Sani dentro

 

A proposito del libro “Carcere: del suicidio ed altre fughe”

Più che di prevenzione del suicidio rischiamo di parlare di istigazione al suicidio

Quanto è drammatico l’impatto con il carcere di persone giovani o al primo reato, se queste persone dentro la galera oggi non hanno più una prospettiva, non possono più neppure immaginare un progetto di vita?

 

di Ornella Favero

 

Perché noi di Ristretti abbiamo cominciato ad occuparci della questione dei suicidi, dando vita al dossier “Morire di carcere”? Perché volevamo dare semplicemente un nome, e magari un pezzo di storia, alle persone che morivano in carcere. E le storie delle persone che muoiono in carcere molto spesso sono storie dove l’individuo è cancellato, non si vede, non esiste: se un detenuto poi tenta di impiccarsi in carcere e muore mentre va all’ospedale, non risulta nemmeno essere “morto di carcere”.

Sono situazioni di persone senza storia e noi volevamo ridare loro un’identità e una storia, e raccontare qualche cosa della loro vita. quindi il nostro è un dossier che raccoglie con grande difficoltà notizie ovunque sia possibile, perché il carcere non è ancora quel luogo trasparente che tutti, o per lo meno quasi tutti, vorremmo fosse. Ovunque vuol dire dai giornali nazionali e locali, dall’amministrazione, dai volontari, dai famigliari che adesso molto spesso si rivolgono a noi.

Oggi la situazione rispetto a quando noi abbiamo cominciato a fare questo dossier sta precipitando, e mi sembra che questo degrado progressivo e rapidissimo non veda, da parte di chi dovrebbe pensare a far fronte alla situazione, nulla che assomigli lontanamente a una soluzione.

In carcere sono più a rischio di suicidio i ragazzi giovani, alla prima carcerazione, persone per le quali l’impatto con la galera è assolutamente drammatico, e noi che abbiamo un progetto di prevenzione nelle scuole ci accorgiamo sempre di più che i ragazzi non hanno nel loro orizzonte questa triste prospettiva del carcere e questo possibile rischio, e però i loro comportamenti sono sempre più rischiosi. E le leggi oggi traducono questo rischio in carcere, e così noi vediamo arrivare sempre più spesso ragazzi giovani, e quindi li vediamo da una parte nelle scuole in questo progetto di prevenzione, e dall’altro ne vediamo tanti finire proprio in carcere per reati legati alla droga, perché oggi purtroppo l’unica soluzione ai problemi di questo genere è sempre più spesso il carcere.

Io ritengo che parlare di questi temi sia fondamentale, ma non so come si possa veramente fare prevenzione, perché credo che nelle condizioni attuali delle carceri parlare di prevenzione sia quasi ridicolo, purtroppo. Ci sono state in questi ultimi tempi due circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che cercano di tamponare la situazione, invitando i direttori a concedere ai detenuti degli spazi, aprire le celle, ma sono assolutamente dei palliativi per una situazione che è drammatica, drammatica anche in un carcere come quello di Padova, che è una Casa di reclusione considerata fino a ieri fra le più “vivibili”. E che oggi comincia a vedere in celle da uno tre persone, tre persone che non hanno una prospettiva di sei mesi o un anno di carcere, hanno una prospettiva di anni e anni da vivere dentro.

Allora, in queste condizioni come si fa prevenzione dei suicidi? Non lo so, io ho l’impressione che non si possa fare quasi niente, credo che noi dobbiamo lavorare e ragionare su che cosa si può fare per ridurre il danno da carcere oggi. Ridurlo come? ridurlo per esempio con le misure alternative, che oggi drammaticamente vengono concesse sempre meno, e questo incide tantissimo sulla condizione psicologica delle persone detenute. Perché non avere una prospettiva, non sapere, non vedere nella tua vita niente che ti possa aprire uno spiraglio di speranza, si traduce veramente in un forte rischio per le persone.

Quello che la redazione di Ristretti ha “suggerito” nel libro di Francesco Morelli e Laura Baccaro è che dobbiamo lavorare per ridurre i danni di questa galera, per ridare una prospettiva a quello che è l’articolo 27 della Costituzione, che oggi è sempre meno applicato. E che senso ha allora la carcerazione di persone giovani o al primo reato, quanto è drammatico l’impatto con il carcere se queste persone dentro non hanno più una prospettiva? E che prospettive hanno gli stranieri, che non hanno un futuro a casa loro, perché tornare a casa dopo magari 10, 15 anni di immigrazione è una sconfitta intollerabile, e non hanno nessun futuro qui?

Quindi noi parliamo di persone, a cui stiamo tagliando qualsiasi prospettiva di futuro. In queste condizioni più che di prevenzione del suicidio rischiamo di parlare di istigazione al suicidio.

Si può scegliere di morire-per-essere

Una “scelta” che molte persone in carcere fanno, non per paura del carcere,

ma per paura di non-essere, cioè di morire “dentro” se stessi

 

di Laura Baccaro

Psicologa, coautrice del libro “Carcere: del suicidio ed altre fughe”

con Francesco Morelli

 

Quando abbiamo deciso di lavorare a questo libro, per noi era importante, oltre al fatto di dare un nome, una identità a persone che vengono dimenticate, sottolineare il fatto che le persone che si suicidano in carcere per lo più non hanno patologie mentali, come spesso si vuol far credere. Può esserci un disagio, però non nascondiamole dietro ad una etichetta di malattia mentale, non usiamo la psichiatria per nascondere una situazione invivibile del carcere.

Il suicidio a nostro avviso è una fuga, una fuga dalla speranza, sono persone con il futuro dietro di sé, sono persone che vivono la paura di uscire, l’insicurezza riguardo al loro stato sociale, l’ansia della non accettazione, per questo parliamo di fughe.

Quante sono le fughe? Finora sono state 65 quest’anno, 65 suicidi, ma se poi noi andiamo a vedere i tassi di autolesionismo, nel 2008 vediamo 4928 atti di autolesionismo, una quantità di persone che manifestano un disagio incredibile. Per quanto riguarda poi i tentati suicidi, sono stati 683 nel 2008. Si tratta di segnali forti che ci vengono dalle persone che vorremmo “rieducare”, sono segnali di disagio importanti per cui ci si chiede, come ci siamo chiesti noi, chi c’è dietro al reato. Perché il punto è che si tratta prima di tutto di “ persone e non reati”, quindi la nostra attenzione per queste fughe diventa un’attenzione all’uomo, che deve sempre esserci altrimenti è il fallimento della democrazia.

Prendiamo il caso del suicidio della terrorista Diana Blefari. Non credo sia stato un atto di guerra contro la società di una brigatista, il suo, quanto piuttosto un atto di una donna detenuta che stava male. Le condizioni di psicopatologia di cui hanno parlato le varie agenzie di stampa non mi soddisfano, non del tutto: mi resta il pensiero di come potrebbe essere stata la salute, e quindi la vita, di Diana Blefari se non fosse stata per anni sottoposta al regime del “carcere duro”. Dalla nostra ricerca “Morire di carcere” emerge che nel quinquennio 2004-2008 le persone sottoposte al “carcere duro” si sono uccise con una frequenza 90 volte superiore a quella della popolazione libera, e alla Blefari questo regime era stato revocato un anno e mezzo fa, ma ha senz’altro lasciato segni indelebili sul suo equilibrio.

Nelle Sezioni di Alta Sicurezza, nell’isolamento del regime del 41-bis (due ore d’aria e due di socialità al giorno, posta censurata e un’ora al mese con la famiglia, attraverso un vetro), è il tempo che diventa il maggior tormento, perché ad uno spazio immobile, strozzato, corrisponde una dilatazione del tempo vuoto e di negazione del tempo-per-sé. Diventa enorme, mostruoso, occupa tutto lo spazio della cella e della tua testa. È un tempo senza ritmo, con pensieri ossessivi che scandiscono in maniera allucinante la vita carceraria. Perché il carcere duro, si sa, priva le persone dell’orientamento nella geografia dello spazio-tempo interiore, cioè della possibilità di ri-conoscersi. Una modalità di scontare la pena che porta la persona, in senso antropologico, ad essere scardinata nelle sue dimensioni più umane e sociali, a non avere riferimenti nello spazio e nel tempo per determinarsi come identità. Una identità che, con la condanna all’ergastolo, si arriva a concepire come ferma al momento dell’arresto.

Il suicidio rappresenta la risposta, unica possibile, ad un dolore che aveva raggiunto la soglia dell’insoffribile. Insomma credo che Diana Blefari abbia scelto di morire-per-essere. Una “scelta” che molte persone in carcere fanno, non per paura del carcere, ma per paura di non-essere, cioè di morire “dentro” se stessi.

Il suicida è il disinganno della realtà trattamentale, delle politiche di sicurezza, del lavoro dei magistrati. È il fallimento dei diritti dell’uomo e della nostra democrazia perché noi, chiunque di noi, che commette un reato, ha diritto ad una pena giusta, non ad un’applicazione della pena che diventa “pena capitale”.

In tal senso il comportamento della Blefari è stato un comportamento umano di risposta ad una condizione di “lesa umanità”.

E non serve solo indignarsi, è necessario difendere i nostri diritti di giustizia, di democrazia, perché oramai siamo stranieri a noi stessi, alle nostre leggi, al nostro stesso sentire. E siamo il risultato di una oltraggiosa violenza che noi stessi, come società, alimentiamo.

Il libro commentato da un magistrato di Sorveglianza

Quel nesso causale indiscutibile tra il sovraffollamento e il fenomeno suicidario

Se la riforma penitenziaria fosse stata attuata, sarebbe indubbiamente stato creato un ambiente diverso nel quale sarebbe stato possibile vivere; essendo invece il carcere così com’è, non c’è da meravigliarsi se le persone, più esposte ai rischi specifici che il libro studia e commenta, operano le loro scelte suicidarie

 

di Giovanni Maria Pavarin, Magistrato di Sorveglianza

 

In carcere: del suicidio ed altre fughe. Si tratta di un testo che mi ha colpito per la diversità dagli altri libri che si trovano in commercio in questi mesi sul tema del carcere. Non è un istant-book, ma un testo documentato, frutto di studi e di ricerche approfondite.

Si distingue per l’approccio scientifico, la serietà dell’impostazione metodologica, la ricchezza delle fonti citate, l’attenzione alla dimensione anche storica del fenomeno e l’assenza di influenze derivanti da ideologie precostituite. È, insomma, un libro serio e sereno, degno di riempire gli scaffali delle migliori biblioteche.

Il tasso di suicidi tra i carcerati è in media di circa 20 volte superiore a quello che si registra tra la popolazione libera.

Uno dei passaggi del libro che più inducono a meditare è costituito dal capitoletto (pag. 133) nel quale si tenta di individuare le cause di un fenomeno a prima vista quasi inesplicabile: quarant’anni fa la frequenza dei suicidi tra i detenuti era molto inferiore rispetto alla percentuale odierna (meno di un terzo); mentre i tentativi di suicidio risultavano di ben 14 volte inferiori rispetto a quelli degli ultimi anni (e ciò nonostante nel 1975 sia entrato in vigore l’Ordinamento penitenziario, poi migliorato nel 1986 dalla cd. legge Gozzini).

Non posso non concordare con quanto osservato in proposito da Alessandro Margara, ex-capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: i punti fondamentali della riforma del 1975, e poi ancora di quella del 1986, sono stati praticamente rifiutati.

L’Ordinamento penitenziario, che molti paesi ci invidiano, ha fatto delle ottime scelte sul terreno dei principi, che però sono state attuate solo in minima parte.

Il sistema della individualizzazione del trattamento, che è il suo principio cardine, è stato ignorato; gli elementi del trattamento (come ad esempio – importantissimo – il lavoro) inattuati; il carcere diventa sempre più grande, enormi scatoloni vengono eretti per contenere un numero sempre più elevato di detenuti, mentre l’art. 5 dell’Ordinamento lo vieta espressamente; la vita del detenuto si svolge per la massima parte degli istituti 20 ore su 24 nelle celle, mentre l’Ordinamento prevede che le celle debbano servire solo per il pernottamento e che la giornata debba essere impegnata nelle varie attività trattamentali.

Se la riforma fosse stata attuata, sarebbe indubbiamente stato creato un ambiente diverso nel quale sarebbe stato possibile vivere; essendo invece il carcere così com’è, non c’è da meravigliarsi se le persone più esposte ai rischi specifici che il libro studia e commenta operano le loro scelte suicidarie (nella loro variegata tipologia di scelte tentate e/o consumate).

Di Alessandro Margara voglio però ricordare un’altra intelligente osservazione, contenuta a pagina 12 del testo, laddove parla dei “fattori di resilienza”, intesa la resilienza come “capacità di ritrovare rapidamente un equilibrio dopo l’evento negativo”.

È interessante la differenza che viene registrata tra la carcerazione subìta negli anni 40 da uomini politici antifascisti, che a causa delle loro idee avevano conosciuto il carcere durante il regime, e l’esperienza fatta dai politici dell’epoca di Tangentopoli, epoca caratterizzata da alcuni tragici episodi di suicidio che mai si erano invece verificati nel caso di quei politici antifascisti. “È ragionevole pensare – afferma quasi sogghignando Margara – che i detenuti politici di Tangentopoli, tra l’altro in carcere per periodi molto brevi, diversamente dai loro predecessori, mancavano del tutto dei fattori di resistenza che accompagnarono gli stessi”.

Un’ultima annotazione riguarda il nesso causale indiscutibile che esiste tra il problema del sovraffollamento e il fenomeno suicidario.

Non ho difficoltà ad affermare come il fenomeno del sovraffollamento sia un dato che non deriva dall’aumento della criminalità, i cui numeri come sapete non sono in aumento, ma piuttosto in diminuzione, ma è invece la conseguenza di precise scelte di politica legislativa che hanno ad esempio previsto l’esecuzione della pena immediata nel caso di reati posti in essere da soggetti appartenenti alle fasce della marginalità sociale: così un colletto bianco che si sia illecitamente impadronito di ingenti somme (pensiamo alle figure della corruzione, della concussione, della bancarotta) espierà la pena solo al termine del terzo grado di giudizio, mentre l’ingresso in istituto è previsto come immediato per un semplice ladro, o per un qualsiasi reato commesso da un soggetto che si trovi illegalmente nel territorio dello Stato (pensiamo al furto di una maglietta presso un grande magazzino commesso da un ragazzo sbarcato a Lampedusa e che si trovi oggi a tentare di difendersi dai primi freddi).

In questo modo il carcere viene sempre più spesso usato come discarica sociale, che serve cioè a gestire fenomeni sociali, e non propriamente criminali, quali sono l’immigrazione, la povertà e la malattia mentale. Senza contare che il colletto bianco farà di tutto per difendersi dal carcere, magari raccogliendo tutte le forze che gli è possibile raccogliere per introdurre le norme che evitino per sempre il suo ingresso nel circuito carcerario (a questo e non ad altro serve a mio avviso la prescrizione dei processi, che non a caso la legge che si intende introdurre esclude espressamente nei confronti di quel ragazzo sbarcato a Lampedusa di cui ho appena parlato).

Eseguita la parte negativa del mio breve intervento, passo a quella positiva: cosa possiamo fare noi per rimediare a questa situazione?

Indubbiamente favorire anzitutto ed incentivare l’attività del volontariato nella sua opera di costante supplenza ed aiuto rispetto a quanto le istituzioni sanno fare nei confronti del soggetto detenuto. Battersi, a livello politico ed amministrativo, perché l’Ordinamento penitenziario sia attuato (penso soprattutto al lavoro penitenziario).

Creare le condizioni per una maggiore praticabilità delle misure alternative alla detenzione, che presuppongono quanto meno il possesso di un domicilio ove espiare la detenzione in forma alternativa al carcere.

Contribuire a diffondere una mentalità che valorizzi tutto ciò che oggi non fa spettacolo: la divisione, lo scontro, la lotta, i toni sempre esacerbati, il rispuntare del razzismo e della xenofobia, l’incitare allo scontro, anche se soltanto dialettico, sono gli ingredienti più adatti per l’affermazione di un clima di odio che certo non giova, ma anzi disturba maledettamente, l’opera di rieducazione che deve essere svolta dagli operatori penitenziari.

Creare invece le premesse per realizzare quanto più possibile un clima di inclusione sociale, e lavorare per costruire un terreno di comprensione e di dialogo è quanto serve a recuperare chi ha sbagliato; è la medicina per neutralizzare l’eventuale residua pericolosità sociale del condannato, contribuendo in questo modo a realizzare la vera sicurezza sociale, che è figlia della concordia e della saggezza e non della violenza di una specie di vendetta sociale, che si è deciso di riservare quasi esclusivamente a soggetti che non sono criminali in quanto tali, ma che costituiscono un problema sociale che è illusorio pensare di risolvere con il carcere. Quel carcere che va invece riservato ai criminali veri e propri e a tutti quelli nei cui confronti siano ancora evidenti segni di pericolosità sociale.

Ogni scelta suicidaria ha dietro una storia

individuale che non può essere generalizzata

Ma ci sono ancora importanti battaglie da condurre, ad esempio per poter accedere ai fascicoli personali dei detenuti che hanno fatto la scelta del suicidio, che potrebbero dare un contributo davvero importante al lavoro di prevenzione

 

di Luigi Manconi, sociologo

 

Ormai una decina di anni fa i miei collaboratori ed io abbiamo fatto degli studi di carattere sociologico sul fenomeno dei suicidi in carcere. Il libro “In carcere: del suicidio e altre fughe” è una conferma piena di tutte le acquisizioni e le evidenziazioni scientifiche su ciò che all’epoca indagammo, ma ha un pregio ulteriore che trovo davvero importante. Qui noi abbiamo, oltre che i dati statistici e sociobiografici, elementi cruciali preziosi, io direi indispensabili, che hanno a che vedere con le storie di vita e di morte delle persone che hanno fatto questa scelta.

Il fattore umano ha in questo libro un ruolo cruciale, e io sono, anche da un punto di vista scientifico dell’analisi di questo fenomeno, molto contento che questa dimensione sia stata indagata nei limiti in cui è possibile farlo, perché porta un contributo originale, originalissimo e ripeto ineludibile, a quel tipo di analisi, che appunto negli anni scorsi più di un ricercatore ha avviato.

Qui abbiamo appunto valorizzata l’identità personale, la sfera della dimensione privata, e del percorso sociale e carcerario, che ha come ultimo elemento il gesto estremo, tappa finale: la scelta del suicidio.

E questo materiale, rappresentato dalle storie di vita, dalla ricerca delle dinamiche personali, dai fattori che costituiscono l’esistenza individuale è determinante, senza questo, nessun discorso sul suicidio in carcere e la sua prevenzione può essere nemmeno tentato.

Il libro porta questo contributo che io ritengo davvero importante, perche noi sappiamo, e lo sappiamo da un secolo e oltre, che ogni suicidio è un fatto a sé, ogni scelta suicidaria ha dietro una storia individuale, che non può essere generalizzata, diciamo che le ragioni profonde difficilmente possono essere indagate. E tuttavia c’è un percorso che noi oggi siamo in grado di ricostruire, con grande fatica, perché evidentemente a mio avviso ci sono ancora importanti battaglie da condurre, ad esempio per poter accedere ai fascicoli personali dei detenuti, per poterli studiare, i fascicoli a quel lavoro di prevenzione potrebbero dare un contributo importante.

Quindi davvero io ringrazio i curatori, e voglio aggiungere una piccola considerazione, io trovo che anche il titolo di questo libro sia molto efficace, perché è un titolo pertinente, pertinentissimo.

Come qualcuno sa, io ho scelto, per un sito dedicato alla questione penitenziaria, il titolo “Innocenti Evasioni”, ma non era solo un omaggio a Lucio Battisti e a Mogol, che hanno fatto questa canzone meravigliosa, era la volontà di giocare con l’ambiguità di quelle “innocenti evasioni”, che sono state giustamente valorizzate nel libro in questione. Non è un gioco linguistico, è qualcosa di molto più profondo e il libro ci aiuta a comprenderlo. Ma dico di più, che nell’inconsapevolezza degli autori di quel titolo di quella canzone, nella loro inconsapevolezza e nell’uso che noi siamo autorizzati a fare, di quell’inconsapevolezza, c’è ancora un’altra ricchezza che si può trovare, perché quelle innocenti evasioni non significano evasioni incruente, evasioni, come dire?, prive di drammaticità, al contrario sono evasioni tragiche, ma dove l’elemento dell’innocenza è assolutamente cruciale.

E l’elemento dell’innocenza non è solo il fatto che chi si suicida non può essere punito per l’atto compiuto, dal momento che il Codice penale italiano non sanziona il tentato suicidio, ma quella innocenza fa riferimento esattamente alla ricerca, che può essere disperata, e dunque avere quel suo esito tragico di una via di fuga, della capacità di sottrarsi a quel dominio dispotico e totalizzante che è il sistema penitenziario. Quella via di fuga che appunto può avere delle forme legali, dei canali di uscita non solo riconosciuti, ma incentivati, che sono le misure alternative, vie di fuga legali dal dispotismo totalizzante di una condizione disumana. Chi invece non ha possibilità di movimento e di parola, può muoversi e parlare solo con il proprio corpo, con la disponibilità del proprio corpo, fino al suo uso tragico che è appunto il suicidio.

Ecco mi sembra che il libro ci aiuti bene a capire questa dimensione, che va oltre le statistiche, che sono importantissime ma che non ci danno quello spessore umano, al quale invece dobbiamo continuare a saper guardare.

Quando si muore “anonimi” nel disinteresse generale

 

Ci sono voluti il suicidio di una terrorista e la morte misteriosa di un ragazzo, Stefano Cucchi, per riportare le carceri italiane sotto i riflettori dell’opinione pubblica, ma quanto durerà questo improvviso interesse? Negli stessi giorni in cui si suicidava la brigatista Diana Blefari, che almeno ha avuto, nella morte, l’attenzione di tutti i mezzi di informazione, si ammazzava a Verona un ragazzo napoletano di 29 anni e a Piacenza moriva, per probabile suicidio, un tunisino di 27 anni, di cui non si sa neppure il nome. Ecco, le storie di chi “muore di carcere” spesso restano anonime, perse nel disastro del sovraffollamento, vale la pena allora dare loro almeno un po’ di attenzione.

All’improvviso scatta quella molla

 

di Sandro Calderoni

 

Qual è la molla che scatta nella testa di un individuo e gli fa decidere di autoeliminarsi? Come può un essere umano agire per distruggere quella condizione naturale che è la vita? Queste domande mi vengono alla mente quando leggo di qualcuno che commette su di sé questo atto estremo, e risposte certe non ne trovo, perché le circostanze che in carcere portano a queste azioni possono essere profondamente diverse. Quando ci si trova in certe condizioni a volte il margine di confine che c’è tra il vivere, o meglio dire il sopravvivere, e il morire diventa molto sottile, specialmente in luoghi o situazioni in cui viene meno la possibilità di vedere un futuro.

Il carcere crea questa miscela esplosiva di gente che ha un passato da dimenticare e un futuro inesistente: è un luogo che ora più che mai viene utilizzato come discarica sociale, con gente che vive fianco a fianco ed è responsabile di reati diversissimi per gravità, che vanno dall’assassinio al furto, fino alla condizione di quelle persone che hanno il solo torto di essere stranieri poveri, colpevoli del reato di clandestinità.

Di atti estremi ne succedono parecchi in queste strutture, e a noi che sopravviviamo non rimane altro da fare che mettere un’altra croce sul nostro dossier “Morire di carcere”, incapaci di esprimere la nostra angoscia di fronte all’indifferenza che buona parte della società esterna dimostra. Una società che ritrova interesse per questi temi solo quando l’atto del suicidio è compiuto in carcere da persone note, persone che erano dalla parte dei “buoni” e che solo per errore si sono trovate nell’angolo dei “cattivi”, come succedeva con i suicidi negli anni di Tangentopoli: solo in questi frangenti il comune sentire forse comprende che non vi sono demarcazioni nette tra il bene e il male, e che almeno di fronte alla morte il dolore che una persona cara ha per la perdita del proprio congiunto è sempre lo stesso.

Forse se ogni volta che succedono questi fatti si provasse a sentire lo stesso dolore e sdegno per chiunque, dalla terrorista più famosa al detenuto straniero che a volte non ha neppure un nome nelle cronache dei quotidiani, sicuramente il carcere non assomiglierebbe più a una discarica, ma a un posto in cui chi ha sbagliato può avere la possibilità di progettarsi, presto o tardi, una vita nella società. Quando sento che qualcuno si uccide in carcere, mi viene in mente una frase di Nietzche: “Quello che indigna di fronte al dolore, non è il dolore in sé, ma la mancanza di senso del dolore”.

Così si spezza un filo invisibile

 

di Maurizio Bertani

 

Ancora morti nelle carceri italiane, ancora persone che spezzano quel filo invisibile dell’esistenza prima del naturale consumarsi della vita, ancora umanità che non accetta di trovarsi in situazioni in cui le prospettive per il futuro rimandano sempre al punto di partenza, una branda in una cella chiusa.

Gli ultimi due casi emblematici sono quelli di una terrorista, Diana Blefari, e un ragazzo arrestato per reati legati alla tossicodipendenza che muore misteriosamente. Le statistiche ci dicono che nel nostro paese l’incidenza dei suicidi nella popolazione è dello 0,5 – 0,7 ogni 10.000 abitanti, in carcere invece la media degli ultimi 20 anni è di circa 10 suicidi su 10mila detenuti, quest’anno arriveremo probabilmente a 12 su 10mila. Temo che a sentire la notizia di suicidi di detenuti, parte della popolazione provi uno stato di sollievo, come dire: uno in meno da mantenere. E tutto questo non per indifferenza, ma proprio perché la società ritiene che in quegli scatoloni chiamati carceri ci sia solo immondizia… Certo è giusto sentirsi offesi dai reati, ma non credo sia accettabile che in un mondo ristretto come il carcere vi sia un numero così alto di suicidi tentati e “riusciti”.

Il sovraffollamento, l’impossibilità di fare dei progetti per il futuro, la pressione psicologica a cui si è soggetti, tutto questo porta spesso a considerare inutile una vita, e quindi a decidere di spegnerla.

La polizia penitenziaria a sua volta è sottoposta a turni massacranti: quando un agente che dovrebbe controllare 25 detenuti se ne ritrova 75, lo stress lo porterà sempre più a non dominare la situazione. E i pochi educatori, psicologi, assistenti sociali, che si ritrovano il triplo o il quadruplo dei detenuti da seguire, come possono anche solo immaginare di avere di fronte un detenuto a rischio, che ha bisogno di particolare attenzione?

Che cosa bisognerà aspettare prima che si arrivi a capire che anche coloro che sono in carcere sono degli esseri umani, e che l’America, in proporzione alla popolazione detenuta, ha molte meno condanne a morte dei suicidi che ci sono in Italia?

 

 

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