Miccia corta

Una storia di Prima Linea. Quando il passaggio all’omicidio politico è un salto nel vuoto che difficilmente consente possibilità di ritorno

 

recensione di Stefano Bentivogli

 

Sergio Segio, tra i fondatori di Prima linea, in “Miccia corta” descrive una delle azioni più clamorose e audaci della lotta armata in Italia: l’assalto al carcere di Rovigo con cui il 3 gennaio 1982 liberò la sua compagna e altre tre detenute politiche. E parla di quegli anni di “guerra”, e della rinuncia definitiva ad usare le armi, ma anche della scelta di non entrare a far parte della schiera dei pentiti.

 

Quando leggo di Sergio Segio o mi incontro con lui - l’inizio del suo rapporto con la redazione di Ristretti Orizzonti risale veramente a diversi anni fa e tuttora nel nostro “giro” di amici/collaboratori il suo posto è sempre in prima fila - mi rendo conto che è difficile capire il suo impegno attuale, se non si tiene conto del suo percorso politico e personale negli anni ‘70, la lunga detenzione, il ritorno alla libertà. Sì, perché la storia di Sergio, della sua appartenenza a Prima linea sin dagli esordi, e del suo far parte durante la detenzione di quell’area dei prigionieri che non hanno smesso l’impegno sociale, fino a protrarlo oltre la scarcerazione, lo rende interessante a diversi livelli.

Se di questi tempi si parla di Prima linea o di Brigate rosse, ma potremmo aggiungere almeno un’altra decina di sigle, pochi hanno realmente idea di cosa si tratti, si usa dire “terrorismo rosso”, ignorando che spesso all’interno di questa definizione, che coinvolse diverse migliaia di persone, parecchie erano le distinzioni e le divisioni, e che queste si sono nella gran parte dei casi mantenute fino alla disfatta, al carcere praticamente per tutti ed oltre, fino ad oggi, quando, a distanza di trent’anni, si potrebbe invece arrivare ad una rilettura veramente corale di quel periodo.

“Miccia corta” non è una storia di carcere, non di quelle solite storie che ci si aspetterebbe da chi si è fatto venti anni di galera negli anni in cui inventarono le carceri speciali, quando parte delle indagini venivano fatte direttamente sui corpi di giovani rivoluzionari che, una volta catturati, in troppi casi finivano per essere torturati senza pietà. Sugli “anni di piombo” poi è stato scritto ormai veramente tanto, ma Sergio Segio non ha commesso la leggerezza di raccontare l’ennesima versione dei fatti che ormai annoia anche chi ha qualche interesse in queste vicende, e che in realtà non aggiunge niente di eccezionalmente nuovo.

Il racconto di quel 3 gennaio 1982, con l’assalto al carcere di Rovigo e la liberazione di Susanna Ronconi, Marina Premoli, Loredana Biancamano e Federica Meroni diventa l’evento attraverso il quale è possibile raccontare gran parte del resto, e non siamo di fronte a un maldestro tentativo di celebrare momenti politicamente e militarmente formidabili, ma alla narrazione asciutta e precisa dell’epilogo di una sconfitta già cominciata concretamente con lo sfascio delle organizzazioni clandestine e con la delazione dilagante, una disfatta in realtà addirittura già consumata perché il passaggio all’omicidio politico è, scrive Segio, “un salto nel buio e nel vuoto, gravido di conseguenze. Una porta stretta il cui superamento difficilmente consente una qualche possibilità di ritorno”.

Senza entrare nei meandri della discussione e delle scelte che portarono i prigionieri politici, al termine degli anni della lotta armata, a scelte diverse, distinte nelle tre grandi aree del pentitismo, della dissociazione e della irriducibile resistenza, è possibile tra queste persone riconoscere quelle che hanno preso interamente le loro responsabilità e continuano nei modi più diversi un percorso di lotta, senza armi stavolta, e quelle invece che sono sparite nel nulla.

Tanti di questi percorsi di lotta sono continuati proprio nella detenzione, e per alcuni come Sergio sono stati vissuti tra l’incudine dei “Tribunali del popolo” attivi ormai solo nelle carceri, dove non era necessario essere un pentito per venire processato ed ucciso, bastava una voce o un dubbio, e il martello dello Stato. Un martello che in questa situazione giocò cinicamente proprio sulla pelle di quanti, nel loro percorso di accettazione della sconfitta politica e di rinuncia definitiva alla lotta armata, rifiutavano contemporaneamente qualsiasi ipotesi di collaborare con lo Stato e quindi di entrare a far parte della numerosa schiera dei pentiti.

“Gli adepti più fragili restarono invece nell’ottica della “guerra”, trasferendosi dall’altra parte, come pentiti attivi, collaboratori della polizia, e come tali aiutarono a scoprire covi e dirigenze”, scrive Rossana Rossanda, tra i pochi nella sinistra ad avere un occhio attento a quello che stava succedendo dentro e fuori le carceri, in qualche modo intuendo che solo una soluzione politica, non una semplice amnistia come i più cinici sostenevano, avrebbe chiuso gli spazi ad eventuali ritorni di fiamma. Sergio Segio invece dall’ottica della guerra decide di uscire, e di questo ha scritto con assoluta chiarezza: “Se si afferma che la lotta armata ha una valenza strategica, negarne l’attualità solo perché su qualche campo militare si è stati sbaragliati diventa difficile. Perché vi sarà sempre qualcuno, dentro questa cornice, disposto a pensare che si tratti di battaglie, non importa se molte, perse. Non della guerra. Mentre la radice dell’errore stava nella guerra, non nelle battaglie”.

In realtà il dibattito su un periodo della storia del nostro Paese, dove è innegabile sia stata in atto una guerra che troppi non vogliono ammettere, non è ancora concluso, però è certo che dover passare attraverso l’accettazione della sconfitta della logica delle armi si è rivelato indispensabile, non solo per evitare di trovarsi con improbabili eredi fuori tempo massimo, ma anche e soprattutto per poter rilanciare il senso delle lotte per il cambiamento come quella dentro le carceri.

 

Quanto sono inutili le spiegazioni e incapaci le parole di fronte alla morte

 

All’operazione militare raccontata in “Miccia corta”, che mirava solo a far evadere dalla galera delle compagne e a dare un segno di speranza a tutti gli altri che rimanevano dentro, parteciparono combattenti di vari gruppi, una squadra di vecchie conoscenze che si ritrovarono insieme a fare qualcosa di eccezionale. Ma il senso del titolo “Miccia corta” è proprio quello della metafora della sconfitta comunque, perché per quanto fossero state prese tutte le precauzioni per ridurre al minimo il rischio di provocare vittime innocenti, magari mettendo invece a maggior rischio la propria, di vita, in ogni caso una persona morì. “Eppure”, scrive Segio, “avevamo fatto l’impossibile per assicurarci che non succedesse nulla a nessuno. Abbiamo reso molto più rischioso per noi lo schema operativo, allungando i tempi, abbiamo sgombrato la via e bloccato l’intero isolato prima di cominciare, proprio per garantire che nessuno si facesse male. Abbiamo evitato di colpire persino quelli che ci hanno sparato addosso. ‘Evidentemente qualcosa è andato storto, anche se non capisco come possa essere successo’, dico alle compagne... ma mentre parlo mi rendo conto di quanto siano inutili le spiegazioni e incapaci le parole di fronte alla morte”.

Se il varco aperto allora sulle mura del carcere di Rovigo, con tecniche di elaborata guerriglia, pur nel successo militare è inciampato nella sostanziale sconfitta politica e delle coscienze, altri sono oggi i tentativi possibili di aprire varchi nuovi per rompere l’isolamento delle galere, lavorando da dentro e da fuori, e utilizzando armi che non hanno effetti immediati e necessitano di grande pazienza e tempi lunghi. E Sergio, ma anche altri, che di queste storie sono stati i protagonisti e dell’autocritica senza speculazione e doppi fini sono oggi i testimoni, sta a dimostrare, comunque controcorrente, che tra la lotta armata ed il cinico disinteresse esiste ancora la possibilità di credere in un mondo che si deve liberare dal carcere e dalle schiavitù sotto qualsiasi forma, vecchia o nuova, si presentino.

 

A chi è interessato ad approfondire la conoscenza degli anni della lotta armata in Italia, segnaliamo il sito www.micciacorta.it, che cerca di stimolare una riflessione e produrre informazione sui temi trattati nel libro