Non mi è mai interessato di nessuno

Il prossimo non lo consideravo e non consideravo neanche me stesso, tutto era indifferente. Oggi scopro il piacere di saper ascoltare, anche le persone che ritenevo che non c’entravano nulla con me

 

di Lorenzo Sciacca, Ristretti Orizzonti

 

È vero! Ognuno di noi può ave­re una storia dura, una storia pesante, ma è anche vero che tutte le storie possono essere raccontate, perché quello che ti nasce sentendo una storia di una persona è grandioso. Tu saprai un pezzo di quella persona e il più delle volte quel pezzo di vita avrà come racconto momenti di dolore, di sofferenza profonda. Chi narra fa un dono, devi saperlo abbracciare in tutta la sua grandiosità e portartelo sempre nei tuoi ricordi.

Oggi 23 maggio 2014, nel carcere di Padova, si è tenuto il convegno annuale organizzato dalla Redazione di Ristretti Orizzonti di cui, con un senso di fierezza, posso dire che faccio parte. È stato il secondo Convegno a cui ho partecipato, ma solo questa volta capisco cosa c’è dietro alla riuscita di un evento così eccezionale.

Credo che la redazione sia una macchina complessa, ma con una capacità di far crescere le persone in una maniera a dir poco strabiliante. Io non sono lo stesso dell’anno scorso, mi sento di essere cresciuto nello spirito, nella conoscenza di me stesso e per tanti altri motivi che non sono il nocciolo del discorso. Le storie. Solo grazie a loro ho raggiunto una crescita interiore.

Nel pomeriggio, noi della redazione e due donne, che non avevo mai visto prima, ci siamo seduti di fronte agli ospiti (600 persone) per rispondere alle domande, per con­frontarci. Mi chiedevo chi fossero le due donne e, siccome ero seduto vicino a loro, sono riuscito a percepire i loro nomi, Claudia e Irene, ma continuavo a non capire chi fossero. Fino a quando il coordinatore, Adolfo Ceretti, le ha presentate. Lì ci arrivo a capire chi erano, perché in redazione la loro storia era stata oggetto di molti confronti.

Ha iniziato Claudia a raccontare la sua tragica storia e subito le sue prime parole erano coperte dal dolore e dalla sofferenza. Suo ma­rito, Antonio, era un carabiniere e mentre faceva il suo lavoro, dopo aver fermato una macchina con dei ragazzi a bordo, viene colpito alle spalle da Matteo. Matteo è un ragazzo giovane, l’unico maggiorenne del gruppo. Antonio rimarrà in coma per più di un anno per poi morire. La voce tremante di Claudia, le parole che ha usato per descrivere il marito come una per­sona che amava i Giovani, per descrivere quel senso di vuoto che la sua vita ha e ancora subisce, quel cambiamento radicale che questa perdita ha portato nella sua vita, sono state toccanti. Sono riuscito a percepire quell’enorme mancanza d’aria che causa un dolore eterno come il suo. Per me stare lì davan­ti a tutte quelle persone, con la testa bassa per paura di far vedere la commozione sul mio volto, è stata dura.

Finito il racconto di Claudia, Ire­ne ha raccontato la sua di storia, la storia vissuta con gli occhi della mamma di Matteo. Indescrivibile. Una madre che chiede perdono al figlio per quell’evento che ha cam­biato la vita a due famiglie, una madre che trova una forza straordinaria per scrivere una lettera a Claudia, forse per cercare quel perdono per il dolore che la sua famiglia le ha recato, parole per cercare di riconciliarsi con se stessa e con quella donna estranea. Poi quelle due donne si sono ritrovate per fondare una associazione assieme. Non ho trovato nelle parole di Claudia nessun desiderio di vendetta, ma il desiderio di capire un gesto del genere, di non voler buttare via nessuno, di dare un’altra possibilità a quel ragazzo che le ha cambiato la vita, di riconciliarsi con la famiglia di Matteo. Tutto questo è stata una lezione di vera riconciliazione.

Per questo all’inizio ho scritto che le storie, anche se sono storie dure, sono un dono, vanno percepite come tale, solo così puoi dargli la giusta importanza.

È doveroso da parte mia ringraziare Claudia Francardi e Irene Sisi perché è grazie alla loro storia che io oggi raggiungo una consapevolezza in più. Oggi percepisco il dolore eterno che le vittime provano di fronte a dei reati. Oggi apprendo, dalle loro parole, il vero senso della riconciliazione.

Grazie di tutto cuore, perché se io oggi ritengo di essere un altro uomo, è solo per merito di tutte le testimonianze che ho sentito nar­rare nella Redazione di Ristretti Orizzonti. Grazie.

 

Oggi scopro il piacere di saper ascoltare

 

È difficile descrivere un convegno come quello dedicato a “La Verità e la Riconciliazione”, perché andare alla ricerca delle parole per descrivere qualcosa che ritieni indescrivibile per l’emozione, per i sentimenti che ti ha lasciato, è dura.

È un anno che faccio parte della Redazione e oggi mi guardo di fronte a uno specchio e mi trovo diverso, cambiato nel profondo, mi fa paura questo cambiamento così radicale, ma sono contento perché riesco a dare un senso a cose che ritenevo fossero banalità.

Non mi è mai interessato di nessuno, il prossimo non lo consideravo e non consideravo neanche me stesso, tutto era indifferente. L’indifferenza è uno dei sentimenti che con il passare degli anni ti devasta, ti demolisce in maniera prepotente. Oggi scopro il piacere di saper ascoltare, anche le persone che ritenevo che non c’entravano nulla con me. Tutti sono in grado di lasciarti qualcosa, tutti ti possono regalare emozioni nuove, emozioni che ti segnano: come ritrovarsi in una palestra con centinaia di persone attorno e fermarsi in disparte e osservarle ricordando che tu fino a pochi anni fa avresti sputato sentenze per loro, perché credevi che riconciliarsi non era possibile, e invece, oggi, osservarle con occhi di speranza, uno sguardo anche d’invidia, ma non perché tu sei prigioniero e loro liberi, NO, non per quello, ma perché capisci che attorno a te non hai mai avuto nemici. Tutte quelle persone non sono mai c’entrate niente con quello che io sono diventato, sono quello che ho voluto essere, avrei potuto essere dall’altra parte, dovevo solo fare scelte diverse.

Io non so mai, quando parlo, se riesco a comunicare, ma è troppo bello ritrovarsi di fronte a delle persone a riconoscere quello che sei stato per far capire quello che vuoi diventare. L’imbarazzo iniziale scompare dopo le prime parole, perché credi in quello che stai dicendo e c’è passione in quello in cui tu credi. Donarsi agli altri è indescrivibile, il piacere che ti dà è paragonabile allo stesso piacere che provoca ascoltare le storie di compagni e di estranei. In tutte le storie ritrovo qualcosa che for­se nel mio vissuto non avevo mai pensato di avere. In una storia c’è sempre un piccolo passaggio che ritrovi, un qualcosa che ti rispecchia, e quando quella cosa la percepisci la fai tua.

Pur essendo carcerato e con un fine pena lungo, sono felice, sono contento di quello che sto diventando, spero solo che le persone possano credere che noi detenuti siamo in grado di ripensare quello che siamo stati e pensare a quello che, con enormi sforzi, vogliamo essere.

 

 

 

 

Non ci sono mostri, né bestie, né cattivi bambini o ragazzi

Dobbiamo liberarci delle etichette, perché ci annebbiano la vista, ci rendono insensibili alle sfumature, ci fanno credere di aver raggiunto LA verità, allontanandoci dalLE verità

 

di Elisa Nicoletti, volontaria

 

Oggi, come ormai solo una volta all’anno mi succede, ho passato mezza giornata “ristretta”.

Ho ascoltato – dentro –, storie e interventi che mi hanno emoziona­ta, arricchita, incuriosita e, in vari momenti, anche commossa.

E sono uscita – fuori –, nel mio mondo “libero”, con in testa la parola “verità”.

Ad essere precisi non “LA verità”, ma piuttosto “LE verità”.

Cambia solo una lettera, un articolo apparentemente insignificante, ma che fa la differenza, o almeno la fa per me.

Non credo, infatti, che la verità sia assoluta, oggettiva, certa e infallibile.

Credo, al contrario, che ci possano essere più verità: più sguardi, pensieri, agiti, punti di vista.

Quando i bambini e i ragazzi con cui lavoro litigano, la prima cosa che noto è come ciascuno porti subito con forza la SUA verità.

“Non è colpa mia”, “è lui che ha iniziato”, “dicono o fanno così perché ce l’hanno con me”… ognuno tenta di difendere coi denti la SUA verità e di ribadirla, di modo che sia resa assoluta, certa, vera appunto.

Se cerco di ricostruire le vicende per capire chi dice davvero la verità e stabilire chi ha torto e chi ha ragione, non ne vado fuori e, da una parte o dall’altra, ci perdo (e ci perdiamo) sempre.

Solo se permetto a tutte le verità di aver voce e di ascoltarsi a vicenda, mi sembra che si aprano delle possibilità interessanti.

Perché solo così le persone che stanno dietro a quelle verità si sentono riconosciute.

E a quel punto non hanno più bisogno di trincerarsi dietro al muro della “propria verità”.

Mi piace, nonostante sia molto faticoso e non sempre fattibile, provare a gettare ponti (o a volte anche solo passerelle), aprire vie di ascolto e comunicazione, accogliere le ragioni di ciascuno, per svelargli quelle dell’altro.

E arrivare, magari, a conoscere anche le storie che stanno dietro, sullo sfondo, a volte nascoste, ma desiderose di attenzione.

Non mi interessa, invece, definire dall’alto chi ha ragione e chi ha torto; certo, alcune volte va fatto, ma quando si riesce ad andare oltre, si respira una brezza fresca, che allontana le tensioni e fa sentire tutti più leggeri.

Quando, dopo un litigio, due bam­bini riescono a guardarsi negli occhi e a percepire quello che provano, a volte anche senza troppe parole di sottofondo, allora la ricerca assidua della verità dei fatti scompare e lascia il posto al riconoscimento dell’altro, con le sue verità, o anche con le sue mezze-verità o a volte menzogne.

Credo che occasioni di confronto di questo tipo siano cariche di una forza dirompente ed emozionante: quando si riesce a mettersi, per un istante, nei panni degli altri, o anche solo a percepire come stanno per davvero in quel momento, si aprono mondi e possibilità nuovi e a volte inimmaginabili.

Se, invece, ognuno resta nel “suo mondo”, tende a costruirsi una corazza sempre più resistente, una verità sempre più sicura, intoccabile. E, per portarla avanti e non farla vacillare, deve fare di tutto per scuotere e far crollare quella dell’altro.

Io, però, penso che nessuno debba crollare per arrivare ad una verità.

Bisogna mettersi a nudo, sgrovigliare le luci e le ombre, non venendo però mai privati della propria dignità umana.

Anche chi ha sbagliato deve potersi sentire riconosciuto dagli altri come individuo che prova emozioni e deve avere la possibilità di esprimerle.

Non ci sono mostri, né bestie, né cattivi bambini o ragazzi.

Dobbiamo liberarci delle etichette, perché ci annebbiano la vista, ci rendono insensibili alle sfumature, ci fanno credere di aver raggiunto LA verità, allontanandoci dalLE verità.

Categorizzare, da sempre e oggi sempre di più, risulta la scelta più facile, perché le dicotomie ci fanno sentire sicuri: bianco-nero, giusto-sbagliato, buono-cattivo, vero-falso…

Ma così ci perdiamo le sfumature di grigio (e non solo), che possono svelare delle verità estremamente utili e interessanti, rivelando storie cariche di un’umanità che abbatte ogni fortezza e avvicina anche chi crede di apparte­nere a mondi separati e lontani anni luce.

 

 

 

 

Alimentare il bene per svelenire il male

 

di Adriana Lorenzi, docente presso l’Università di Bergamo,

conduce laboratori di scrittura nelle carceri

 

Lavorando in carcere, s’impara presto a capire che la pena finisce, ha un mandato a termine: le persone detenute tornano prima o poi - anche molto poi - in libertà e riprendono a essere i nostri vicini di casa, i nostri compagni di viaggio sui pullman cittadini e sui treni statali. La pena ha una fine. E a questa considerazione segue una domanda fastidiosa come una puntura di zanzara: quale è il fine della pena? Il cambiamento, la trasformazione possibile durante la detenzione si gioca interamente nella capacità di trovare una risposta a questa domanda. Il carcere serve a ferma­re il male che qualcuno sta com­mettendo e subito dopo può diventare un’Università del crimine, un corso accelerato per alimentare la rabbia, la voglia di vendetta e di rivalsa nei confronti della società che lo ha condannato e di un Ordinamento penitenziario che lo rende vittima delle condizioni in cui vive.

Da anni cerco la risposta a questa domanda con la redazione di Alte­rego nel carcere di Bergamo e mi aiuta frequentare i convegni di Ristretti Orizzonti al Due Palazzi di Padova, perché loro - Ornella Favero con i redattori interni ed esterni al carcere – incarnano la risposta. Loro sono un esempio concreto, tangibile di quale debba essere il fine della pena e quest’anno l’han­no messo nel titolo del loro convegno: Verità e Riconciliazione. Parole scritte a lettere cubitali su uno striscione di fronte a noi, il pubblico, e alle spalle del banco dei relatori e delle relatrici a indicare la meta delle nostre azioni e i presupposti delle loro riflessioni.

Un’occasione per ricordare Nelson Mandela - i suoi aforismi e le sue azioni, i suoi 27 anni di prigionia e la sua più grande convinzione quella di alimentare il bene per svelenire il male e quindi ogni forma di violenza - ma anche per sottolineare che senza fare i conti con quello che è stato nel passato non si può costruire niente di buono, e di diverso, nel futuro. La verità è un percorso personale, introspettivo e retrospettivo, che mira a ricomporre ciò che il reato ha infranto: la quotidianità, il patto con la società, le relazioni affettive. Mentre la riconciliazione è un percorso sociale, pubblico che chiede un’esposizione al cospetto di altri, un confronto continuo con i punti di vista altrui per mettere tra parentesi il proprio.

Il convegno è sempre un punto d’arrivo di un lavoro che dura un anno, ma che conta su tutto quello che è stato fatto negli anni precedenti, nelle infinite riunioni reda­zionali, negli incontri impegnativi fino all’estenuazione con gli studenti nelle scuole e in carcere. Anche questo insegna il convegno di Padova: non c’è verità né riconciliazione senza fatica, impegno, scambi tra esterno e interno, tra vittime e colpevoli di reati.

Come ha detto Elton ad apertura del convegno “ascoltare il dolore degli altri diventa un percorso di maturazione che non può che passare attraverso gli incontri con gli altri”. A Elton il carcere ha portato via 14 anni di vita insegnandogli solo “a sopravvivere, a indossare la maschera della mascolinità per non apparire debole, a dimostrare che ‘sono come tu mi vuoi’”. Lui ha saputo far fruttare le possibilità di scuola e lavoro per dare un senso alla detenzione. Non smetto di guardare con soddisfazione lui che, dopo aver scontato la sua pena, torna in carcere come volontario grazie all’articolo 17 per continuare le riunioni redazionali e partecipare ai momenti più pubblici.

Il convegno è sempre una tessitu­ra sapiente che intreccia tanti fili: quello delle relazioni degli esperti rispetto alla materia proposta da un punto di vista storico, giuridico, giornalistico, filosofico e quello delle testimonianze dei detenuti di Ristretti Orizzonti e di altre persone. La tessitrice è Ornella che pretende silenzio dal pubblico perché il tema è scottante, perché le parole vogliono essere rivelatrici, perché il detenuto è chiamato a dire il peggio di sé e pretende in cambio almeno il rispetto che passa attraverso il silenzio. Gli interventi si aggiungono l’uno all’altro per approfondire e allargare gli orizzonti: sono come sassi gettati nell’acqua della nostra attenzione che si rompe in tanti cerchi concentrici.

Ed è Adolfo Ceretti che offre a ogni relatore il filo del suo racconto e piano piano prende forma sulla tela quel disegno che ciascuno si porterà a casa a convegno finito, a testimonianze raccolte, a suggestioni evocate.

Marcello Flores ha parlato, con la passione di chi ha ascoltato in Sudafrica le ultime sedute della Commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita da Nel­son Mandela e Desmond Tutu, dei punti salienti di una pratica di ascolto delle vittime della violenza dell’apartheid, per trovare una qualche forma di pace e di ricomposizione delle ferite inferte agli uomini e a un’intera terra. Si devono raccontare tutti i crimini commessi in una dimensione pubblica perché la riconciliazione è un problema collettivo. 7000 le richieste di amnistia e 1500 quelle accolte. In sette volumi sono state raccolte le testimonianze di violenze, comprese quelle compiute dai combattenti della libertà e poi pubblicate per dare “voce alle vittime”, ma anche per ribadire che “tutti i crimini sono uguali” e che è possibile superare quello che è successo solo se si è consapevoli collettivamente di quello che è successo.

Può accadere che un uomo, come Roverto, stia scontando una pena da innocente, perlomeno di quel reato per il quale è stato condannato mentre si assume la responsabilità di altri.

Succede anche che qualcuno non sappia ancora chi sia il colpevole di una strage: Carlo Arnoldi è il figlio di una vittima della bomba messa a Piazza Fontana il 12 dicembre 1969 e ora è presidente dell’Associazione che ricorda le vittime di quella strage e s’impegna a ricordare i loro nomi ripetendoli ad alta voce ogni 12 dicembre e ogni 9 maggio perché nessuno di loro è un numero, ma ha un nome che non è andato perduto con la sua morte per strage.

Così come ogni detenuto non è un reato che cammina, ma un nome: stringo la mano a Bruno che mi accoglie a ogni convegno e mi chiede come stia andando a Bergamo, saluto Sandro che mi rimprovera di non andare più a trovarli, Dritan che mi fa sedere accanto alla figlia e al compagno di lei precisandomi con orgoglio “è un ragazzo bravissimo” come a dire che è degno di Suela, la luce dei suoi occhi. E ascolto Lorenzo raccontare il passaggio dalle passioni tristi - una vita votata alla delinquenza e 30 anni di carcere definitivo - a quelle positive, quando ha scelto la redazione in carcere, la scrittura e il confronto con gli altri.

La giornalista Bianca Stancanelli sostiene con forza che la verità dei fatti, tanto cara al giornalismo, è un’illusione: “la verità è un racconto, se cambio il racconto, i fatti cambiano, dicono un’altra verità” e fa esempi di articoli dedicati all’incendio delle baracche dei Rom a Livorno dove muoiono quattro bambini o alle violenze subite da una ragazzina a Montalto di Castro che alimentano i pregiudizi del pubblico lettore perché sono i titoli e i pezzi che inducono approssimative valutazioni. E ci ha ricordato l’affermazione di Einstein: “è più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio”.

A Diego De Leo il compito di narrare la verità della sofferenza più terribile, quella legata a un fatto inaccettabile, ‘contro natura’ come lo è la morte di un figlio, nel suo caso di entrambi i figli, in un incidente stradale. Un trauma quello vissuto da lui e dalla moglie che all’inizio li ha chiusi dentro la rabbia che prova la vittima di un’ingiustizia, poi in una bolla d’irrealtà incapaci di fronteggiare l’accaduto, in seguito in quella più magica, la bolla che regala l’illusione di poter sentire, vedere, quasi toccare le persone care scomparse, inducendole a ricercarle lungo le strade del parapsicologico. Infine si apre - se si apre - la fase dell’accettazione di una morte che ha tolto insieme ai figli il senso della propria identità. Così, insieme ad altri amici, ha creato una Fondazione per stare accanto a chi ha subito un trauma simile. Forse si può cambiare di segno al trauma trasformandolo in dolore che non si cancella, né si dimentica, ma porta un po’ di conforto e anche soccorso a chi vive una situazione così tragica e ha bisogno di parole autentiche, non dettate dalla tecnica ma dalla competen­za costruita sull’esperienza vissuta, patita e rielaborata. Non c’è verità né riconciliazione che non passi attraverso un lavoro di meditazione, di decantazione.

Ogni voce ascoltata ha cercato di promuovere la pratica dello scambio di esperienze che si pone quale eco-centrica per dirla con Elisa­betta Musi: ciascuno alla ricerca di parole misurate e prudenti per rac­conti imprevisti e anche toccanti.

In fondo questo sono stati gli interventi dei redattori di Ristretti Oriz­zonti che ogni tanto non trovavano le parole per troppa emozione e avevano bisogno di riprendere fiato imparando, e insegnandoci, la fatica che si fa a stare in equili­brio tra le tante parole che frullano in testa e sembrano così “belle”, come ha detto Paolo, e quelle che si riescono davvero a dire di fronte allo sguardo altrui. A questo in fondo servono i convegni, a portare in pubblico il tanto masticato in percorsi di riflessione, discussioni in redazione, e a mostrare gli uomini che li hanno fatti.

Sono “i pezzi di umanità” che spesso mancano dentro le Istituzioni e i sistemi più consolidati come quello penitenziario: Duccio Scatolero, criminologo, ha parlato di conciliazione, senza il prefisso “re”, di costruzione di legami tra la società esterna e quella interna al carcere come quelli che lui ha cercato di attuare nel carcere minorile di Torino.

Se si tocca con mano il carcere che è fatto di muri, celle, corridoi e uomini che circolano all’interno, si può almeno avvicinarsi al significato di vite condannate a vivere lì dentro per un reato commesso, ma che hanno diritto di avere salva la dignità di persone.

Se la società delega al carcere il compito di rieducare i detenuti, allora è il carcere che deve dare visibilità al suo compito portato, o meno, a compimento. È il carcere che può educare la società a considerare il male e a non nasconderlo, a curarlo, spingendolo verso il bene. E può farlo perché in carce­re qualcuno è riuscito davvero a spezzare la catena di quel male, assumendosi la sua parte di colpa e investendo su una seconda possibilità di vita. Il carcere educa a considerare che il male e il bene sono perennemente presenti dentro di noi e guidano le nostre azioni: a noi il compito di controllare le forze del male e sviluppare quelle del bene così come ha fatto Giovanni Bachelet che al funerale del padre Vittorio ucciso dalle Brigate Rosse nel 1980 aveva voluto pregare per chi aveva colpito a morte suo papà e perché ci fosse sempre il perdono e mai la vendetta.

A chi lavora in carcere il compito di rendere vivibili alcune condizioni che, sorte da un’emergenza come il 41 bis, sfiorano l’incostituzionalità, l’inumanità come ci ha raccontato Andrea Pugiotto, docente di Diritto costituzionale.

Poi si è aperta una sezione del convegno che mi ha molto colpito, emozionato come la scena che in un libro si staglia sopra alle altre o l’aneddoto in una storia. Frammenti che scheggiano la mente e anche la pelle per sempre.

Ho ascoltato le testimonianze di due donne, Claudia Francardi e Irene Sisi: alla prima è stato ucciso il marito, il carabiniere Antonio Santarelli, da un giovane Matteo Gorelli che lo ha colpito con un bastone a un posto di blocco. La seconda è la madre di Matteo. Claudia piangeva nel raccontare la sua storia di vedova bianca per un anno, il periodo nel quale il marito è rimasto in coma prima di morire, e il suo passaggio dal rancore al dolore che ha definito stato di grazia da spendere bene perché le è costato tanto raggiungerlo.

Irene ha dovuto perdonarsi e perdonare a Matteo per decidersi a scrivere una lettera di scuse a Claudia, accettando il rischio di ricevere in cambio le “peggio cose” per diventare gli occhi di Matteo e registrare le conseguenze del suo gesto, il dolore degli altri e una condanna prima all’ergastolo, poi a 30 anni e infine a 20 di reclusione.

Due donne piegate dal dolore per un evento inaccettabile e imperdonabile si sono incontrate, parlate per capire e far capire ad altri giovani come Matteo la pericolosità di un rave, dell’abuso di sostanze e delle ripercussioni che hanno certi atti. Hanno dato vita a un’Associazione, AmiCainoAbele e vanno nelle scuole e raccontano la loro vicenda di rabbia, rancore, disperazione e ora di riconciliazione per far spurgare la loro ferita e dare un senso all’accaduto.

È stato ascoltandole e anche commuovendomi alle loro parole che mi sono ritrovata a pensare una volta di più a quanto e come il carcere possa educare la società.

I detenuti sono il possibile: il possibile reato, quello che ciascuno di noi potrebbe in condizioni analoghe vivere. Penso all’impulso che fa uccidere, all’attimo che ti fa sbandare in auto uccidendo un pedone senza fermarti a soccorrerlo o il giro dello spaccio per chi comincia a usare e poi ad abusare di sostanze e non riesce a chiedere un aiuto ad altri, ma anche alla fame e alla disperazione che ti induce a fare il mai pensato prima. I detenuti dimostrano che è possibile sbagliare e delinquere.

Nonostante il carcere, se funzionano certe condizioni d’impegno, scuola e lavoro, la detenzione realizza quello che viene considerato ‘impossibile’ dalla società esterna: il cambiamento dei soggetti condannati. La loro rieducazione e ri­socializzazione: la costruzione di una seconda possibilità.

Il reato è quello che è stato; il car­cere è quello che è; una redazione - impegno, lavoro, incontro con altri - è investimento su quello che sarà.

La macchina ben oliata del convegno al Due Palazzi dimostra quello che viene considerato utopistico (l’utopia è quello che non si è ancora realizzato e non quello che non si realizzerà mai): i detenuti hanno ripensato alle loro storie personali e le hanno connesse dentro un disegno di Verità e Riconciliazione che non mira a rinnegare il passato, piuttosto a disincagliarlo dalla palude di quello che è stato e prendere il largo.

Nel romanzo Madre piccola dell’italo-somala Cristina Ali Farah, una donna racconta la storia del figlio snaturato che abbandona il padre anziano e cieco sotto un albero, accanto a un termitaio perché gli pesa prendersene cura e lo lascia lì a morire. Il figlio snaturato, una volta diventato vecchio a sua volta, viene condotto dal proprio figlio sotto l’albero accanto al termitaio. Quando capisce cosa lo aspetta, chiama a sé il figlio per assolverlo e congedarlo con la sua benedizione. L’ex-figlio snaturato assume su di sé il peccato e libera il figlio dalla colpa: “Questo è il senso della storia: non quello che vedono tutti, che i vecchi vanno rispettati se si vuole essere rispettati da vecchi, ma che il cerchio va spezzato, che bisogna avere il coraggio di perdonare e di rompere il circolo”.

Non è facile usare un verbo come ‘perdonare’ in carcere perché ogni reato ha lasciato dietro di sé delle vittime. Grazie a Jacques Derrida sappiamo che per il senso comune il perdono può essere accordato a due condizioni: se viene domandato esplicitamente o implicitamente e se il crimine commesso non è troppo grave, ossia quando non supera la linea del male radicale. Il perdono deve restare tra uomini, alla misura dell’umano. Eppure Derrida afferma che il perdono prende senso solo laddove esso è chiamato a fare l’impossibi­le e a perdonare l’imperdonabile. Il perdono, se ce n’è uno, deve e può perdonare solo l’imperdonabile, l’inespiabile e quindi fare l’impossibile. Perdonare il perdonabile, il veniale, lo scusabile, ciò che si può sempre perdonare, non è perdonare.

Le testimonianze - dei colpevoli di reato come delle vittime - che a ogni convegno Ristretti Orizzonti ci offre, ospitano l’impossibilità e la fanno avvenire.

Il fine della pena sta nella trasformazione delle persone: da irresponsabili a responsabili di quanto commesso; da soggetti irrelati a soggetti che costruiscono relazioni con i compagni e con le figure che passano dalla redazione e in particolare con i giovani per far capire loro cosa significhi oltrepassare la linea della legalità.

Il fine della pena sta in un carcere che riesce a realizzare momenti come quelli di un convegno al quale è invitata la società esterna, che può toccare con mano quan­to e come si lavori a dispetto delle condizioni di vita del carcere.