Tortura e detenzione

Alcune prime riflessioni a margine del caso Asti, dove nella Casa circondariale si sono verificati eventi definiti di vera e propria tortura

 

di Pietro Buffa, Provveditore dell’Amministrazione

penitenziaria per il Triveneto e l’Emilia-Romagna

 

Due anni fa un Giudice, ad Asti, ha accertato eventi che sono stati definiti di vera e propria tortura, avvenuti all’interno della Casa circondariale di quella città. Il giudizio si è con­cluso senza la condanna dei re­sponsabili in ragione del fatto che in Italia manca una norma specifica.

A seguito di questa decisione e di questi eventi, oggettivamente cristallizzati in una sentenza, si sono scatenate una serie di reazioni che mi hanno molto colpito, sostanzialmente per due motivi. Il primo. Conosco quel carcere essendo stato il primo di cui io ho assunto la direzione ormai molti anni fa, così come conosco bene una parte delle persone coinvolte. La seconda questione che mi ha stimolato è la grande diversità di reazioni che ci sono state e un certo livello di superficialità che le ha caratterizzate.

Raccogliendo lo stimolo di Claudio Sarzotti, professore universitario che da sempre si occupa di questioni penitenziarie, tanto da collaborare attivamente anche in Antigone, ho accettato l’invito, un anno dopo la sentenza e proprio ad Asti, per tenere una relazione il cui integrale sviluppo è in corso di pubblicazione sui Quaderni dell’Istituto Superiore di Studi penitenziari, e di cui oggi vi rendo alcuni tra gli elementi essenziali,

La prima riflessione, che premette tutte le altre, chiarisce il fatto che cercare le cause di episodi quali quelli in discussione non significa giustificare o rendere moralmente accettabili tali eventi.

È una premessa necessaria a scanso di eventuali critiche in tal senso, ed è stata svolta in molte altre circostanze da Autori che si sono peritati di approfondire la conoscenza e la comprensione di avvenimenti molto più gravi e molto più estesi di quello astigiano. Hannah Arendt1, che si era posta un obiettivo di questo genere al processo di Eichmann a Gerusalemme, ha dovuto sottolineare lo stesso principio.

Così anche Zimbardo2 che, nell’ormai famoso esperimento di Stanford finalizzato all’analisi delle dinamiche carcerarie, ha dovuto dedicare alcune pagine della sua opera per sgombrare il campo da una delle possibili critiche che vedono in questi approfondimenti il rischioso tentativo di giustificare i comportamenti violenti oggetto di studio. In realtà mutuo e concordo con le sue parole laddove sostiene che “solo esaminando e comprendendo le cause di quel male saremo forse in grado di modificarlo, di tenerlo a freno, di trasformarlo con decisioni sagge e con un’azione comune innovativa”. Questo è il motivo che mi ha spinto a studiare le dinamiche dei fatti di Asti, partendo dalla sentenza del giudice Crucioli assunta quale descrizione dei fatti.

 

Riassiumiamoli brevemente.

Il 10 dicembre del 2004 due detenuti aggrediscono un assistente operante nella loro sezione.

 

“la mostruosità è la prima e la più efficace delle vie di fuga dall’orrore per il cosiddetto male assoluto”

 

Nell’immediatezza dei fatti i due vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri, nonostante il freddo dovuto alla stagione, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello. Nei giorni successivi gli viene razionato il cibo, impedito di dormire, vengono insultati, e a uno dei due, in particolare, gli viene anche strappato il codino. Vengono sottoposti a percosse quotidiane, anche per più volte al giorno, con calci, pugni e schiaffi in tutto il corpo, giungendo anche a schiacciargli la testa con i piedi.

Le violenze continuano per alcuni giorni, più volte al giorno, per un periodo che l’accertamento processuale fa oscillare tra il 10 e il 16 o il 29 dicembre.

Questi i fatti, di fronte ai quali ci sono due sostanziali possibilità interpretative. La prima fa riferimento ad un approccio di tipo disposizionale. L’analisi riporta i fatti e le dinamiche alla disposizione della persona che le ha commesse, si fa riferimento quindi a presunte malvagità, crudeltà, perversioni di fondo o disturbi psichici propri dell’autore del gesto. In sostanza è la ricerca e l’individuazione di un mostro. Secondo Zimbardo “la mostruosità è la prima e la più efficace delle vie di fuga dall’orrore per il cosiddetto male assoluto”. È quella più semplice, quella di individuare nell’individuo la completa responsabilità del fatto, facendone un diverso da noi. È un modo rassicurante per escludere che questo genere di cose non riguardi la normalità e la nostra quotidianità. In molte delle reazioni successive all’emergere dei fatti in discussione, nel corso del processo e, soprattutto, a seguito della sentenza ho colto questo tipo di spiegazione che culmina, generalmente, con la proposta di inserire, quale deterrente, una fattispecie penale specifica.

Dichiaro subito che questa posizione non mi pare completamen­te soddisfacente né in prospettiva efficace.

Non ho ovviamente nessuna difficoltà a pensare che un’integrazione del Codice Penale in questi termini possa essere utile, ma, come ho avuto modo di dire anche in altre circostanze, non è che si possa sostenere che l’attuale Codice Penale non preveda già fattispecie e strumenti utili per la sanzione di fatti di questo genere. D’altra parte l’effetto deterrente di una norma è un argomento ampiamente dibattuto ed è evidente a tutti che, da sola, la previsione normativa non è sufficiente ad evitare il verificarsi di reati. L’omicidio è previsto e sanzionato pesantemente ma questo da solo non è sufficiente ad evitare un certo numero di casi l’anno. Evidentemente la risposta non può essere solo di tipo formale e giuridico. Occorre, viceversa, en­trare dentro le questioni per capirne i motivi scatenanti, la dinamica dei fatti e la loro concatenazione, lo scenario in cui avvengono i fenomeni.

Per questo motivo sembra più interessante il secondo approccio presentato da Zimbardo, quello che egli definisce situazionale al fine di sottolineare l’importanza di approfondire non solo le caratteristiche individuali ma queste inserite in un cointesto denso di influenze ed implicazioni relazionali e percettive, tali da sollecitare risposte e comportamenti addirittura non prevedibili.

Secondo Zimbardo, pur non negando l’elemento individuale e la sua portata, ammettere la vulnerabilità del singolo alle forze situazionali, cioè, alla dinamica del contesto in opera, è il primo passo per aumentare le resistenze alle influenze nocive, per sviluppare strategie efficaci per rinforzare la resilienza delle persone e della collettività. Secondo questo Autore tutti noi siamo tendenzialmente e naturalmente portati a pensare che noi ci comporteremmo in modo diverso, in qualunque circostanza data. Ma così non è o, almeno, non è affatto detto. Prendere atto del fatto che c’è una potenziale vulnerabilità implica l’inizio di un percorso di prevenzione individuale e collettiva. In maniera efficace conia uno slogan particolarmente accattivante che ci invita a passare dalla metafora della mela marcia a quella del cattivo cesto, a significare la necessità di trasmigrare da un approccio focalizzato sulla ricerca e l’individuazione di un essere mostruoso ad uno che tiene viceversa conto dell’ambiente anche più allargato rispetto a quello in cui si registrano violenze di questo genere.

Secondo questa prospettiva l’analisi si deve sviluppare su tre livelli distinti ma interconnessi. Innanzitutto il livello del Sistema, che rappresenta l’ambito più generale; quello della Situazione rappresenta il contesto in cui avvengono i fatti; l’ultimo livello da esaminare è quello delle Persone direttamente o indirettamente protagoniste. Il sistema includerebbe sia la situazione che le persone, ed è quello più permanente e diffuso: comprende vasti circuiti di persone, le loro aspettative, le loro norme, le loro politiche, le loro leggi. Giunge ad avere un fondamento storico, una struttura di potere politico ed economico che governa ed orienta il comportamento di molte persone che rientrano nella sua sfera di influenza. Quest’ultima è veicolata attraverso canali e messaggi che forniscono legittimazioni ideologiche, imperativi morali, programmi politici presentati come buoni e virtuosi. La situazione, l’ho detto, è il contesto situazionale che influenza il genere umano nell’immediatezza. E poi c’è la persona con riguardo al suo sistema di adattamento, alle sue resistenze, al suo sistema di difesa.

La cosa che più mi ha colpito e mi ha convinto a scegliere tale approccio per l’analisi delle circostanze in questione è il fatto di aver riscontrato, nella lettura della sentenza e l’approfondimento di alcuni testi che hanno analizzato fatti analoghi, la sovrapponibilità di molte delle dimensioni di tali vicende, seppur appartenenti ad epoche storiche, luoghi e persone molto diverse. Zimbardo conduce il suo esperimento negli anni 70 a Stanford e oltre trent’anni dopo si occupa, come consulente tecnico della difesa, delle vicende e dei comportamenti di un sergente implicato nelle torture perpetrate nel carcere di Abu Ghraib. Browning3, da parte sua, ha studiato il comportamento del 101° battaglione di polizia militare durante il secondo conflitto mondiale in Polonia. Il suo libro si intitola “Uomini normali“ per sottolineare il fatto che quel reparto non fosse composto da convinti assertori delle tesi naziste bensì era un semplice battaglione di polizia della riserva, composto da uomini di mezza età, gente che nella vita normale facevano i bottegai e gli impiegati di banca, e che in 18 mesi sono riusciti a uccidere 32.000 ebrei e deportarne altri 48.000 a Treblinka. Ebbene le descrizioni di Zimbardo e Browning e le dinamiche riportate nella sentenza di Asti sono assolutamente sovrapponibili. Il modello è lo stesso: l’innesco, il processo, le responsabilità, i comportamenti, gli atteggiamenti sono assolutamente riprodotti seppure in contesti storici diversi nel tempo, nella gravità, nell’estensione, nella cultura delle persone coinvolte. Questo lascerebbe pensare che il situazionismo sia la chiave di lettura migliore per comprendere e quindi per agire su questo tipo di fenomeni.

Torniamo quindi agli elementi che Zimbardo ci indica quali dimensioni analitiche essenziali e, in particolare, al sistema. Credo che per introdurre gli elementi più importanti del sistema che attualmente permea la vita contemporanea non si possa non fare riferimento alle riflessioni di David Garland. Tra l’altro questo Autore evidenzia come il nostro contesto sociale sia ormai fortemente impregnato di una paura essenziale, che è la paura del crimine, dell’aggressione dello straniero e del diverso. Molte delle cose che noi viviamo tendono a facilitare la costruzione rispetto cui focalizzare le nostre paure e frustrazioni.

Tra gli effetti di tale tendenza alcuni hanno investito il campo giuridico al punto da far teorizzare la creazione e l’esistenza di un vero e proprio diritto penale del nemico, che non punisce per il reato commesso ma per il pericolo che quell’individuo o quel gruppo percettivamente costituisce per l’ordine sociale. Una citazione semplice è immaginare che cosa è stata la normativa penale in materia di immigrazione clandestina in questo Paese. Ma parlare di diritto penale del nemico significa introdurre anche il concetto e la pratica di non persona giuridica. Jakobs arriva a sostenere che, attraverso tale concettualizzazione, si giunge a configurare persone che stanno fuori dal diritto sulla base di una semplice considerazione: chi viola il patto sociale è fuori dal patto sociale, ma se è fuori dal patto sociale a lui non si deve il rispetto dei diritti che invece riconosciamo alla cittadinanza. Questo significa vivere in una specie di stato di guerra diffuso. Se questo è lo scenario allora può essere interessante tentare di capire gli atteggiamenti e le percezioni che possono pervadere le persone che per definizione conducono le guerre, ovvero i soldati che le combattono. Molti di questi uomini rilasciano testimonianza sul fatto che il nemico viene vissuto come altro da sé, senza particolari qualità umane al punto da poter pensare, senza particolare sforzo, di poterlo abbattere4.

Portare il diritto penale sul terreno della guerra significa ridurre il criminale ad un nemico con tutte le conseguenze del caso in termini di percezione e reattività.

Un’altra circostanza da considerare è la evidente discrasia tra la politica criminale, cioè, le scelte di politica penale in occidente e, in particolare, in Italia rispetto alle scelte di politica penitenziaria fatte nel 1975 e mai disconfermate. Tra questi due ordinamenti si segna una distanza sempre più larga se solo si pensa che nel 1975 la riforma penitenziaria introduceva nell’esecuzione penale la speranza e la pratica dell’inclusione sociale, mentre la politica penale degli ultimi anni è invece orientata all’esclusione.

Veniamo ora alla situazione detentiva e alle sue intrinseche caratteristiche. Gli Autori che vi ho citato, e altri ancora, parlano, ad esempio, dall’esistenza di un’ossessione dell’obbedienza da parte del personale deputato al controllo e alla sicurezza. L’obbedienza viene vista come un limite invalicabile pena, viceversa, la stessa tenuta del sistema. Allo stesso tempo viene sottolineata un’altra com­ponente non indifferente rispetto allo scatenarsi di derive violente. La paura. Si tratta della paura di essere aggrediti, sequestrati, sfregiati, paura di perdere il controllo e di essere per questo sanzionati o richiamati alle proprie responsabilità. Nella sentenza di Asti si ritrovano chiaramente le tracce di questo terribile sentimento in alcuni dei tragici protagonisti della vicenda in discussione, da un lato e dall’altro della barricata. Un’altra delle variabili in gioco è la deumanizzazione insita nella vita carceraria e, in particolare, i processi che portano alcuni a percepire le persone soggette a quella coazione come esseri diversi anzi quali veri e propri non-esseri. La deumanizzazione passa attraverso comportamenti quali il denudamento, anche questo riportato nella sentenza di Asti ma anche in tante delle opere degli Autori citati, segno della comunanza di certi meccanismi. Ci sono pagine molto interessanti su che cosa significa denudare un altro, togliergli l’identità, trasformarlo in altro da se stessi. Lo stesso processo di istituzionalizzazione, cioè, l’ingresso in carcere, i suoi riti, la loro finalità e i loro effetti, determinano una vera e propria degradazione negli uomini che la sopportano.

Ma per gli stessi operatori il carcere assume la necessità di un isolamento emozionale. Essersi immersi nel grande flusso di bisogni, di

richieste, di esigenze della marea di persone che varcano la soglia del carcere ad un certo punto ti fanno assumere interessamento distaccato per poterti difendere dall’impatto di una disperazione viceversa incontenibile.

All’isolamento emozionale si aggiunge la facile deindividuazione prodotta dalla percezione di operare in un contesto spersonalizzante che facilita la perdita di individualità e l’anonimato. Ma la deindividuazione non ha radici esclusivamente affondate nell’individualità. A queste si aggiungono quelle che fanno riferimento al contesto ambientale. Lavorare in un ambiente degradato e degradabile produce la sgradevole sensazione di poter essere accomunato a quel processo degenerativo. La teoria delle finestre rotte5 ben evidenzia come il degrado ne richiami altro ma soprattutto lo renda ovvio e induca l’abbassamento delle regole morali di chi vi è al cospetto.

Un ulteriore elemento di contesto che aiuta a comprendere la genesi dei fenomeni in questione è costituito dalla frammentazione organizzativa che obnubila le responsabilità, disperdendole, rendendole cangianti e sfuggenti.

Altri elementi agevolano l’orrore, e qui entriamo nella parte più sensibile. Il primo tra tutti è l’indifferenza al cospetto dei fatti che, di fatto, normalizza l’abuso agli occhi dell’autore e della sua vittima. Vedere alcuni fatti e non reagire significa sancire che quello è possibile. In questo senso il testimone silenzioso non è meno colpevole del responsabile diretto.

Collateralmente il sistema quale quello che viviamo, con le sue parole d’ordine può generare in alcuni la presunzione che ci sia un mandato del sistema da esercitare anche all’interno delle strutture carcerarie. La guerra ad un nemico, utile per distogliere gli occhi dalla nostra più generale crisi economica e sociale, può continuare anche all’interno dei penitenziari, stracolmi di quei nemici nei cui confronti la normativa penale legittima sempre più la loro diversità e la necessità di una difesa ad oltranza, senza quartiere, financo preventiva. La pubblicistica ha molta responsabilità nel sottolineare quasi elusivamente gli aspetti negativi e più cruenti del carcere nelle dimensioni della violenza etero ed autodiretta. L’idea stereotipata che ne emerge è quella di un campo di battaglia. La perversione è quella di giungere a pensare che in quel campo altro non si svolga che una guerra non dichiarata, ma sostanzialmente esistente. In tal senso chi ti sta di fronte, per alcuni, assume le vesti del nemico da odiare e combattere oltre che da difendersi.

In alcune circostanze le parole utilizzate retoricamente nella comunicazione istituzionale possono rinforzare tale distorta percezione con l’utilizzo di termini che evocano l’eroismo, il sacrificio, i caduti, la fatica, la pressione dei corpi, il sangue e la morte.

Se poi entriamo nel dettaglio possiamo agevolmente affermare che ci possono essere tre atteggiamenti diversificati nelle persone coinvolte in contesti di questo genere.

L’uso della violenza in carcere è legittimata, a certe condizioni, dall’Ordinamento giuridico, ma per usarla alcuni devono essere di­sponibili a farlo. Non è una cosa per tutti, alcuni sono in grado di farlo, molti altri non se la sentono. Questo è successo anche, per esempio, in Polonia durante il secondo conflitto mondiale ai membri del citato e famigerato 101° battaglione di polizia militare al seguito della Wermacht. Nella descrizione, svolta da Browning, dell’operato di questo battaglione emerge chiaramente che una parte era disponibile a usare le armi e a trascinare le persone dentro i carri bestiami per Treblinka, un’altra parte non lo era affatto. Tra questi ultimi vi era chi si tirava indietro con alcune scuse, o anche semplicemente retrocedendo, ma ai loro occhi ai primi veniva riconosciuta la capacità di farlo e il fatto che questo consentiva loro di defilarsi rispetto agli ordini impartiti.

La stessa cosa si rileva nelle descrizioni e nelle testimonianze astigiane, addirittura le parti sono rappresentate nelle stesse identiche proporzioni, numeriche.

Uno dei meccanismi critici è rap­presentato esattamente da questa funzionalità. Una volta riconosciuto questo saper fare sul piano della legittimità diventa poi difficile contrastarlo nel momento in cui viene utilizzato illegittimamente. D’altro canto tale disponibilità consente a tutti gli altri di defilarsi nel momento della necessità di intervenire nei casi di bisogno e questo è uno dei motivi che non rende semplice contrastare alcuni atteggiamenti e comportamenti. Questo richiama il timore individuale dell’ostracismo dei compagni di fronte alla critica e alla denuncia. Il risultato più evidente è la gran massa dei testimoni silenziosi che tutti gli autori esaminati condan­nano non meno degli autori ma­teriali delle violenze. Vedere e non agire, vedere e non dire, vedere e girarsi dall’altra parte legittima la violenza agli occhi del suo autore che da quel silenzio trae rassicurazione circa la sua impunità ma ancor di più sul fatto che quelle azioni sono sostanzialmente condivise. La stessa cosa avviene agli occhi della vittima che non trova spunto per difendersi.

L’insieme di queste circostanze, atteggiamenti e percezioni crea quelle condizioni che mettono in azione i meccanismi dell’abuso, la sua perpetrazione e la cortina di silenzio che in genere l’accompagna.

Ma se questo è vero, e la loro ri­proposizione in luoghi, momenti, contesti e con protagonisti diversi lo conferma, allora è validata l’indicazione di Zimbardo che ad un certo punto del suo lavoro è giunto ad affermare che non è questione di mele marce ma di cattivi cesti, nel senso che individuati i meccanismi fondamentali, passando da un approccio disposizionale ad uno situazionale, allora è possibile immaginare la proposizione di azioni di prevenzione.

La formazione del personale è una delle prime azioni proponibili. Evidentemente non la possiamo interpretare quale pozione miracolosa ma certamente può far crescere la consapevolezza del proprio ruolo nel contesto operativo di fronte a tale problema. La consapevolezza di essere potenzialmente influenzabili dal contesto e dai meccanismi sinteticamente qui prospettati, la presa di coscienza di non essere impermeabili a queste dinamiche è un elemento di crescita.

Sul piano più generale il contrasto alle situazioni di deumanizzazione, cioè la riduzione dell’uomo a cosa altra e, allo stesso tempo, di quelle facilitanti la deinvidualizzione può ridurre il rischio. In tal senso la costituzione di circuiti differenziati, la manutenzione delle strutture, il contrasto quotidiano ai suoi segnali elementari come le prepotenze, i dispetti, son tutti elementi che possono aiutare il processo di riduzione dell’umanità altrui, aumentando l’attenzione e il rispetto dei bisogni e della dignità altrui.

Allo stesso modo si può intervenire attraverso una prevenzione di tipo più operativo. Esiste evidentemente un problema di uso legittimo della forza. In tal senso è sempre più necessario introdurre quelle che, in termini militari, vengono chiamate regole di ingaggio. Una tale regolamentazione, ad esempio, può iniziare con vietare alcuni comportamenti più o meno diffusi, per esempio le pratiche di denudamento, che non hanno grossa utilità, neanche in termine preventivo. Allo stesso modo la limitazione delle pratiche di isolamento, l’introduzione standardizzata di procedure per la separazione nei conflitti, il conferimento di responsabilità dirette e specifiche ai ruoli e alle funzioni operative in modo da limitare la deresponsabilizzazione endemica che in queste circostanze si ritrova frequentemente e che ne costituisce, viceversa una sorta di brodo di coltura. E ancora è necessario far crescere la cultura del debriefing, cioè, la capacità di affrontare, discutere e riconoscere gli errori non razionalizzati. Dobbiamo imparare a capire dove abbiamo agito male agendo e diffondendo l’uso del pensiero critico.

Questi, in buona sostanza, sono tutti elementi che possono aiutare per limitare il rischio del perpetrarsi dell’abuso e della violenza nei contesti detentivi. Solo in ultimo citerei l’ambito di quella che potremmo chiamare la prevenzione speciale, ovvero, il sistema delle sanzioni. Se rammentate questo intervento è partito da una reazione indirizzata dalla percezione della necessità di creare una sanzione specifica ma personalmente credo che questa necessità non possa essere ritenuta la panacea del male. Certamente, tra tutte le azioni proponibili non è la meno importante e alla quale ritengo serenamente di poter aderire, ma è l’ultima di una serie di procedure effettivamente preventive, ovvero che intervengono non a sanzionare un comportamento ma a scongiurarlo prima ancora che intervenga. Certo laddove questo sia già avvenuto la sanzione è fondamentale per demolire la percezione di impunità e, per inciso, permettetemi di dire che, ad Asti, la decisione di non punire in assenza di un articolo specifico non ha certo aiutato.

 

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1 Hanna Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2001.

2 Philip George Zimbardo, L’effetto lu­cifero: cattivi si diventa?, Cortina, Mila­no, 2008

3 Cristopher Browning, Uomini comu­ni: polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Einaudi, Torino, 1995.

4 Sebastian Junger, War: come i solda­ti vivono la guerra, Sperling & Kupfer, Milano, 2011.

5 James Wilson, George Kelling, “Bro­ken windows. The police of Neighbor­hood safety”, Atlantic Montly, marzo 1982