Controinformazione

 

L’unico fesso

A proposito di un articolo di Panorama “Indulto: scorciatoie per la libertà”. Quando a suggerire quella “strana” idea per cui in Italia nessuno si fa la galera è un avvocato: che ci sia un “conflitto di interessi” o una forma di pubblicità occulta?

 

di Graziano Scialpi

 

Mi presento: sono l’unico fesso in Italia che, dopo dieci anni scontati dietro le sbarre, continua a restare in carcere. L’unico che non è uscito dopo un paio d’anni. La mia è una profonda convinzione maturata ascoltando i telegiornali, seguendo i dibattiti televisivi e leggendo autorevoli articoli pubblicati sui maggiori organi di informazione. Faccio un solo esempio, l’ultimo in ordine di tempo: l’articolo intitolato “Indulto: scorciatoie per la libertà”, firmato da Karen Rubin e pubblicato su Panorama del 25 settembre. L’articolo in questione tratta della vicenda giudiziaria di una donna che, dopo aver ucciso la madre della sua ex convivente, se l’è cavata con una condanna a 12 anni e 4 mesi di reclusione che saranno ulteriormente decurtati dall’indulto.

Ma, lascia intendere l’articolo, l’assassina non sconterà nemmeno questi 12 anni. A svelare una volta per tutte l’arcano dell’incertezza della pena è lo stesso avvocato della donna, Stefano Chiodini che afferma categorico: “Scegliendo il rito abbreviato qualunque omicida se la cava con soli 6-7 anni di carcere”. Il legale parte dall’assunto che la pena massima è di 30 anni, che con lo sconto di pena previsto per il rito abbreviato diventano 20. Un avvocato competente (uno come Chiodini, non un fesso qualsiasi) si assicura facilmente le attenuanti e si arriva a 15 anni. Da questi bisogna togliere i 3-4 anni in cui l’imputato, in attesa di giudizio, potrebbe rimanere agli arresti domiciliari, e siamo a 11-12 anni. A questo punto si devono ancora sottrarre 45 giorni di detenzione ogni 6 mesi per buona condotta (1 anno ogni 4 passati dietro le sbarre).

Ne restano 8-9, che con l’indulto diventano 6. E anche questi 6 anni non si passano dietro le sbarre, ma in una comoda semilibertà che consente di uscire dal carcere ogni giorno per farvi rientro alla sera, sul tardi, solo per dormire. Leggo queste cifre, mi guardo allo specchio con i miei 10 anni di detenzione alle spalle e altri 20 davanti (pardon, “solo” 17 calcolando l’indulto), poi guardo i miei compagni di reclusione in situazioni simili se non peggiori della mia e penso: qui è necessaria una legge come quella in vigore negli Stati Uniti, in base alla quale se il condannato dimostra di essere stato difeso male ottiene di rifare il processo. E per dimostrare che siamo stati tutti difesi male, anzi malissimo basterebbe presentare a qualsiasi giudice la nostra sentenza di condanna insieme all’articolo di Karen Rubin. A questo punto, per rifare il processo, la scelta sarebbe obbligata: tutti difesi da Stefano Chiodini. E i conti, almeno nel mio caso, sono presto fatti: 30 anni con il rito abbreviato diventano 20, l’avvocato Chiodini, senza neanche sudare troppo, me li fa subito scendere a 15, ne sottraiamo 3 di indulto e fanno 12, dieci li ho fatti più due e mezzo di buona condotta e arriviamo a 12 e mezzo. Non solo dovrei essere scarcerato immediatamente, ma dovrebbero anche rimborsarmi i sei mesi che ho fatto di troppo!

È evidente che sono vittima di una colossale ingiustizia. E non c’è da dubitarne perché, parafrasando ciò che diceva Marcantonio di Bruto, giornalisti e avvocati sono uomini d’onore. Tuttavia qualcosa non mi torna… a meno che non abbiano cambiato il codice penale in gran segreto, comunicandolo solo all’avvocato Chiodini, a quanto mi risulta in Italia la pena massima non è di 30 anni, ma è l’ergastolo. Se si viene condannati all’ergastolo con il rito abbreviato la pena è di 30 anni. E mi meraviglia che la giornalista Karin Rubin non lo sappia, dato che è proprio la pena che è stata comminata ad Annamaria Franzoni per il delitto di Cogne: 30 anni con il rito abbreviato. Lo saprà pure questa giornalista, se non abita su Saturno e scende sulla terra solo ogni tanto, per scrivere un articolo.

Inoltre non è così automatico ottenere il rito abbreviato, il tribunale ha la facoltà di rifiutarlo se ritiene necessario esaminare dei testimoni o far eseguire delle perizie. A me il rito abbreviato è stato rifiutato tre volte, contando la Cassazione. Quanto ai 3-4 anni che uno può trascorrere comodamente a casa propria in attesa che la sentenza passi in giudicato, non c’è quasi nessuno che trascorra tanto tempo agli arresti domiciliari. Di solito, nella stragrande maggioranza dei casi, se il giudice decide di concedere la custodia cautelare agli arresti domiciliari, questa dura sei mesi, massimo un anno e poi, a meno che non siano intervenuti gravi fatti, non viene rinnovata. E poi pressoché nessuno è capace di starsene volontariamente segregato in casa per 4 anni senza cedere alla tentazione di uscire e commettere evasione (pena di 6 mesi).

 

I semiliberi sono sì fuori dal muro, ma il carcere se lo portano sul groppone in ogni istante della giornata

 

Infine il resto dei “conti della spesa” non sono che l’ennesima dimostrazione che sono pochi gli avvocati che capiscono qualcosa di esecuzione della pena, la loro competenza si ferma nell’aula del tribunale. Ma come si può mettere nel conto di una “normalità” penale un provvedimento di indulto che viene concesso, se viene concesso, una volta ogni 15-16 anni? E come si possono dare per scontati i 45 giorni al semestre per buona condotta, quando spesso è sufficiente accendersi una sigaretta nel posto sbagliato, o tappare lo spioncino del bagno mentre si fanno i bisogni per prendere un rapporto disciplinare e non poterne usufruire? E come si può dare per automatica una semilibertà che viene concessa, quando viene concessa, con il contagocce? Oltretutto, quando viene concessa, non si tratta di una “pena finita”, la semilibertà è un percorso pieno di regole e irto di ostacoli che a lungo andare induce spesso una sorta di schizofrenia in chi la sta scontando. Durante il giorno si è fuori dalle mura materiali del carcere, ma la libertà è qualcosa che resta lì, davanti agli occhi, e però non la si può usare. Non si può andare dove si vuole, non si può stare con chi si vuole, non si può usare nemmeno il telefonino, e basta che l’autobus non si faccia vedere al momento giusto che scattano l’ansia e la paura del rientro in carcere in ritardo. I semiliberi sono sì fuori dal muro, ma il carcere se lo portano sul groppone in ogni istante della giornata. E poi, Santo Cielo, come si può negare la realtà dei tanti penitenziari italiani stracolmi di gente con decine di anni di reclusione alle spalle e altre decine da scontare che non rientrano in questi conti della serva?

Però questi dubbi non mi fanno dubitare della competenza dell’avvocato Chiodini (sono un inguaribile ottimista) ed anzi lo invito a esaminare con urgenza il mio fascicolo processuale e quelli dei miei compagni di detenzione. Non tarderà molto a capire dove è stato commesso l’errore (perché se le cose stanno come dice lui l’errore deve esserci) e a farci uscire tutti quanti. Gli pagheremo qualsiasi cifra.

P.S. Se proprio non è possibile farmi uscire, almeno mi si conceda il rimborso per i sei mesi di troppo.

 

 

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