Editoriale

 

Avanzi di galera: Siamo sempre di più 

 

"Avanzo di galera = Persona moralmente e socialmente degradata e capace delle peggiori azioni", dice il Dizionario della lingua italiana Devoto Oli. Ma da dove arriverà questa espressione, come si può interpretare, che cosa si intende per "avanzo di galera"? Forse gli ultimi degli ultimi, il peggio del peggio della galera? gli avanzi, gli scarti della società che vanno cacciati in galera? i rottami inservibili di chi esce dalla galera?

Nel dibattito sull’amnistia e l’indulto, la sensazione che proviamo è comunque che quasi tutti dicano più o meno così: Non fateli uscire, perché dei rottami, degli avanzi della galera non ne vogliamo sapere. Lasciateli marcire dentro, accatastati l’uno sull’altro, perché fuori ci potrebbero solo dare fastidio.

Ma si può fare qualcosa per cambiare la percezione che la gente, nei quartieri, nei paesi, ha dei detenuti come "persone moralmente e socialmente degradate"? Si può far capire a qualcuno che la sicurezza nelle nostre città si conquista anche dando delle prospettive di vita decente alle persone che usciranno dal carcere? Si può, con fatica, ma noi pensiamo che si possa. Bisogna però che il volontariato si impegni su questo terreno, che metta al centro della sua azione non solo il carcere, ma anche il territorio. E bisognerebbe avere il coraggio di riprendere in mano il piccolo piano Marshall per le carceri, proposto nell’anno del Giubileo da Sergio Segio e Sergio Cusani, ve lo ricordate? L’impegno di centinaia di associazioni e cooperative a dare lavoro e accoglienza ai detenuti, rimessi in libertà grazie all’indulto. Ma a quel piano si dovrebbe dare una concretezza nuova: città per città, dire chi sono e cosa fanno le associazioni e le cooperative in grado di farsi carico di quei detenuti, che un indulto potrebbe mettere fuori di colpo dalle carceri, presentarle, dar loro modo di raccontare il loro impegno.

Rassicurare, spiegare, parlare con la gente "fuori": tutto questo si dovrebbe farlo di più, per ricostruire intorno alle persone detenute un tessuto sociale meno ostile. Recentemente, nel corso di Racconti di vita, una delle poche trasmissioni televisive che sanno trattare i temi del disagio sociale in modo delicato e intelligente, il padre di un ragazzo detenuto ha raccontato che cosa succede in una famiglia con una vita "normale" quando un figlio finisce in carcere: il mondo che ti cade addosso, la paura di affrontare la gente, la sensazione di non avere più un luogo che ti accetta. Un discorso, il suo, capace di toccare la mente e il cuore delle persone, cosa sempre più rara e difficile oggi.

Forse è da ingenui dirlo, ma noi crediamo che il volontariato penitenziario dovrebbe dar voce di più a chi vive direttamente il disagio del carcere: i detenuti e i loro famigliari. Troppo spesso, fuori, ci si ritrova a parlare di carcere tra "addetti ai lavori", bisogna invece tornare ai vecchi tempi "della controinformazione e della sensibilizzazione", non dare per persa la battaglia per cambiare l’idea del carcere che ha la maggior parte della gente, ma farla, questa battaglia, insieme ai protagonisti, a chi può raccontare in prima persona quanto è dura e a volte disumana la detenzione e quanto sono sole e isolate le famiglie dei detenuti.

 

La Redazione

 

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