Riflessioni ai margini di un incontro in occasione della “Million Marijuana March”

Paternità e antiproibizionismo

Parliamo, per favore, di cosa può significare “ridurre il danno” delle sostanze attraverso la legalizzazione, la depenalizzazione, la non stigmatizzazione sociale di chi consuma droghe

 

di Alessio Guidotti, tutor nel reinserimenti lavorativi alla coop “Il Sorbo” di Formello

 

Ero al ritorno da un incontro svoltosi in occasione del “Million Marijuana March”. Sull’autobus parlavo con un paio di persone, presenti anche loro all’incontro, di quali sono gli aspetti culturali in Italia in materia di legalizzazione, depenalizzazione, e reale percezione culturale della differenza tra droghe “leggere” e “pesanti”. Parlavamo di quanto fosse stato interessante ascoltare le diverse testimonianze degli intervenuti all’incontro, da quella di Annie Manchon (UK) del Consiglio direttivo del Leap (Law Enforcment Against Prohibition-Forze dell’ordine contro il proibi­zionismo) a quella di Joep Oomen (Belgio) coordinatore Encod (Coalizione europea per le giuste ed efficaci politiche sulle droghe) fino a quella di Alberto Sciolari, vicepresidente PIC (pazienti impazienti cannabis)

Insomma: dopo esserci detti tan­te di quelle cose che uno di noi dimenticò di scendere dall’autobus alla fermata giusta, il discorso andò a finire sui nostri figli, e sul fatto di essere lì a pensare e credere che lo Stato e la società debbano cambiare il loro atteggiamento in tema di droghe, perché sarà, anche questa, una di quelle cose che in un modo o in un altro riguarderà i nostri figli. Poi ci salutammo. Qualche giorno dopo, risentendo uno di loro, ebbi la conferma di non essere stato l’unico del gruppo che, tornando a casa, si mise a pensare a droga, figli, e al fatto di essere genitori con un determinato passato, in cui il consumo di droghe è stato un dato di fatto che ha fortemente condizionato le nostre vite.

Io personalmente ci ho pensato parecchio anche nei giorni seguenti. Alcune volte anche durante il lavoro (il coinvolgimento in un progetto di Educativa di strada su un territorio “difficile”) mi capitava di pensare alla questione figli-droga-antiproibizionismo, e la cosa mi veniva quasi spontanea, avendo spesso la possibilità di confrontarmi con ragazzi di 15-16 anni che ti parlano delle loro “canne” oppure che loro fumano erba “perchè fa bene perchè l’erba è naturale”. Devo dire che è stato proprio il confronto con i più giovani che consumano droghe leggere (ma anche pesanti purtroppo) a farmi convincere di quanto sia necessario adoperarsi per un cambiamento di cultura in materia di droga, proibizionismo e antiproibizionismo.

A questo punto, però, vale la pena chiarire alcuni aspetti della questione, che non è semplice come generalmente qualcuno crede e come soprattutto la percepiscono alcuni giovani con i quali ho la possibilità di confrontarmi “on the road”. Molti di loro infatti fanno

una confusione incredibile. Non hanno chiare alcune questioni importanti in materia di droga e questo penso che dipenda da una mancanza di conoscenza e di consapevolezza di quello che fanno. E credo che questa mancanza di conoscenza e consapevolezza sia figlia di una cultura proibizionista. Quando mi dicono che l’erba fa bene perché è naturale dicono qualcosa che come minimo li espone a possibili critiche di tipo proibizionista. Mi spiego meglio: chiunque, anche il più incallito proibizionista, potrebbe, con tut­te le giuste motivazioni, affermare che le cose “naturali” non fanno bene in quanto tali: anche la cicuta è naturale, così come lo è il terremoto. Non tutto ciò che è naturale fa bene di per sé. Anche qui emerge la mancanza di conoscenza e di argomenti sui quali si sostiene una tesi (“l’erba fa bene perchè è naturale”). Insomma: le riconosciute, scientificamente, proprietà medicinali della cannabis sono una cosa, i piacevoli effetti che qualcuno può avere fumando sono un’altra cosa che ha, e dovrebbe, avere a che fare con l’uso ricreativo e non terapeutico.

Inoltre bisognerebbe chiarire che l’abuso di cannabis, o il farne uso in età in cui le strutture cerebrali non sono consolidate, non è affatto benefico e, comunque, è superficiale arrivare a sostenere che la cannabis sia la cura di tutti i mali fisici e psichici. Anche perché, e qui il discorso diventa interessante, parliamo del consumo di qualcosa (la cannabis indica) che non esattamente la grande maggioranza di quelli che la consumano conosce realmente, e spesso fuma qualcosa di coltivato da qualcun altro e acquistato in maniera illegale. Se l’erba ognuno avesse la possibilità di coltivarsela da sé, senza incorrere in conseguenze penali, e fosse in grado di sapere cosa ha seminato (se è esente da trattamenti chimici, il tipo di qualità, la percentuale di principio attivo) allora potrebbe avere maggiore consapevolezza di quello che sta fumando. Succede anche con la birra: un gruppo di miei amici si è appassionato all’homebrewing, ma loro ci si sono messi sul serio, ora hanno una cultura impressionante in materia di luppoli, malto, fermentazioni e via dicendo: fanno diverse qualità di birra per uso domestico ma, soprattutto, mi sembra di capire che bevano realmente in modo “responsabile”, prima di tutto perché hanno consapevolezza di cosa stanno bevendo.

C’è poi la questione del linguaggio che, io penso, sia stato distorto a causa della cultura proibizionista. Sono molti i giovani che sostengono che “l’erba fa bene perché è terapeutica“ oppure “è naturale”, ma pochi di loro davanti ad un adulto hanno la tranquillità di dire che gli piace l’effetto che fa.

Quando, superate le loro argomentazioni spesso prive di fondamento, gli dico che forse fumano semplicemente perché gli piace l’effetto, allora fanno un sorriso e si sentono finalmente liberi di dire che “si è così mi piace l’effetto che mi fa”, e io la trovo una spiegazione più sincera che dà la possibilità di aprire un discorso. Anche nel linguaggio, io credo, la cultura del proibizionismo ci ha portato a nascondere parole e concetti. E questo “nascondere” altro non ha fatto che alimentare la cultura proibizionista e l’ipocrisia in tema di droghe. Altro discorso confuso che alcuni ragazzi fanno è “l’erba è terapeutica, hai visto che ci sono regioni che l’hanno legalizzata?” . Provo a spiegargli che le cose non stanno esattamente cosi. Su questa faccenda che sia “terapeutica” una volta, confrontandomi con una dottoressa del Ser.t, lei ha affermato con molta tranquillità: “Hanno ragione a sostenere che è terapeutica... ma, nel caso loro, per cosa è terapeutica?”. In pratica: la “cannabis terapeutica”, o meglio l’uso medico della cannabis è una faccenda totalmente diversa dal farsi le canne da soli o con gli amici per puro fine “ricreativo”, ma credo che, a livello culturale, la scappatoia dal proibizionismo sia stata l’enfatizzazione del “terapeutico”. Premesso che il capitolo, veramente penoso, sulla cannabis per uso medico e le vicende giudiziarie, che sfiorano l’assurdità, a carico di chi dovrebbe poter avere la libertà di scegliere come curarsi, sono un argomento che andrebbe trattato a parte, detto questo io per diversi motivi sono contrario a far diventare tutto terapeutico, qualche volta mi sembra che stiamo “terapeutizzando” la realtà: se una cosa è bella (e in quanto bel­la e piacevole fa bene) allora la si vuole far passare per “terapeutica”.

Ma torniamo all’erba: in alcuni stati dell’America dopo la cannabis terapeutica hanno legalmente accettato il fatto della cannabis a fine ricreativo. Non mi piacciono tanto i confronti con altre situazioni perché credo che a volte siano forzati, cioè non tengano presenti le differenze culturali tra noi e gli altri Paesi, mentre secondo me è importante concentrarsi proprio su quelle differenze culturali per capire come agire e come ri-educarci a una cultura antiproibizionista che sia “nostra” e non la scimmiottatura di culture altre nelle quali non ci ritroveremmo. Per esempio, io credo che se dall’og­gi al domani noi stessimo in una situazione tipo Amsterdam, con Coffee Shop nelle nostre città (e molti dei giovani che incontro su strada sarebbero felicissimi) non sarebbe una cosa per la quale saremmo culturalmente pronti. Io credo cioè che noi ci si debba educare all’antiproibizionismo e soprattutto a coglierne il senso più ampio anche in un’ottica di riduzione del danno. Avere, ad esempio, ben chiaro il significato di “ridurre il danno” attraverso la legalizzazione, la depenalizzazio­ne, la non stigmatizzazione sociale di chi consuma droghe.

 

Il pensiero che il proprio figlio si possa trovare coinvolto in vicende di droga

 

Diciamolo chiaramente: abusare di droghe, anche leggere, fa male ed è rischioso per salute fisica e psichica, ma è altrettanto vero che questo rischio varia a seconda delle circostanze in cui le droghe vengono usate, della loro quantità e qualità. Inoltre portare a conoscenza, e prenderne atto senza ipocrisia, da parte di tutti, del reale abnorme flusso di danaro che si riversa nelle attività lecite e che proviene però dal traffico di stupefacenti aiuterebbe a capire il controsenso della punibilità del consumatore, che non è fatta solo in termini legali ma anche in termini di emarginazione.

Quando si parla di capitali provenienti dal traffico di droga si dovrebbe pensare non allo spacciatore con la bella macchina, l’attività commerciale, e la catena d’oro al collo: quelle sono le briciole. Dovremmo pensare agli abnormi flussi di denaro contante che i grandi produttori di droga investono in tutto il mondo, mescolando i proventi del commercio di droga con l’economia legale. I grandi flussi economici del traffico di droga, le enormi percentuali di tossicodipendenti presenti nelle carceri, l’aria di stigma ed emarginazione che si respira davanti ai SerT, e ancora storie di droga che sono degenerate non per la droga in sé ma per l’emarginazione, il senso di esclusione e il non giusto approccio al vero problema della persona: ecco io penso che prendere realmente atto di tutte queste cose potrebbe servire a quel cambiamento culturale che è necessario per intraprendere un percorso che, socialmente parlando, darebbe prospettive positive in tutti gli ambiti in cui la dipendenza, che non è solo quella da sostanze, crea problemi alla persona e rischia di avviare problemi su problemi.

Se, in termini sociali, noi imparassimo a parlare del nostro rapporto con il “consumo di piacere” che ci coinvolge, droghe comprese, avremmo certamente l’occasione per confrontarci con chi è direttamente coinvolto, cioè il consumatore, e impareremmo a non stigmatizzare: io credo che da parte di consumatori e ex-consumatori di droga servirebbe una maggiore partecipazione a un discorso culturale che è globale e non può riguardare solo alcune forze politiche e un legislatore che, forse un domani, sancirà la legittimità di determinati comportamenti e determinati consumi. Purtroppo i consumatori “soft”, sconosciuti ai servizi per le tossicodipendenze, che lavorano e conducono una vita regolare, soprattutto una vita che socialmente “non disturba”, mal volentieri parlano del loro rapporto con la droga: e non parlo solo di erba, ci sono i consumatori “soft” di cocaina e qualcuno anche di eroina. Anche la loro testimonianza sarebbe utile. Le conseguenze più nascoste di culture e pratiche proibizioniste fermentano all’interno della società impedendo uno sviluppo culturale che include anche un discorso di autoconsapevolezza.

Provo a spiegarmi. Ho sempre pensato che il tossico dia fastidio soprattutto per un motivo: è la rappresentazione “in potenza” di un aspetto umano che riguarda tutti quanti: quello della dipendenza. Tendiamo tutti a dipendere da qualcosa e spesso non ne siamo consapevoli. Ma il tossicomane è quello che meglio di tutti incarna questa nostra tendenza, ma è anche quello che non può non prenderne atto: l’astinenza è lì a ricordarglielo in maniera brutale. Mi viene in mente un episodio di due giovani: uno dentro al bar a giocare alle slot-machine in maniera quasi compulsiva (era lì da circa un’ora, occhi sbarrati sullo schermo, atteggiamento ansioso e sudore sulla fronte) e l’altro fuori dal bar, in leggera astinenza da eroina, ad aspettare lo spacciatore. Ebbene: l’uno diceva dell’altro “guarda che schifo come si è ridotto” . A me la cosa faceva pensare. Ognuno di loro si rivolgeva a me con sdegno per la condizione in cui si trovava l’altro, ma nessuno di loro due riteneva di avere in comune qualcosa con l’altro che, invece, criticava aspramente. Si facevano schifo a vicenda, senza rendersi conto che ciò che li disgustava recipro­camente era quello che avevano in comune: essere dipendenti da qualcosa in un modo così invadente da condizionare il loro tempo, le loro scelte, il loro umore. Certo, quello dentro al bar, incollato alla slot-machine, è dipendente per qualcosa che è legalizzato, fisicamente meno invasivo. Ma presso i SerT (che in molte Regioni sono Servizi del Dipartimento per le Dipendenze patologiche di cui le Tossicodipendenze sono solo un aspetto) si occupano anche di lui: il giocatore incallito... Questo per dire che forse è necessario diffon­dere una cultura profondamente antiproibizionista che non si interessi solo ed esclusivamente di depenalizzare il consumo di una droga o di un’altra. Oltre questo penso sia importante adoperarsi per diffondere consapevolezza e conoscenza in materia di consumi, abusi, dipendenze. Anche su questo punto mi è capitato di ave­re confronti duri con gli operatori del SerT. Alcuni di loro sostengono che non è importante fare prevenzione parlando direttamente delle sostanze e dei loro effetti, soprattutto ai giovanissimi, per non stimolare in loro la curiosità. Per certi aspetti potrei essere d’accordo, sempre se si parla di giovanissimi, perché poi vedo che ci sono tredicenni e dodicenni che si fanno le canne, ma per altri aspetti no, non sono d’accordo. Credo che ci debba essere una prevenzione all’abuso di sostanze chiara e semplice, e che le azioni di riduzione del danno dovrebbero avere maggior attenzione e destinazione di risorse perché renderebbero anche in termini di risparmio sanitario oltre che di vite umane. Ma io penso che una prevenzione totale sul rischio “dipendenza” dovrebbe occuparsi anche delle legalissime dipendenze che si sviluppano nelle sale gioco e nei bar. Certo educare alla libertà è difficile. Ma allora non bisogna essere ipocriti. E credo che di fondo ci sia stata, e ci sia, molta ipocrisia in tutte le politiche sulla droga, e sia stata una enorme ipocrisia che ha contribuito a far essere la tanto sponso­rizzata “guerra alla droga” una vera e propria “guerra ai drogati”.

Pensando ai propri figli, chi è che pensa che le politiche in materia di droga siano giuste? Ma quando parlo dei propri figli intendo il pensiero che il proprio figlio si possa trovare coinvolto in vicende di droga. Che il proprio figlio si pre­senti a casa e ti dica “sono stato a farmi le canne con gli amici”. Sono sincero: mio figlio è un piccino di quasi due anni che ora, mentre scrivo, dorme con un orsacchiotto tra le braccia. Il pensiero che un domani possa trovarsi in una situazione di consumo di sostanze è qualcosa che mi inquieta. Inevitabilmente, pensandoci, mi torna in mente il mio passato più pesante. Credo, e mi sembra di capire par­lando con persone competenti in materia, che tutti noi che abbiamo avuto esperienze di questo genere, non siamo poi proprio sereni al pensiero di un figlio che si possa trovare in situazioni simili o quasi. Una cosa è certa: io vorrei che crescesse in una società meno propensa a condannare ed emar­ginare il più fragile, il più esposto alla dipendenza da qualcosa. Vor­rei crescesse in una società dove si possa sempre più arrivare ad essere coscienti delle ipocrisie che ci circondano, e del fatto che le ipocrisie generano false credenze, le false credenze generano emar­ginazione e l’emarginazione crea mostri da eliminare. Ma soprattutto vorrei crescesse in una società dove chi ha un problema perchè la dipendenza da qualcosa (qualunque cosa sia) gli ha compromesso la propria libertà emotiva, non fosse emarginato a priori da una cultura proibizionista. Ecco: vorrei che la società in cui crescesse mio figlio possa essere una società che tratti i problemi del consumo ed uso di sostanze stupefacenti da un punto di vista sociale e, quando necessario, medico, ma non da un punto di vista legale e penale o sanzionatorio. Auspicare questo cambiamento sociale significa però non solo cambiare alcuni articoli di legge: questo dovrebbe essere il primo passo da fare ma, insieme a questo, è assolutamente necessario prendere atto della necessità di un cambiamento culturale nei confronti del consumo e dei consumatori di droghe, e per questo cambiamento è necessario si adoperino anche e soprattutto i diretti interessati: consumatori ed ex consumatori.

 

 

 

Se io fossi un educatore…

 

di Lorenzo Sciacca

 

In un confronto, in redazione, sul lavoro che svolge l’educatore all’interno di una struttura penitenziaria, sono usciti parecchi problemi che riguardano la relazione tra il detenuto e questa persona che è il perno principale dell’équipe “trattamentale”, il gruppo degli operatori che si occupa di noi detenuti.

Questo/a professionista, un giorno, dovrà decidere il futuro del detenuto, in base a considerazioni tratte da un percorso rieducativo svolto negli anni di detenzione. Ovviamente, quando parlo di una relazione tra detenuto ed educatore, intendo una relazione che con il tempo si dovrebbe venire a creare, dunque di una conoscenza del soggetto, e perché no anche di una co­noscenza reciproca, oserei dire paritaria.

 

Qualche idea sull’educazione

 

Parto dal fatto che questa parola secondo me a volte viene sottovalutata. Educare significa “guidare e formare qualcuno, specialmente giovani, affinandone e sviluppandone le facoltà intellettuali e le qualità morali, in base a determinati principi. Abituare con l’esercizio, con la pratica ripetuta”. Ora voglio esa­minare questa definizione facendo una autoriflessione.

Non ho avuto la fortuna di avere dei genitori molto presenti, diciamo che è stata più presente la strada nella mia infanzia. Dico questo perché per formare e guidare qualcuno sarebbe meglio partire dall’infanzia, anche se a volte delle lacune escono lo stesso. Ho infranto il codice già all’età di dodici anni, diciamo che poi mi sono dato da fare per peggiorarmi. Quella che oggi chiamiamo “equipe trattamentale”, il gruppo di educatori e altri professionisti che dovrebbero occuparsi della nostra rieducazione, io con qualcosa del genere ho iniziato ad avere a che fare all’età di 7 anni. Avendo mio padre carcerato e mia madre indagata, sono subentrati gli assistenti sociali obbligando mia madre a farmi frequentare, con colloqui settimanali, psicologi e educatori. In più frequentavo una scuola di preti e la loro mentalità era di educare, a loro maniera, i giovani un po’ vivaci. Il loro lavoro principale era di insegnarmi l’educazione, con mezzi punitivi, come per esempio essere rinchiuso in sgabuzzini di un metro per uno al buio per ore, oppure, la più frequente, pulire tutte le toilette del convitto. In pratica venivo punito per i miei sbagli con mezzi illeciti. Mi ricordo un pensiero che già mi girava per la testa a quell’età, mi dicevo che ero piccolo ma era solo questione di tempo e poi sarei stato io il più forte. Oggi ho 37 anni, è cambiato qualcosa nella mia vita? No! Oggi mi ritrovo di fronte a un “educatore” che in teoria dovrebbe ascoltarmi per cercare di capire dove sono le mie lacune e, ovviamente con la mia collaborazione, tentare di porvi rimedio.

Se io fossi un educatore, prima di leggere il fascicolo di un detenuto, vorrei conoscerlo, esclusivamente per cominciare una conoscenza da zero, ma assieme. Alla pari. Al momento dell’arresto, un detenuto è incazzato con il mondo, ma soprattutto, anche se non lo ammette, con se stesso, dunque bisogna saperlo ascoltare. Le prime domande per me non possono essere “Per cosa sei dentro?”, dovrebbe essere il detenuto a dirlo spontaneamente, perché altrimenti rischia di apparire come un interrogatorio in questura e sappiamo tutti come la maggior parte di noi la pensa a riguardo, allora sarebbe meglio lasciare che tutto si svolga a ruota libera. Una domanda molto banale come per esempio “Come ti senti?” può avere dei risultati molto più efficaci.

Dunque primo punto: conoscere la per­sona e il suo stato d’animo.

Quando il detenuto vi dirà il motivo del suo arresto, bisognerebbe fare un passo indietro, e cercare le motivazioni reali del gesto che ha fatto. Prendiamo per esempio me, sono in carcere per rapine di banche, se dovessi dire che l’ho fatto per soldi o perché sono amante della adrenalina, sarei molto superficiale, il mio problema è la mancanza di capacità di relazionarmi con la società di cui faccio parte, non mi sono mai identificato come un elemento di essa. Ora questa riflessione la faccio, non grazie ad un educatore, ma grazie a delle possibilità che il sottoscritto si è dovuto creare in questo contesto.

Secondo punto: conoscere il motivo reale di un delitto.

Il detenuto deve riappropriarsi di un linguaggio che ha perso o che non ha mai conosciuto, questo si fa con l’esercizio e la pratica ripetuta. L’educatore dovrebbe avere la capacità di insegnarglielo e, negli anni che dovrà trascorrere dentro al carcere, dovrà farlo esercitare periodicamente. Questo si impara con relazioni fatte di confronti, scambio di idee e scontri che in un rapporto paritario nascono. Partecipo da alcuni mesi al progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, ci si confronta con ragazzi di 17/18 anni. La prima volta che ho assistito a questi incontri sono rimasto basito, non tanto per la novità, ma per aver scoperto il potere del confronto, è straordinario quello che ti dà. Ti apre la mente a riflessioni personali che mai avresti potuto pensare di essere capace di fare.

Terzo punto allora: insegnare a comu­nicare.

Tutti gli esseri umani hanno passioni, solamente che noi detenuti le nascondiamo, o non sappiamo neanche di averle. Oggi scopro che la mia passione è scrivere, sicuramente non sono in grado di farlo nel migliore dei modi, ma ho trovato un qualcosa dove voglio crescere, dove voglio imparare. Far scoprire o riscoprire un piacere può essere molto d’aiuto, la passione può essere esercitata come un freno per pensarci prima. L’educatore dovrebbe insegnarci a pensarci prima, a metterci davanti quello che si può perdere in un attimo di rabbia. Anche questo richiede molto allenamento e l’allenamento non puoi farlo da solo, come abbiamo fatto per la maggior parte dei nostri anni, dunque ci vuole anche la nostra parte nel chiedere aiuto e accettarlo.

Quarto punto: insegnargli a pensarci prima.

Arrivati a un periodo, stabilito dalle leggi, un detenuto può ricorrere a benefici che gli permet­terebbero di provare ad applicare gli insegnamenti avuti durante la detenzione. Questo passo viene deciso dal magistrato di Sorveglianza dopo avere, fra l’altro, esaminato la relazione fatta durante la detenzione dall’educatore o da quella che si chiama “èquipe trattamentale”. Il parere io non dico che debba essere per forza positivo, ma dietro deve avere una attenta valutazione considerando tutto il percorso che ha svolto il soggetto: perché è normale che, dopo avere dato prova di un tentativo di reinserimento all’interno, ci vuole la parte pratica, cioè mettere sul campo ciò che si è imparato. Ecco il ruolo fondamentale dell’educatore.

Quinto punto: accompagnarlo fuori.

Io non sono nessuno per poter insegnare a una persona il proprio lavoro, perché dietro a questa professione ci sono degli studi, diplomi e lauree, onestamente io ho solo la terza geometra. Ma credo fortemente che ci vuole passione per quello che uno decide di fare nella vita, e non superficialità. La passione di cui parlavo nel quarto punto va ritrovata, a volte, anche da parte degli operatori. Magari guardando negli occhi quel ragazzo che si presenta a 20 anni pompato da finti ideali, false amicizie e che si sente padrone del mondo, cercare di ascoltarlo fino in fondo al cuore, perché la realtà è che nessuno vuole arrivare come ho fatto io a prendersi alla fine trent’anni di carcere… Ultimo punto: imparare ad ascoltare.

 

E se invece fossi uno psicologo…

 

Che ruolo ha uno psicologo all’interno di una struttura penitenziaria?

Io purtroppo giro le carceri, da detenuto, da tanti anni e questa figura la trovo a volte “astratta”.

Oggi allora voglio provare a capire, secondo le mie opinioni personali e la mia storia di vita, il ruolo fondamentale che dovrebbe avere lo psicologo nello svolgere un lavoro con il detenuto.

Lo psicologo per me non è altro che una persona che, grazie ai suoi studi, conosce l’animo umano compresa la parte più importante, l’inconscio, quella parte della nostra mente che genera pensie­ri e azioni di cui non ci rendiamo conto.

In sedici anni di carcere, solo una volta mi sono ritrovato seriamente di fronte a una psicologa in grado di ascoltare, ma ormai era troppo tardi, avevo già una condanna di trent’anni. Ascoltare, è questo il punto.

Per me uno psicologo prima di tutto deve avere una capacità di ascolto straordinaria.

Mi ricordo uno dei tanti colloqui che ho fatto con la psicologa del carcere di Alessandria. Ormai era quasi un anno che ogni settimana facevo questi incontri e ovviamen­te c’era un rapporto di estrema fiducia. Il giorno in cui ricorreva l’anniversario della scomparsa di mio figlio, mi feci coraggio e inve­ce di isolarmi andai al solito incontro, spiegandole che mi ero imposto di scendere andando contro la mia volontà. Per farla breve abbiamo passato i soliti quarantacinque minuti in un silenzio impressionante e imbarazzante. Le sue uniche parole furono che a volte ascoltare un silenzio vale più di cento sedute.

Questa per me è pura passione e dedizione al proprio lavoro. Certo, il mio umore non era cambiato, ma sapevo di aver trovato una persona, dentro a queste quattro mura, che voleva ascoltarmi.

Oltre ad avere questa capacità, uno psicologo credo dovrebbe essere in grado di trovare quei punti cardine nel passato della persona dove c’è stata una scelta di vita. Mi spiego meglio: sono consapevole che l’aver vissuto in un ambiente fatto di povertà, di criminalità, l’essere già in tenera età a contatto con le carceri sono tutti elementi che hanno contribuito a farmi prendere una scelta di vita quasi scontata, ovviamente poi però ci ho messo del mio.

Lo psicologo, dopo aver ascoltato il racconto di vita di una persona, dovrebbe avere la capacità di soffermarsi su alcuni episodi cruciali e cercare di far ripercorrere al ”paziente” gli stati d’animo che provava. Credo che solo così il suo lavoro sia in grado di contribuire a un cambiamento di comportamento del soggetto.

Oggi mi ritrovo a riflettere su episodi della mia vita passata che mai avrei pensato che fossero causa del mio comportamento deviante. Però sono anche fermamente convinto che le istituzioni hanno contributo fortemente a peggiorarmi.

Come si può pensare infatti che un detenuto arrivi a riflettere su se stesso senza l’aiuto di persone competenti? Mi hanno arrestato dopo il funerale di mio figlio, ero consapevole che sarebbe successo essendo latitante, ma l’impatto con il carcere fu devastante. Il mio stato d’animo era quello di una persona distrutta, in più sapevo che avrei dovuto subire delle condanne esagerate, perché le pene in Italia sono davvero altissime, nonostante tutti siano convinti del contrario. Il secondo giorno mi chiamò uno psicologo, una persona dietro a una scrivania con una penna tra le mani, un foglio prestampato davanti e con la testa bassa. “Quando sei nato, dove abiti, hai problemi d’insonnia, sei tossicodipendente?”, queste sono state le uniche domande. Una volta compilato il foglio, con un gesto naturale, lo mise in una cartella riposta sopra tante altre. Le sue ultime parole furono: “Può andare”. Ecco, credo che tanti operatori siano così.

Venti giorni fa il mio compagno di stanza ha perso la madre: oltre a non essere stato portato al funerale, non ha avuto nessun appoggio morale da persone competenti, si è dovuto aggrappare alla solidarietà di quei detenuti più vicini a lui e che hanno provato gli stessi sentimenti.

Anche la persona più inesperta capirebbe che drammi di questo genere possono attivare dei meccanismi di violenza e di odio verso le istituzioni.

Certi comportamenti che generano alcune azioni che una persona fa credo siano causati da traumi che ci portiamo dietro inconsapevolmente, e andarli a riscoprire e riviverli con persone competenti ma, soprattutto, con persone che credono in quello che fanno può essere la chiave per far ritrovare la voglia di provare a vivere una vita diversa da quella vissuta fino ad oggi.

Oggi gli psicologi si lamentano, giustamente, delle condizioni in cui lavorano, ma quello che vorrei chiedere a tanti operatori è se, a fronte di tutti questi problemi, non causati da noi detenuti, si sentono onesti verso la loro professione.

Io in quello che faccio, qualsiasi cosa faccio, oggi cerco di mettere passione e onestà e lascio giudicare agli altri il risultato, ma mi impegno e so di dare il massimo. Mi piacerebbe capire se anche chi deve per professione “occuparsi” di me mette la passione e l’onestà al centro del suo lavoro.

 

 

 

 

Un uomo detenuto che vorrebbe dare una svolta alla sua vita

Ma per farlo, per riuscire a riscattarsi bisognerebbe che nessuno puntasse il dito per dire “quello è lo scarto della società”

 

di Luca Raimondo

 

Da piccoli, i genitori raccon­tano delle favole per far addormentare i propri pargoletti. Si raccontano delle fiabe tipo Cappuccetto Rosso, Pinocchio e molte altre. Tutte queste fiabe hanno in comune una cosa, la nar­razione tra il bene e il male, il giusto e sbagliato, bianco o nero e in tutte c’è un lieto fine dove il bene trionfa sempre sul male.

Poi si cresce ma si sta sempre con quella mentalità “bianco o nero”. Fiabe non se ne ascoltano più, si ascoltano i telegiornali, i media e si leggono i giornali, ma anche su questi c’è una cosa che li accomuna: prima pagina gli orrori della politica, disastri dal mondo, crisi e disoccupazione, poi scorri le pagine e vedi verso la metà, o quasi alla fine, delle foto di individui che hanno, per esempio fatto una rapina, allora l’attento lettore punta il dito su quelle foto e comincia a pronunciare frasi del tipo “devono buttare via la chiave, saldare i cancelli e farli morire in carcere”.

Vorrei soffermarmi a riflettere su un punto: perché da bambini, quando si ascoltano le fiabe non ci siamo mai accaniti sul lupo cattivo o sul gatto e la volpe? Credo che dovremmo ammettere, un po’ tutti, che ognuno di noi ha le sue colpe, non avere le fette di salame sugli occhi e guardare un po’ la realtà che ci circonda.

Anzi sapete una cosa ora inizio io a raccontarvi una storia.

Questa storia è la vita di un bambino nato nel Catanese di nome Luca, cresciuto in una famiglia di lavoratori, papà muratore, mamma casalinga e con quattro fratelli.

Luca è il più piccolo dei fratelli, nato nel 1980, anni in cui c’era molta gente vittima della povertà del sud, dunque emigrava in Germania. La politica era più malsana di quella di oggi e in quei tempi, in Sicilia, c’erano morti ammazzati tutti i giorni. Luca, di tutto questo, non sapeva niente, cresceva nell’amore della famiglia. I suoi interessi erano quelli di un bambino normale che pensa al gioco, arrampicarsi sugli alberi, farsi la guerra con gli altri bambini tirandosi i mandarini, giochi semplici. Quel mondo fatato era dato dall’innocenza dell’età, ma quando si andava per le strade, si vedevano delle persone con belle auto, grosse motociclette, vestiti bene e con un modo di fare da spacconi. Tutto questo, a Luca, lo affascinava.

Gli anni passavano e quegli innocenti giochi non lo divertivano più, allora iniziava ad avere a che fare con pistole ad aria compressa. Erano i suoi gioielli, le puliva in modo ossessivo e alla vista di pattuglie si nascondeva per farci fuoco. Ad ogni colpo sparato provava una sensazione di grandezza e questo lo faceva stare bene.

Dopo la terza media decise di andare a lavorare e smettere definitivamente con la scuola, lasciando anche quell’aria da bulletto che si era creata attorno a lui. La sua forza, trasmessa dai genitori, lo portò a diventare un grande lavoratore, ma non sapeva che dentro di lui la realtà era diversa, l’attrazione della strada c’era sempre, aspettava solo il momento di esplodere e impadronirsi di lui definitivamente.

Incominciò a fare dei furtarelli che però non lo gratificavano molto, e allora si avvicinò ad un gruppo di ragazzi più grandi di lui che si cimentavano in rapine nelle banche. Così decise che era arrivato il momento di passare a cose più grosse. Aveva solo 13 anni quando iniziò con le rapine e quella sensazione di potere, i soldi facili lo portarono a farne un’altra e un’altra ancora. Guadagnava tanti soldi, talmente tanti che decise di smettere di lavorare. Nascondeva ai suoi genitori tutto, era diventato così bravo a mentire alle persone che amava che ormai farlo era diventato normale.

Andava in discoteca e tutto era affascinante, ragazze che gli gironzolavano attorno, motorini nuovi, motociclette, macchine tutte cose che lui aveva visto sempre agli altri e mai avuto, ma non capiva che per tutto questo c’era un prezzo da pagare prima o poi. Ecco che quel giorno arrivò come un fulmine a ciel sereno. Aveva 14 anni e lo arrestarono per la prima volta, lo portarono in un centro di prima accoglienza e dopo tre giorni, un giudice lo condannò ad andare in carcere. Così si spalancarono le porte del carcere minorile e solo là capì che la sua vita era cambiata. Luca ancora non capiva che era arrivato ad un bivio, tornare a fare danni, oppure riprendersi una vita fatta di sacrifici ma onesta.

Dopo qualche anno, per un errore giudiziario, uscì ai domiciliari fino a quando gli arrivò la scarcerazione definitiva. Ecco che doveva scegliere il suo futuro. Decise di prendere la strada più facile, cioè tornare a fare rapine in banca. Dopo nemmeno due mesi lo arre­starono di nuovo.

Dopo qualche anno uscì e si mise in testa di lavorare, dare un taglio netto con il passato, ma tra vecchi definitivi e affidamenti da rispettare, il passato torna prepotentemente. Nell’intervallo dell’ennesima carcerazione, conosce una ragazza, si sposa e diventa padre di due bambini, ma non demorde, vuole lavare quel suo passato macchiato da tanta carcerazione e dal tanto male che aveva inflitto a chi lo amava ma anche alle persone offese da lui andando a rapinare.

Tutto in un colpo, Luca perde il lavoro e con esso tutti quei beni che aveva creato con sacrifici. Per questo entra in un periodo di depressione e senza riflettere su quello che poteva succedere a lui e alla sua famiglia, prende la decisione di ritornare al suo passato, rapine e soldi subito convinto che avrebbe risolto tutti i problemi. Queste scelte sbagliate lo portano di nuovo in carcere, lo stesso carcere che già da ragazzino lo aveva accolto a braccia aperte, ma questa volta viene strappato dalla sua amata famiglia, e soprattutto dai suoi figli, perdendo gli anni più belli e importanti per dei bambini.

Luca non ha più l’età di un bambino sognatore, i suoi sogni sono di tornare dai suoi cari, essere un uomo libero, ritornare a far parte della società.

Come tutti i finali delle fiabe c’è un lieto fine, ma in questa è ancora da scrivere perché non è una fiaba ma la storia di un uomo detenuto che vorrebbe dare una svolta alla sua vita.

Quindi, chi può giudicare un altro uomo che vorrebbe riscattarsi in questa società? Bisognerebbe che ognuno di noi si facesse un esame di coscienza e nessuno puntasse il dito per dire “quello è lo scarto della società”, perché pure il più santo può sbagliare e bisogna tendere la mano per aiutare il prossimo.