misterioso

 

“Molestie alle compagne, quattro bocciati”, questa notizia è uscita qualche mese fa e riguarda quattro ragazzi di appena quindici anni di una scuola di Monselice. Anche la scuola la prima punizione che è riuscita a pensare è l’esclusione dal contesto sociale in cui è avvenuto il fatto. L’idea dominante nella nostra società è quella della pena intesa sempre come allontanamento dalla società, e quindi, nel caso di studenti, dalla scuola. È stato questo un po’ il motivo per cui abbiamo deciso di invitare un mediatore penale, Carlo Riccardi, a parlare di una giustizia diversa, che mette al centro la riparazione del danno, e non la punizione che esclude.

 

 

A cosa serve la pena per le vittime e per chi il reato lo ha commesso?

La mediazione e la giustizia riparativa mettono al centro la responsabilizzazione, responsabilizzarsi attraverso l’incontro, attraverso il vedere il viso del male che tu hai compiuto

 

di Carlo Riccardi, criminologo,

mediatore dell’Ufficio per la mediazione penale di Milano

 

Prendo la parola non tanto da criminologo, quanto da mediatore, da colui che insieme ad altri si occupa di questo nuovo paradigma della giustizia, che è la giustizia riparativa.

In particolare mi occuperò, sulla base delle esperienze che ho avuto, di quelli che sono i reati che nascono, come mi piace ripetere, “negli interstizi” del quotidiano.

Esistono sì i grandi reati, ma la maggior parte dei delitti nasce nelle vite quotidiane, nasce nelle famiglie, nelle situazioni in cui è più forte la vicinanza tra le persone ed in cui la relazione di vicinanza invece che proteggere, ferisce.

Volendo fare un esempio, nelle nostre esperienze uno dei luoghi dove questi interstizi del quotidiano sono più aperti alla possibilità che si creino delle situazioni potenzialmente distruttive è il condominio. Nulla di diverso da quello che tutti voi e noi viviamo quotidianamente.

In quegli interstizi di cui parlavo non si vanno ad insinuare solo le condotte “bagatellari” (nel linguaggio forense, i reati che, per la loro minima lesività, hanno minore rilevanza sociale e possono quindi essere repressi con sanzioni contravvenzionali o amministrative), ma anche vere e proprie tragedie – cito il delitto di Erba che è un caso mediaticamente più importante, ma Erba è soltanto uno dei tanti Erba che esistono potenzialmente in qualsiasi città italiana.

Inizio questa mia riflessione da una considerazione più elementare, qualcosa di cui non si è ancora parlato oggi; stiamo parlando della pena e abbiamo visto finora la pena dal punto di vista di colui che il reato lo commette. In ogni reato però c’è, come ha scritto benissimo in un articolo uno dei membri della redazione di Ristretti Orizzonti, chi nel reato sta dall’altra parte dell’arma, cioè la vittima.

Il magistrato ha parlato delle funzioni della pena considerandole dal punto di vista della società e del vantaggio che la pena ha nei confronti della società, esiste però un pensiero molto più elementare, e cioè che prima che nei confronti della società, prima che nei confronti del mondo intero un reato è commesso nei confronti di qualcuno. Questa è una questione elementare, ma da cui bisogna partire e da cui prendere le mosse, c’è una vittima e parlare di vittima significa sostanzialmente due cose. La prima è che parlare di vittima non significa parlare contro il reo, non significa parlare contro chi il reato lo ha commesso, significa solamente cercare di stabilire un equilibrio, un equilibrio tra chi il fatto l’ha commesso e chi il fatto l’ha subito. Abbiamo tanto parlato oggi dell’art. 27 della Costituzione e, forse come utopia, un giorno mi piacerebbe che accanto a quella pena che rieduca il condannato, da qualche parte nella Carta costituzionale ci possa essere scritto che anche la vittima meriti una rie­ducazione.

Una rieducazione, sì, perché la chiamo così?

Oggi sembra che ad un certo punto della vittima non ci sia più bisogno; ci sono tante vittime che se non hanno la possibilità materiale, di pagarsi per esempio lo psicologo, di pagarsi dei percorsi di reinserimento attraverso delle terapie lunghe e magari costose, non possono “rieducarsi” dalle conseguenze dell’atto che hanno subito, quindi è per questo che parlo, forse impropriamente, di rie­ducazione.

Il concetto di vittima è semplice; se ci riflettiamo tutti noi lo sapremmo dire chi è una vittima, una vittima, è colui o colei che ha subito un danno derivante da un comportamento illecito altrui. Ma non solo; sono vittime anche i famigliari di questa persona, quindi i famigliari della vittima di un omicidio sono, per una dichiarazione delle Nazioni Unite, anch’essi delle vittime.

Più complicato secondo me è il concetto di vittimizzazione, e cioè cercare di pensare che cosa accade in un soggetto che subisce un reato. Anzitutto accade che quando una persona subisce un reato è necessaria una risposta alla domanda principale che le vittime si pongono in quel momento, domanda che non è “quanto vale il mio risarcimento dell’offesa che ho subito”, ma la domanda principale che si fanno è “perché io? perché è successo a me?”. Questo risponde al fatto che, avendo subito il reato, è stato violato il patto sociale, che Adolfo Ceretti chiama il patto di cittadinanza.

 

Un reato rompe il patto di cittadinanza

 

Il patto di cittadinanza significa che oggi noi siamo usciti di casa sapendo due cose; che siamo “invulnerabili” e che noi apparteniamo a una comunità sicura. Sicura significa che non c’è un’imprevedibilità tale del comportamento altrui che ci fa restare chiusi in casa per la probabilità di subire un reato. Ognuno di noi oggi è qui ritenendo che uscendo e tornando a casa non gli accadrà nulla.

Il reato rompe il patto di cittadinanza, rompe questa relazione che si crea tra tutti noi. Si dice sempre, per noi che ci occupiamo della mediazione, che esiste una relazione tra il reo e la vittima. Ma perché esiste? Perché tutti noi siamo legati dal patto di cittadinanza, per cui siamo consapevoli che le nostre relazioni sono fondate sul rispetto dell’altro e che questo altro non violerà la nostra identità.

Violando questo patto di cittadinanza si crea un problema: la vittima inizia a mettere in moto tutta una serie di meccanismi, per cui quel comportamento, quello che è successo, potrà sicuramente riaccadere e, se riaccadrà, sarà qualcosa di più grave. Il trauma da vittimizzazione opera verso il futuro.

Allora nel caso di comportamenti che violano questo patto di cittadinanza, la domanda, che non è tanto filosofica ma è molto concreta, è questa: qual è la risposta che si può dare al male? La risposta che si può dare al male è la pena, è la pena nel suo senso retributivo, ma in realtà non siamo sicuri che la pena applicata, o la pena “minacciata” dai codici, abbia la funzione di impedire a qualcun altro di commettere un delitto. Se una persona vuole commettere una rapina, noi non siamo tanto sicuri che, se per quel reato c’è una certa quantità di anni di carcere che si potrebbero fare, questo impedisca ad una persona di commettere una rapina.

Se la risposta al male è la pena, dobbiamo dire che questa pena così come la concepiamo può essere forse utile per la società, ma io non sono così certo che sia così utile per la vittima, e allora è proprio per questo che dobbiamo cercare, nei ragionamenti sulla pena, di pensare che esiste l’altra faccia del delitto, e cioè la vittima.

L’idea della giustizia riparativa è questa; se la funzione retributiva, la funzione risocializzativa e la funzione di deterrenza sono funzioni sacrosante che sono un po’ il cardine di tutto il nostro sistema e che non verranno mai meno, oggi forse dobbiamo fare un passo in avanti, e cioè un passo diverso, né migliore né peggiore ma semplicemente diverso, che è quello di chiederci a cosa serve la pena per le vittime e, similarmente, a chi il reato lo ha commesso.

Focalizzandoci su quelle che sono le conseguenze di un reato, esse sono certamente le privazioni patrimoniali, le offese al corpo, ma sono anche tutta una serie di altre conseguenze che fanno sì che una vittima debba, così come il reo, riappropriarsi della propria vita, perché un reato segna una linea di demarcazione tra un prima e un dopo.

Se c’è un prima e un dopo, all’interno di questo prima e di questo dopo ci deve essere qualche cosa che deve lavorare sulle conseguenze del reato. Per l’esperienza che ho, io non ho mai sentito nelle vittime così forte ed esclusiva l’esigenza di essere risarcite: ho invece sentito sempre molto forte l’esigenza delle vittime di essere riparate, riparate nella violazione che hanno subito.

Certe volte la violazione non è riparabile per la vittima stessa, perché la vittima stessa al momento in cui è accaduto il fatto non esiste più perché magari è stata uccisa, ma ci sono ancora oggi - e vi faccio l’esempio di tutti quei programmi che si stanno attuando di mediazione all’interno dell’esecuzione penale per grandissimi momenti della storia del nostro Paese, per esempio il terrorismo - delle vittime o parenti delle vittime che attendono ancora la famosa risposta alla domanda “perché io?”. Non solo, magari vi sono altre domande: “che cosa significava per te che io fossi in quel momento un simbolo da colpire? Io non sono un simbolo, io sono una persona che ha avuto queste conseguenze dalla tua scelta di compiere un determinato atto”.

 

La mediazione non c’entra assolutamente niente con l’idea del perdono

 

La giustizia riparativa opera sul tentativo di riparare le conseguenze di questo reato, la giustizia riparativa ha vari strumenti, ci sono i risarcimenti, ci sono le restituzioni, la giustizia riparativa trova nella mediazione il suo strumento fondamentale.

La mediazione è il tentativo di far incontrare chi ha commesso un rea­to con le proprie vittime, per far sì che innanzitutto ci sia la possibilità di confrontarsi su quella famosa relazione che ci lega con gli altri.

Voglio concludere con una questione che è veramente importante, perché anche qui “massmediaticamente” c’è un concetto che normalmente viene, secondo me, abusato, che è il perdono.

Quando succede qualche cosa la prima domanda che viene fatta nell’intervista alle vittime è “Ma lei ha perdonato?”: la mediazione non c’entra assolutamente niente con l’idea di far fare la pace e con l’idea del perdono. Il perdono è un concetto che entra nel circuito antropologico del dono, è il per-dono, è il for-give in inglese, è il par-don in francese, è il dare qualche cosa senza chiedere nulla in cambio, questo dare qualche cosa senza chiedere nulla in cambio è il dono, e il dono non si può richiedere.

Il dono è un percorso che ognuna delle persone può decidere di intraprendere o meno, è un percorso che deve essere svolto “nel chiuso delle proprie stanze” e non per essere stati costretti da qualsiasi tipo di percorso più o meno strutturato.

Non ci devono essere equivoci sul punto: i mediatori – e la mediazione – non sono coloro che vogliono far fare la pace a nessuno.

Un altro membro della redazione di Ristretti Orizzonti una volta disse in un incontro che “certe volte è più faticoso incontrare qualcuno a cui hai fatto del male, piuttosto che farti anni di galera”.

Questo è il senso della responsabilizzazione che la mediazione e la giustizia riparativa vogliono offrire, responsabilizzarsi attraverso l’incontro, attraverso il vedere il viso del male che tu hai compiuto, così come per la vittima la possibilità di dare la risposta a quella domanda da cui siamo partiti: Perché proprio a me?

 

 

 

Dare la notizia, non costruirla

Appiattirsi sulla “pancia” della gente svilisce la professionalità dei giornalisti

 

di Lucia Castellano, Direttrice del carcere di Bollate,

autrice, con la giornalista del Sole24ore Donatella Stasio, del libro “Diritti e castighi”

 

Il carcere di Bollate è un carcere dove sono detenute 1100 persone di cui 53 donne. Sono tutti detenuti comuni, non ci sono detenuti di alta sicurezza e non ci sono detenuti in regime di 41bis; ci sono anche una decina di ergastolani. Sono rappresentati un po’ tutti i reati, compresi i reati di violenza sessuale (sono 400 gli autori di reati sessuali). Credo sia l’unico esperimento in Italia (peraltro non gradito agli ospiti): un istituto in cui i sex offenders vivono assieme agli altri e non nelle sezioni “protette”.

Questo per noi è un motivo d’orgoglio perché abbiamo vinto il pregiudizio carcerario secondo il quale esistono i reati di serie A e quelli di serie B (anche se, come dicevo, i primi a contrastare queste innovazioni sono stati proprio i detenuti).

È un carcere dove le stanze vengono aperte dalle 8.00 alle 20.00. I detenuti sono liberi di muoversi all’interno dell’istituto, non naturalmente ovunque, ma con un meccanismo che in gergo carcerario si chiama “sconsegna”; un permesso con fotografia che consente loro di andare da soli a scuola, al lavoro, al teatro, e alle altre attività che l’istituto propone. Si cerca, quindi, di garantire il massimo della libertà compatibile con il muro di cinta.

È, sostanzialmente, quello che impone la legge del ’75, una legge di 35 anni fa ripresa nel dettaglio dal regolamento del 2000. Purtroppo Bollate è un esperimento unico in Italia, o meglio unico sui grandi numeri; ci sono degli istituti di questo tipo, cosiddetti a custodia attenuata per tossicodipendenti, che hanno però 50/60 ospiti; quindi non fanno notizia, come direste voi.

Invece il nostro ne ha 1100 con i sex-offender che convivono con gli altri, con la possibilità di muoversi liberamente; rappresenta un’eccezione nel panorama nazionale. Tutto ciò non mi fa piacere e, come dirigente dello Stato, non è neanche per me motivo d’orgoglio.

Più che del carcere di Bollate, che potete conoscere anche dal sito internet, a me interessa molto parlare del rapporto tra carcere e media.

Nel nostro istituto abbiamo un ufficio stampa, quindi c’è un rapporto molto frequente con i mass media. Io ho avuto un po’ di difficoltà in questi otto anni a rapportarmi con loro; in particolare, mi sembra che spesso più che “comunicare” una notizia si voglia “crearla”. Quando il giornalista mi chiede “Dov’è la notizia?” io non so rispondere. Ad esempio, se dico una cosa del tipo “Nel carcere di Bollate si apre la sartoria”, allora la notizia è che si apre la sartoria: invece vedo che spesso il giornalista cerca una notizia massmediaticamente rilevante, e questo è un meccanismo pericoloso, perché così si va a saziare l’opinione pubblica, piuttosto che a comunicare quello che succede all’interno del carcere.

Faccio un esempio molto semplice: l’anno scorso è rimasta incinta una detenuta che frequentava la scuola. La notizia dei giornali era “Carcere a luci rosse”: perché? La risposta è chiara: sul titolo “carcere a luci rosse” l’occhio del lettore cade più facilmente; se invece viene scritto “nell’ambito di un progetto sperimentale, dove era stato consentito alle detenute e ai detenuti di andare a scuola insieme....”, la cosa è diversa. Ma “ carcere a luci rosse” non è una notizia corretta e veritiera.

La direzione certo ha sbagliato, ma non a consentire che uomini e donne andassero a scuola insieme, abbiamo sbagliato perché non abbiamo vigilato abbastanza ed è rimasta incinta una detenuta. Questa è la notizia, e poi se ne può parlare, e vi posso raccontare perché abbiamo sbagliato, ma un carcere a luci rosse è un’altra cosa, e qui nasce la mia difficoltà riguardo alla creazione della notizia da parte del giornalista. Per carità, non voglio comunque attaccare i giornalisti, io ho creato un ufficio stampa proprio per cercare di essere più trasparente possibile; noi siamo un’amministrazione per definizione poco trasparente e sicuramente abbiamo anche noi le nostre pecche nella comunicazione con l’esterno.

Il secondo punto su cui mi piacerebbe sapere anche la vostra opinione, è che la politica di questi anni è una politica di giustizialismo frettoloso. Sembra che si vendano delle quote di rassicurazione alla società civile: penso all’ex sindaco di Roma, (peraltro di sinistra) che, dopo che la signora Giovanna Reggiani era stata aggredita e uccisa da un rom che viveva come un animale, non ha trovato niente di meglio che dire “fuori i rom da Roma”.

Credo che un po’ di responsabilità dell’amministrazione comunale per le condizioni di vita bestiali dei rom di quel quartiere, per il degrado e il buio delle strade, bisognava riconoscerla, almeno da parte del sindaco. Invece la risposta frettolosa e giustizialista è sembrata quella mediaticamente vincente.

Se noi, sulla base delle emozioni che ci suscitano i reati orribili, facciamo politica in maniera emotiva e non in maniera razionale, voi giornalisti dovete avere la consapevolezza di essere il braccio armato di questo processo. Cioè il braccio armato di una politica che si basa sulla pancia della gente. Ma nel descrivere qualcosa non bisogna sempre basarsi sulla pancia della gente. Nel nostro campo, ad esempio, la pancia della gente ci dice che in galera si deve stare male, perché se in galera non stai male e non soffri non è galera.

 

L’emergenza carceri non è come il terremoto dell’Aquila

 

Se si scrive per esempio un articolo su Bollate, la prima cosa che bisogna fare è far capire al lettore che quello è il carcere immaginato dalla legge: l’istituto non è “un’altra cosa” rispetto al carcere. Appiattirsi sulla pancia della gente svilisce la professionalità dei giornalisti.

Però ci sono dei giornalisti così come ci sono dei direttori penitenziari, che vanno controcorrente rispetto a questo dramma della subalternità dell’editoria alla politica. Conosco una giornalista del Sole 24Ore, Donatella Stasio, con cui ho scritto un libro, che lavora a il Sole 24Ore. È una professionista che scrive raccontando semplicemente i fatti. Non bisogna essere per forza rivoluzionari, basta limitarsi a dare la notizia e non a costruirla. Conosco un altro giornalista che lo fa al Corriere della Sera, Luigi Ferrarella. Sono pochi; se si comincia ad andare un po’ controcorrente, però, la corrente piano piano cambia, non so se rendo l’idea.

Altri due piccoli spunti di riflessione. Il problema dell’emergenza carceri: diceva bene a Bologna, al Convegno di Magistratura Democratica, Patrizio Gonnella: l’emergenza carceri non è come il terremoto dell’Aquila, è il frutto di leggi che in carcere mettono un sacco di persone. La ex Cirielli, la Fini-Giovanardi, la Bossi-Fini.

Quindi l’emergenza non è data da una calamità naturale, è data da qualcuno: la volontà politica e il legislatore; allora il braccio destro del governo mette la gente dentro e il braccio sinistro vorrebbe affrontare questa emergenza costruendo nuove carceri.

Se qualcuno spiegasse ai lettori: i detenuti aumentano ma i reati non sono aumentati, quella che aumenta davvero è la criminalizzazione di alcune condotte, allora probabilmente il lettore capirebbe esattamente che l’emergenza carceri non è paragonabile al terremoto dell’Aquila. L’urgenza l’abbiamo creata noi, non il padreterno.

Altro spunto di riflessione riguarda il senso della responsabilità. Dicevano benissimo prima di me gli altri relatori: non confondiamo la libertà con le misure alternative alla detenzione. Io su 1100 detenuti ho 75 persone che alla mattina escono e vanno a lavorare all’esterno per poi tornare alla sera.

Vi posso assicurare che è una misura, quella del lavoro all’esterno, l’articolo 21, molto complicata da gestire. I detenuti che sono qui dentro non mi credono; finché una persona non esce “in articolo 21” sogna il lavoro all’esterno, ma questa misura è molto complicata da gestire e molto difficile. Si tratta di uscire dalla galera e di tornare ogni sera con le proprie gambe e non portato da qualcuno; si tratta di sopportare le perquisizioni, ritornare dentro e ripartire la mattina dopo.

Questa è una misura che veramente ti dà il senso della capacità della persona di affrontare la vita da libero, il carcere “chiuso” non te lo dà questo, è un contenimento che può essere più o meno sgradevole ma resta un contenimento puro. Quindi non confondiamo l’uscita con la libertà, perché molte volte le uscite sono molto più difficili dello stare in galera.

Vorrei concludere con un piccolo richiamo al senso di responsabilità e non soltanto ai giornalisti, che appunto rischiano di essere il braccio armato della politica, ma anche ai detenuti, ed è un argomento di cui discutiamo sempre con gli ospiti dell’istituto. Come giornalista si ha la responsabilità di quello che si scrive e se si comincia ad andare controcorrente forse tutti andranno controcorrente, abbiamo detto. Allo stesso modo, il detenuto che esce, in un momento storico di questo tipo, in permesso o in misura alternativa e fa una rapina deve sentire su di sé la responsabilità del guaio che crea per tutti gli altri. Ma questo non perché io vi voglio gravare di questa responsabilità: semplicemente perché il contraltare della dignità della persona (che in carcere va rispettata“ in toto”) è la responsabilità per le proprie azioni.

Io lo dico sempre ai detenuti che arrivano a Bollate: se fate qualunque fesseria, fumo, cocaina, telefonini, dovete sentire la responsabilità di aver fallito su una sperimentazione che questa amministrazione penitenziaria sta cercando di portare avanti, con fatica, controcorrente, per cambiare le cose.

Allora il mio spunto di riflessione in questo momento è che le cose si cambiano tutti assieme, a partire dai detenuti.

 

Se non li fai star male non è vero carcere

 

Volevo poi collegarmi a quanto detto prima: in carcere si passa il tempo a sopravvivere al carcere. Tutto ciò è il portato di quella afflittività aggiuntiva che non ha niente a che fare con la pena, ma è una cappa di sofferenza che grava, gratutitamente e “ contra legem” sulla testa di tutto il sistema carcere.

E’ il mandato inconscio che la società civile da’ al carcere: fare stare male le persone. Se non fai soffrire i detenuti e ti limiti “solo” a privarli della libertà non è vero carcere.

Se invece ribaltassimo, con il vostro aiuto, questo concetto, il carcere potrebbe smettere di essere il luogo dove il detenuto deve soltanto sopravvivere e resistere fino alla fine della pena, per maturare semestri di liberazione anticipata, evitando quindi di prendere rapporti disciplinari. Potrebbe diventare una comunità in cui ci può essere un patto di cittadinanza tra le persone, e questo anche se c’è il sovraffollamento; si elimina l’afflittività, l’istituzione totale non incombe, si può costruire una convivenza pacifica.

Qui il direttore diventa il sindaco di una città, piccola o grande che sia. Questo tipo di carcere, nel modo forse utopistico in cui io lo vedo, potrebbe anche diventare il setting, passatemi il termine, per un’opera di mediazione. Fin quando sarà il luogo dove si soffre talmente tanto da diventare una vittima, il rapporto di potere tra reo e vittima si ribalta: chi prima era il carnefice, una volta dentro diventa la vittima ( e con lui i suoi familiari). Questo gioco non funziona e non serve.

Il carcere potrebbe invece diventare una città fortificata; non si può uscire, ma comunque è una città, dove si possono attuare anche dei percorsi di mediazione.

Io non so se questo è possibile, però questo è il grande sforzo dell’amministrazione penitenziaria su Bollate.

 

 

Un incontro che ha avvicinato il mondo dei cattivi a quello dei buoni

 

di Elton Kalica

 

Se da un lato preparare incontri in redazione mi coinvolge sempre, dall’altro lato questa passione, così come altri sentimenti di felicità, puntualmente mi fa venire l’angoscia. Anche se non è delle angosce che voglio parlare, ma Ornella mi aveva chiesto di intervenire anche nel corso di questo seminario e l’idea mi terrorizzava; una vera “crisi da esame”, prodotta non tanto dall’infantile paura di balbettare, quanto dalla consapevolezza di dover parlare di fronte a decine di giornalisti di cronaca giudiziaria, raccontare della nostra redazione a quelli che spesso la notizia la cercano tra i corridoi delle questure e dei tribunali, dove io così tante volte sono passato in catene; in fondo si sa che il giornalismo è un mondo complesso, e forse fare il giornalista in carcere diventa complicato proprio per le contraddizioni che stanno dietro certe scelte di cambiamento, in cui le vite, quella passata e quella presente, continuano a intrecciarsi.

Insomma anche quest’anno abbiamo ripreso l’esperienza dell’anno scorso con l’Ordine dei giornalisti del Veneto, e abbiamo organizzato un’altra giornata di studio. Ci siamo messi a ragionare in redazione, decine di riunioni e di discussioni, finché abbiamo deciso l’ordine del giorno, gli argomenti da trattare, i relatori, abbiamo redatto il programma e fatto il comunicato stampa. Io dovevo intervenire alla fine e spiegare il nostro lavoro di mediazione. Difficile riassumere il lavoro di tre anni, centinaia di riu­nioni, decine di incontri e anche tre convegni nazionali, ma l’idea mi piaceva, nonostante l’estrema complessità che l’argomento riveste.

La mattina del seminario mi sveglio alle cinque. La preoccupazione comincia ad assalirmi. Metto sul fuoco la moca del caffè e mi lavo gli occhi. Sento il bisogno di ripassare il mio intervento che ho già ricostruito nella mia testa da diversi giorni, già scritto nella mia immaginazione e ora lo vedo proiettato nel vuoto. Comincio a sussurrare a occhi chiusi. Temo di essere sentito dal mio compagno di stanza: se mi sentisse parlare da solo in bagno, penserebbe che io sia affetto di chissà quale disturbo mentale provocato dalla lunga detenzione.

Alle otto possiamo andare nella biblioteca del carcere dove è tutto pronto. Accendo il computer e il proiettore. Sulla tenda bianca stesa sopra gli scaffali, il getto di luce scrive il titolo “Giustizia, carcere ed esecuzione della pena”, poi in basso, “21 ottobre 2010, Seminario alla Casa di reclusione Due Palazzi di Padova”. La sala è vuota ma presto cominciano ad arrivare tutti e verso le nove mi convinco che quello sia il luogo più sovraffollato di un carcere sovraffollato. Da un lato ci sono i relatori e dall’altro loro, i giornalisti, ai quali vorremmo tanto far vedere quello che succede “dentro” senza che si fermassero ai luoghi comuni e alle semplificazioni. Mescolati tra i giornalisti ci sono anche una quarantina di detenuti, silenziosamente coinvolti.

Dopo una veloce presentazione del seminario, Ornella invita ad intervenire Gianluca Amadori, Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto. Apprezzo da subito il suo discorso. Con un tono pacato, ma deciso, invita i giornalisti ad una sana autocritica. Il suo messaggio principale è “un giornalismo corretto, pacato e capace di approfondire le cose”, e penso a quante discussioni di redazione e quanto lavoro ci sono voluti per far ragionare i nostri lettori su questo concetto, e penso a tre anni fa, quando abbiamo dedicato un convegno nazionale a questo tema, invitando tutti i giornalisti presenti ad una informazione più sobria e pulita.

Erano i tempi della cosiddetta “emergenza microcriminalità” causata dai soliti stranieri e dagli ex-detenuti appena indultati; erano i tempi in cui sicuramente l’informazione della notizia urlata ebbe il suo ruolo nell’accorciare la vita al governo Prodi spianando la strada a quello attuale; erano i tempi in cui si prometteva la galera per chiunque avesse un comportamento fastidioso: i graffitari e i bulli, le prostitute e i loro clienti, i clandestini e gli homeless, e si prometteva fino a tre anni di reclusione per chi lasciava in giro rifiuti ingombranti. Mentre ora, per via di quelle promesse diventate leggi, ci ritroviamo con una giustizia paralizzata dai processi e che non sa più dove mettere i detenuti.

Ma questa è un’altra storia e mi accorgo che nel frattempo la parola è passata al magistrato di Sorveglianza, Marcello Bortolato, che sta spiegando ai giornalisti come non ci sia nulla di automatico nella concessione delle misure alternative. Sono contento che stia spiegando questo concetto importante. Tornando indietro nel tempo di un paio di anni, quando avevamo appena proposto al Presidente Amadori di organizzare il primo seminario, avevamo in mente almeno due modalità di scrittura giornalistica che ci indignavano particolarmente.

La prima era il fare i calcoli della galera. Un modo usato ad esempio per trattare il caso dei due condannati per la rapina di Gorgo al Monticano, accusati di aver ucciso la coppia di custodi di una villa. Ricordo che c’era un articolo in particolare in cui si diceva che, dopo otto anni, uno degli autori, condannato all’ergastolo, avrebbe usufruito dei permessi e che la valutazione del giudice sarebbe stata solo una mera presa di conoscenza del fatto che il detenuto si fosse comportato bene. Nessuno meglio di me sa quanto una simile affermazione sia sbagliata, dato che dopo tredici anni e mezzo di carcere e, benché sia a solo un anno dal fine pena, non ho usufruito nemmeno di un giorno di permesso. Altro che “i permessi non si potranno negare”.

La seconda modalità di scrittura che ritenevamo scorretta era quella dei titoli urlati come quello con cui un quotidiano aveva aperto la polemica sulla semilibertà concessa a Pietro Maso, che, all’età di diciannove anni, ha ucciso i genitori, un titolo che faceva “Maso già libero, dopo soli diciassette anni di carcere” come se la semilibertà fosse una effettiva libertà, e come se diciassette anni di galera fossero una cosa da nulla.

 

Pene e carceri pensate a misura del proprio figlio

 

l relatore successivo è Mauro Grimoldi, psicologo. Sta parlando dei reati commessi dai minori, e racconta ai giornalisti la storia del ragazzino accusato di stupro che, dopo essersi guardato intorno nell’ufficio dello psicologo, gli aveva chiesto, “Ma voi conoscete gente cattiva, frequentate persone cattive?”. Una storia importante perché quel ragazzo, che non si aspetta di essere uno dei cattivi, rispecchia un po’ l’intera società di oggi, che di fronte a certi fatti di cronaca di cui sono responsabili prevalentemente dei giovani, come quelli a sfondo sessuale, non pensa mai che potrebbe capitare al proprio figlio di commettere reati del genere. Un punto di vista, questo, che ridurrebbe di molto il tasso di veleno che c’è oggi nella società, dal momento che porterebbe l’opinione pubblica ad accettare pene e carceri pensate a misura del proprio figlio.

Spero tanto che i ragionamenti di Mauro Grimoldi vengano recepiti dai giornalisti. Ho ancora vivi nella memoria i fatti di Guidonia e del parco di Caffarella di quasi tre anni fa, che ci hanno mostrato come sia facile per i media fare una vera istigazione a delinquere, dando voce ai commenti da bar, intervistando gente indignata che invoca azioni di linciaggio e di vendetta. Un metodo che ha portato a fare leggi che introducono il reato di clandestinità e aumentano le pene di un terzo per i reati commessi da stranieri irregolari, e leggi che impongono la custodia cautelare per tutti i sospettati di reati a sfondo sessuale.

Mentre guardo ansioso le facce del pubblico, sento che sta parlando Monica Gazzola, avvocato impegnato nella tutela dei Diritti dell’Uomo, spiegando una recente sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima proprio quella legge, fatta dopo lo “stupro di Capodanno”, che prevedeva l’obbligatorietà della custodia cautelare in carcere per tutti gli accusati di reati a sfondo sessuale. Avevo appena pensato a quel caso e lei ora ne approfondiva l’argomento. Una telepatia incredibile direi, se non conoscessi le centinaia di discussioni fatte in redazione su questo tema, e non conoscessi gli articoli scritti su Ristretti e sul Mattino di Padova in cui dicevamo che quella legge era sbagliata.

Poi l’avvocatessa cambia argomento e racconta la famosa sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso Sulejmanoviç. Mi vengono in mente i mesi passati a leggere sentenze e tradurre i rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, mentre facevo la tesi di laurea specialistica proprio su questo caso e sugli standard europei per le condizioni di detenzione. Per un attimo mi perdo nei ricordi di quella importante e profonda esperienza che è stata l’Università, fino a quando l’avvocatessa mi riporta al presente annunciando che i tre Paesi più problematici per i continui abusi e i trattamenti disumani sono la Cecenia, la Romania e l’Italia. Una cosa che dovrebbe preoccupare i detenuti, penso, ma che potrebbe essere anche una notizia per i giornalisti presenti, forse.

Il microfono passa a Carlo Riccardi, criminologo e mediatore che parla di quelli che costituiscono la maggioranza dei delitti, i reati in famiglia, nei condomini, nelle situazioni di stretta vicinanza tra le persone. Il relatore spiega come l’idea di giustizia riparativa vada oltre le normali funzioni della pena, perché cerca di responsabilizzare le parti in causa attraverso l’incontro. Discorsi complessi, ma che noi della redazione conosciamo bene grazie alla lunga esperienza di rapporti con molte persone che hanno subito reati. Ed è proprio su questo argomento che ho preparato il mio intervento, ma non è ancora il mio turno.

Ecco che tocca anche a Lucia Castellano, la famosa direttrice del carcere di Bollate, che inizia subito a parlare del suo difficile rapporto con i media. Per spiegare ciò porta un esempio che noi conosciamo molto bene. Il caso della detenuta rimasta incinta mentre frequentava la scuola e i titoloni che urlavano “Carcere a luci rosse”. Se il giornalista avesse scritto “nell’ambito di un progetto sperimentale, dove era stato consentito alle detenute e ai detenuti di andare a scuola insieme....”, i lettori non sarebbero stati attratti come lo sono stati leggendo “Carcere a luci rosse”, ma qual è la notizia corretta? Mentre la direttrice si pone questa domanda, io penso a come la società civile sia convinta che il carcere debba far stare male le persone e si rifiuti di accettare anche una cosa così semplice, che fanno tutti, quale è la relazione affettiva e sessuale tra due persone: è come se il fatto che questo avviene tra due condannati renda perfino la nascita di un bambino una cosa condannabile.

La direttrice racconta di aver istituito un ufficio stampa per migliorare il rapporto con i media, e conferma la sua visione del carcere come una comunità basata su un patto di cittadinanza tra le persone, per eliminare l’afflittività inutile della detenzione e costruire una convivenza civile, in cui la pena sia costituita solo dalle mura del carcere, dalla privazione della possibilità di varcarle, e per il resto la persona detenuta inizi da subito un percorso per rientrare nella società con delle risorse in più da spendere. Conosco le idee di Lucia Castellano e sono contento che sia qui a parlare con i giornalisti.

 

Prove di una giustizia che al male non risponda affatto con altrettanto male

 

Alla fine la parola passa a me, che comincio a sudare come se stessi facendo un combattimento con le idee che non obbediscono ai miei ordini, e le parole cominciano ad uscire in modo disordinato.

Parto raccontando come abbiamo iniziato, anni fa, a parlare di mediazione senza nemmeno immaginare di intraprendere un percorso così denso di sofferenza, come poi si è rivelato. Racconto di quella volta che, durante un incontro con degli studenti, una ragazza, dopo aver ascoltato alcune storie di devianza e di reati, si è alzata in piedi e ci ha raccontato con la voce tremante di aver appena subito un furto in casa, ci ha descritto il trauma che questo atto aveva prodotto nella sua vita, portandoci a capire che c’era un bisogno reciproco di accorciare le distanze, affinché noi potessimo imparare a metterci nei pani delle vittime, e loro uscire dalla condizione di odio e di sofferenza.

Poi parlo dell’incontro con Olga D’Antona, che con coraggio ci ha raccontato la sua sofferenza e come è stato proprio quell’incontro a convincerci a organizzare un convegno sulle vittime. Una giornata di studi che ha portato in carcere centinaia di persone ad ascoltare la voce delle vittime, i loro ricordi, le loro angosce e i loro perché.

Ad un certo punto mi si accorcia il respiro, comincio a balbettare, ma voglio far capire ai presenti che questa necessità di dialogo proveniente dal carcere dovrebbe far riflettere tutti sul fatto che qui dentro ci sono abbastanza frammenti di umanità per costruire una vera fabbrica di idee, come la nostra redazione.

Faccio un respiro profondo e comincio ad elencare alcune delle persone con cui abbiamo dialogato nell’ambito di questa specie di mediazione collettiva. Ricordo quindi Manlio Milani e la sua grinta nell’assumersi il ruolo di testimone, per “trasferire memoria” di una esperienza che non va dimenticata. E ricordo come Andrea Casalegno, giornalista del Sole24ore, ci ha raccontato della sua ferita rimasta aperta in un modo particolarmente doloroso; Giuseppe Soffiantini che ha spiegato come l’odio sia un sentimento montante che fa solo male a chi ce l’ha nell’animo, raccontandoci che per lui prendere le distanze dall’odio non è stato un atto di generosità, ma una necessità.

Poi ho ricordato l’incontro con Silvia Giralucci, con la quale è nata anche un’amicizia personale, ma che in quel primo incontro ha voluto ribadire il suo modo di vedere i “debiti” che non si possono saldare, i “debiti” di chi ha deliberatamente ucciso un altro uomo.

Mi sono dilungato troppo e avrei dovuto finire lì, ma ho accelerato le parole, balbettando forse più del solito, per ricordare anche Benedetta Tobagi che, con la sua storia, i suoi profondi ragionamenti e le sue lacrime ci ha fatto toccare con mano la sofferenza di una vittima, insegnandoci che dentro una persona adulta ci può essere un bambino ferito che ha bisogno di essere ascoltato ed eventualmente di piangere, come ha imparato a piangere anche qualcuno dei detenuti presenti.

Insomma, ormai era tardi e io dovevo concludere, anche se nei miei occhi continuavano a scorrere le immagini di tutte le persone che abbiamo incontrato in redazione e nei convegni. Ma era impossibile elencare tutti. E poi non era questo il mio compito: dovevo solo dare ai presenti un’idea della nostra attività di giustizia riparativa, e alla fine credo di averlo fatto.

Sicuramente ha fatto un lavoro anche migliore del mio il seminario intero, che ha raccontato ai giornalisti la galera, le misure alternative, e ha smontato tanti stereotipi sulla “certezza della pena”, sui minori che delinquono e sulla altre forme di giustizia. Una conoscenza che forse servirà loro non solo per essere più informati quando scriveranno i loro articoli, ma anche per avvicinare il mondo dei cattivi, di quelli che creano insicurezza e che secondo tanta informazione non si fanno mai la galera, con il mondo dei buoni, che però stanno diventando sempre più cattivi, anzi si vantano di non tollerare la bontà perché al male si deve rispondere con il male.

 

 

Automatismi

Sia i permessi che le misure alternative non scattano affatto in maniera automatica, solo che tanti giornalisti ancora non lo sanno…

 

di Antonio Floris

 

Vorrei portare la mia riflessione sui benefici penitenziari e sulle misure alternative, cercando di spiegare un po’ come si fa a ottenerle.

Quando succede qualche reato particolarmente grave e viene scoperto l’autore, i giornali alle volte fanno i conti di quanta pena l’imputato espierà in concreto.

Se per quel reato ad esempio è inflitta una condanna di 30 anni, il giornalista scrive che i 30 anni in realtà non sono 30, perché sottraendo i 6 anni di liberazione anticipata “dovuti”, la condanna si riduce a 24. Facendo i calcoli non più su 30 ma su 24, scrivono che a metà pena (cioè a 12) si esce in semilibertà, mentre a ¼ di pena (cioè a 6) si può andare in permesso. In buona sostanza quando uno è condannato a trenta anni dopo appena 6 anni è già quasi “libero”, dando come per scontato che una volta raggiunti i termini, i benefici si prendono in maniera automatica.

La buona parte della gente leggendo i giornali crede che veramente sia così, e cioè che ci sia una regola in base alla quale, appena si raggiungono i termini automaticamente si esce, tant’è che quasi tutti dicono “quello, anche se condannato a una grossa pena, fra qualche anno sarà di nuovo libero”.

In realtà però non è così, perché sia i permessi che le misure alternative (come l’affidamento in prova o la semilibertà) non scattano affatto in maniera automatica.

Tanti reati, come ad esempio i rea­ti di mafia, terrorismo, eversione, tratta di schiavi, sequestro di persona e altri ancora, sono esclusi da qualsiasi beneficio.

Per altri reati, tipo omicidio o rapina aggravata o estorsione per elencarne qualcuno, è necessario, solo per andare in permesso, aver espiato una determinata parte di pena, che può essere la metà della pena o i due terzi a seconda se uno è recidivo o meno.

Per poter accedere ai benefici è necessaria una lunghissima osservazione da parte degli operatori del carcere, che sono educatori, psicologi, criminologi, comandante e direttore, i quali devono fare le loro relazioni e solo quando scrivono che “con certezza” un soggetto, secondo loro, non è più socialmente pericoloso, allora costui può sperare di ottenere qualche beneficio.

Il problema è che con il sovraffollamento è difficilissimo fare colloqui con educatori o altri operatori. Qui al carcere di Padova ad esempio, con una popolazione di oltre 850 detenuti, operavano fino a pochi mesi fa solo tre educatori effettivi, adesso diventati sette, sempre pochissimi per il numero enorme di detenuti, ed è possibile fare colloquio con loro, ad andare bene, una o due volte all’anno, e per la durata di appena dieci minuti per volta. In appena dieci minuti naturalmente non si riesce a conoscere una persona e dare una qualunque valutazione. Non solo, ma a volte succede che quando tornano per il secondo colloquio non riescono a ricordarsi più di che cosa si era parlato nel primo.

Facendo pochi colloqui naturalmente non possono fare neanche le relazioni oppure le devono fare incomplete. Succede così che, quando un detenuto presenta una istanza di permesso, il magistrato di Sorveglianza glielo rigetta motivando che manca la relazione di sintesi oppure che la relazione è incompleta ed è necessario prolungare l’osservazione, perché se la relazione manca o è incompleta il magistrato non è in grado di stabilire se il soggetto sia ancora pericoloso o meno.

Per capire quanto sia difficile ottenere i benefici, posso portare come esempio il caso mio. Io ho espiato oltre 20 anni di carcere per reati che non sono “ostativi”, e non ho mai preso in 20 anni una sola ora di permesso. Sono nei termini abbondanti per chiedere qualsiasi beneficio, ma quando io presento qualche istanza di permesso, la stessa mi viene rigettata con la motivazione che la mia pericolosità non è ancora cessata. E questo non perché sia veramente così, ma perché i componenti dell’equipe, educatori e altri, non sono riusciti a scrivere niente al riguardo, né che la pericolosità sia cessata né che non sia cessata. Il magistrato di conseguenza rigetta le mie richieste in quanto non ha in mano elementi certi di cessata pericolosità.

Esempi come il mio se ne possono fare quanti se ne vuole. Ci sono anche tantissime persone che, pur essendo condannate a pene brevi, quindi relativamente poco pericolose, scontano la pena fino all’ultimo giorno soltanto perché non c’è stato tempo di fare per loro nessuna sintesi.

Come si vede, prendere i benefici è tutt’altro che facile, tutt’altro che scontato, tutt’altro che automatico.