Il male dentro di noi

Confido in percorsi possibili di rieducazione per spezzare la catena del male, agendo sulle biografie del carnefice e della vittima per variare, ancora una volta, il loro punto di vista. Non vedo altra via se non quella di portare l’uno a contemplare l’universo dell’altro

 

di Adriana Lorenzi, Docente a contratto presso l’Università degli Studi di Bergamo

di Tecniche di scrittura, conduce laboratori di scrittura autobiografica nelle carceri, e non solo

 

Impossibile non aderire anche quest’anno al richiamo da sirena del convegno di Ristretti Orizzonti, perché questo è per me l’appuntamento annuale di maggio al Due Palazzi di Padova. Un richiamo a essere presente per ascoltare e annotare i discorsi dei tanti relatori e dei redattori della rivista per ripensarci poi con calma e trasformarli in attività di scrittura e riflessione nel carcere dove lavoro a Bergamo.

Quest’anno la suggestione era ancora più forte a partire dal titolo del convegno Il male che si nasconde dentro di noi che mi ha evocato immediatamente una delle mie maestre, delle mie guide, delle amiche di carta che mi accompagnano con i loro scritti. È Hannah Arendt che ha parlato del male e della sua banalità, che si annidano nell’incapacità umana di vedere le cose dal punto di vista di un altro. Il male fiorisce come edera, quando ciascuno si trincera nel suo piccolo mondo e proietta sulla realtà il suo sguardo come luce di faro che tanto, troppo, lascia nell’ombra e getta la sua rete di parole stereotipate che si lascia sfuggire molte verità. In Italia, come ha affermato Riccardo Iacona il giornalista del programma televisivo Presadiretta, “Sappiamo tutto e non facciamo niente”. Accade quando ci si sente schiacciati dai discorsi generali, respinti dal pessimismo dell’ideologia, ciechi e sordi agli echi delle contingenze perché, come ha detto il criminologo Alfredo Verde “il livello della riflessione scientifica molto spesso perde la freschezza del contatto con le emozioni”.

Ogni relatore del convegno è invitato a usare una modalità narrativa e poco dottorale, a offrire la sua testimonianza di esperienza vissuta e ripensata per poter essere utile, efficace nel momento in cui passa dalla dimensione privata e personale a quella pubblica.

Le relazioni più coinvolgenti sono state quelle che sono partite con tono emozionato e sommesso. Le voci più ascoltate in un silenzio rispettoso sono state quelle, all’inizio, più incerte, quelle che hanno ammesso di non sapere quale definizione dare al male, ma hanno continuato a cercare le parole per dirlo con pause e riprese, senza adottare specialismi e toni da comizio. Degli uni e degli altri sono ormai stanca, poiché ribadiscono quello che si dovrebbe fare, ma non si fa, l’ottimale che non concede alcuno spazio al possibile, piuttosto allarga pozzanghere di impotenza di fronte alle quali ci si arrende o nelle quali si rischia di annegare. Ho ascoltato invece con trepidazione quelle che potrei chiamare voci di controcanto che non hanno raccontato attraverso esempi dimostrativi, ma riflettenti che, direbbe la Arendt, indicano e non generalizzano.

Sono state le voci dei redattori di Ristretti Orizzonti che aprendo la sezione dedicata di volta in volta a un tema specifico hanno offerto spesso dubbi più che certezze, hanno aperto domande senza chiudere con risposte.

Penso a Dritan che ha parlato del tempo vissuto all’insegna di coraggio, onore e orgoglio, quelle parole che lo hanno portato ad aderire alle faide e quindi all’uccisione di un ragazzo prima di ricevere il perdono dal papà della sua vittima. È stato il perdono ad avviare il suo processo di ripensamento e cambiamento.

Penso invece a Marina Valcarenghi che mi ha ipnotizzato con la sua testimonianza e anche con la sua postura. Gomiti appoggiati sul tavolo dei relatori, mani abbarbicate al microfono avvicinato alla bocca e occhi grandi puntati su di noi, il suo pubblico: tutta la sua postura significava che quello che aveva da dire era davvero cruciale. Una questione di vita e di morte e non c’è stato margine per la distrazione e il nostro ascolto si è fatto attento oltre che rispettoso. Si è chiesta da subito cosa diavolo fosse il male. Il male è sfuggente, perché cambia forma nel tempo e anche nei diversi contesti. È però circoscrivibile a quei comportamenti considerati intollerabili dentro quel tempo e quel contesto. Il male è necessario perché c’è e ci dà la misura del bene. È nel carcere di Opera che Marina ha introdotto la psicoanalisi per le sezioni protette dove ci sono uomini che incarnano il male, quei ‘mostri’, così come vengono dipinti dalla peggiore informazione mediatica, che hanno agito la violenza sui corpi delle donne e dei minori. Lei ha lavorato con loro per aiutarli a liberarsi dei fantasmi che li abitano e accendono la miccia della violenza, della furia distruttiva che si abbatte sulle donne e altre persone che li circondano. Marina ha vissuto la sua esperienza in carcere come un appuntamento impossibile da rimandare per comprendere la sua vita oltre che quella degli altri.

Mi sono sentita molto in sintonia con Marina, attesa anch’io dal carcere perché la vita mi aveva già fatto incontrare il male e io avevo avuto paura dell’uomo che lo aveva causato. Ed è stato il carcere a insegnarmi a non avere paura del male che esiste e si rivela in quegli atti che un essere umano compie contro un suo simile, ma a vivergli accanto per riconoscere i suoi agguati e i suoi trabocchetti. È al suo cospetto che si nutre la fiducia in quel margine di bene che ciascuno può sempre scegliere di far fiorire.

Come afferma Hannah Arendt “il male non è mai radicale, ma soltanto estremo e non possiede né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida” il pensiero perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.

Concentrarsi sul bene che si può coltivare, come si coltiva un giardino, un orto, ma anche come si cura una casa e gli spazi che abitiamo, aiuta forse a non concentrarsi sull’ardua impresa, il poco margine di recupero di uomini violenti, così come ha sottolineato la regista Francesca Archibugi, autrice di un film/documentario Giulia ha picchiato Filippo. Ho apprezzato Adolfo Ceretti che ha puntato piuttosto sulle cesure da provocare dentro le narrazioni degli uomini violenti, dentro i loro pentimenti manipolatori. Come lui, anche io, confido in percorsi possibili di rieducazione per spezzare la catena del male, agendo sulle biografie del carnefice e della vittima per variare, ancora una volta, il loro punto di vista. Non vedo altra via se non quella di portare l’uno a contemplare l’universo dell’altro.

Il male esiste, è ontologico, come ha detto lo psicologo Marco Grimoldi, viene fatto dagli uomini e se nessuno può disfare le azioni compiute – restano le lapidi a ricordare i nomi delle vittime, resta il dolore dei familiari che diventano a loro volta nuove vittime del male che perdura – può però essere introdotta un’ortopedia morale per dirla con Foucault citato sempre da Grimoldi. Si tratta di una sorta di riparazione, di ‘aggiustamento’ di valori e prospettive degli uomini non in punizione, ma impegnati in un processo di rieducazione.

È sempre la Arendt a scrivere: “Condannare e perdonare sono in realtà due aspetti della stessa cosa che rappresentano, però, principi opposti. La maestà della legge esige che tutti siamo uguali dinanzi ad essa, quanto a dire che conta l’azione, e non la persona che l’ha commessa. L’atto di grazia, al contrario, valuta la persona: c’è condono per l’assassino o il rapinatore, ma non per l’assassinio o la rapina. Chi ha commesso il fatto, ma non il fatto in sé, può sperare nella grazia: per questo si pensa generalmente che solo l’amore abbia il potere di perdonare. Comunque sia, noi perdoniamo la persona, mentre la giustizia esige che tutti siamo uguali davanti alla legge, la grazia, invece, si basa sull’ineguaglianza degli uomini, e ciò fa sì che ogni uomo conti più delle sue azioni”.

A Padova si vede quanto contino più gli uomini delle loro azioni e quanto ogni detenuto non sia soltanto ‘un reato che cammina’, ma un uomo che ha lavorato per far funzionare la complicata “macchina” di un convegno aperto a tanti ospiti.

Quest’anno io avevo accanto a me un punto di vista completamente diverso, quello della figlia di Dritan ed è stato sicuramente un privilegio assistere al convegno accompagnata dal suo sguardo. Da anni conosco Dritan e sono stati i suoi scritti prodotti durante il mio laboratorio di scrittura a Padova che mi hanno permesso di conoscere non solo lui, ma la figlia della quale non ha mai smesso di raccontare. La ferita più dolente quella di non averla potuta crescere. L’orgoglio più grande quello di presentarmela in occasione del convegno.

Stavo seduta nella mia solita sedia in prima fila per non perdere nulla sul piano della vista e dell’udito dei diversi interventi e Dritan si è diretto verso di me e mi ha ‘ordinato’ – è il verbo più corretto per dire del suo tono – di tenere un posto per sua figlia che stava arrivando. Tenendole il braccio attorno alle spalle l’ha accompagnata da me per presentarmela e mostrarle il suo posto. Quello e non un altro, anche lei davanti a tutti gli altri perché sentisse bene, perché sapesse del lavoro suo e di tutta la redazione di Ristretti. Forse perché fosse fiera di lui in quella situazione così diversa dal tempo e dallo spazio dei colloqui.

Suela si è accomodata dopo avermi salutato con una stretta di mano timida e avermi allungato un cioccolatino. Mi ha intenerito il gesto, la sua giovinezza e il suo sorriso lieto e imbarazzato a un tempo. Non aveva un foglio e neppure una penna, così Dritan mi ha pregato di dargliene una, mentre lui recuperava il foglio. Era preoccupato che lei seguisse con attenzione e, come gli anni di redazione gli hanno insegnato, non si può stare attenti senza prendere appunti, senza afferrare delle parole al volo e trattenerle sul foglio bianco affinché inneschino nuovi ragionamenti e altre suggestioni. A un certo punto si è accorto di quanto Suela patisse il freddo della palestra e così le ha fatto arrivare da un compagno il suo giubbino, affinché lei smettesse di rabbrividire. Piccoli gesti di cura possibili anche in galera, nonostante la galera.

Suela si è commossa quando il padre nel suo intervento l’ha citata e ha dichiarato la felicità di averla finalmente lì ad ascoltarlo mentre parlava della sua esperienza, della sua trasformazione. Suela è arrossita quando lui ha comunicato a tutti di essere orgoglioso della sua bellezza e di quello che lei era diventata, crescendo nonostante la sua assenza.

Sono i figli e le figlie come Suela che aspettano con speranza a diventare l’ancoraggio ai tanti ‘mai più’ pronunciati dai loro genitori in detenzione. Quando ci si sente aspettati da qualcuno, è più facile muoversi verso qualcosa di diverso. Una vita altra rispetto a quella già vissuta.

Infine è toccato a Suela parlare al pubblico di cosa ha significato, nella sua vita di bambina, adolescente e ora giovane donna, avere un padre in carcere. Come Ornella Favero si è sempre posta alle spalle dei redattori chiamati a parlare dal microfono per incoraggiarli e sostenerli, così Dritan è stato accanto alla figlia che non parlava al pubblico ma a lui, a Ornella, a Silvia Giralucci, alle persone al tavolo dei relatori che hanno lavorato negli anni per non farla sentire sola e diversa perché marchiata quale figlia di un omicida, di un detenuto.

È riuscita a raccontare il bisogno di nascondere alle compagne di scuola, alla sua migliore amica la vergogna di avere un padre in galera con delle bugie... mio padre è via per lavoro… finché non è riuscita a raccontare la verità al suo ragazzo e si è sentita meglio, più leggera e il rapporto con il suo ragazzo si è fatto più autentico.

Si può avere paura di raccontare. Si può anche non avere alcuna forza di farlo. Eppure non smetto di credere che le parole – smozzicate, incerte, balbuzienti – siano il nostro antidoto alla vergogna, al rancore, al senso di impotenza, all’approssimazione, all’ingiustizia avvertita nei confronti della vita, del destino che ci è toccato in sorte.

Ogni volta che esco dal convegno di Ristretti Orizzonti mi accorgo che nella mia mente rimbalzano i tanti discorsi ascoltati e, mentre guido, penso a nuovi progetti, catalogo mentalmente i libri citati e che devo assolutamente leggere. Allora mi ritrovo sempre a pensare che in gioco non c’è solo l’informazione sul carcere dal carcere, neppure soltanto i detenuti, ma la vita tutta che chiede di essere compresa, che implora di essere vissuta pensando e capendo. Non si può finire così come si è cominciato: inconsapevoli di sé e del mondo circostante.

Questa volta, però, mi sono portata via anche il sorriso di Suela e quello di suo padre e l’immagine di lui che la tiene sulle ginocchia nonostante non sia più una bambina.

Il carcere ferma sempre il tempo quando non arriva purtroppo a spezzarlo, eppure almeno in qualche caso le stagioni da vivere possono essere un po’ recuperate e rilanciate in nuove forme di re­lazione.

 

 

 

La forza di un confronto fatto all’interno di un carcere

Un’opportunità straordinaria di pensare, riflettere,esaminare con scrupolosa attenzione la propria vita

 

di Lorenzo Sciacca, Ristretti Orizzonti

 

Oggi, nella redazione di Ri­stretti Orizzonti, ho avuto il mio primo incontro con le scuole.

È un’opportunità straordinaria confrontarsi con ragazzi che, con la loro curiosità, ti pongono domande che ti fanno riflettere sul tuo passato. Anche sentire i passati e le motivazioni che ci sono dietro ad un reato dei miei compagni è motivo di riflessione. Anche io sono un detenuto, ma raramente mi sono soffermato a riflettere del perché abbia commesso dei reati, mi sono sempre giustificato dando colpe alle istituzioni, dicevo che ero frutto di un sistema marcio. Esclusivamente alibi! Ho 37 anni, ho un passato di carcere pari a 16 anni, ho una condanna di 30. Le procure dei vari tribunali, che mi hanno giudicato, mi ritengono un rapinatore seriale. Lo sono? Forse si. Considerato che dei miei reati ho fatto uno stile di vita, era come professare una mia religione, un mio culto, sempre con la solita fedeltà che un seguace ha.

Una professoressa delle scuole oggi ha fatto una domanda: “Qualcuno ha mai avuto l’opportunità di incontrare le vittime dei reati”?. Sono contento che ha risposto una persona dentro per il mio stesso reato. Questo perché ho sempre pensato di essere un rapinatore, il quale aveva la convinzione che l’unico danno lo aveva recato alle assicurazioni delle banche, dunque vittime non ne avevo.

In realtà, con un semplice concetto espresso da questa persona in risposta alla domanda, quindi grazie a un confronto, sono arrivato a concepire una realtà diversa. Que­sto mio compagno ricordava che, durante un incontro con le scuole, una professoressa aveva raccontato di essere stata presa in ostaggio durante una rapina in banca. Ascoltando questo episodio ho capito anch’io il disagio che questa signora aveva subito, e ho rivisto nei miei ricordi tutte quelle persone che per un motivo o per l’altro ho minacciato, anche se devo dire che le minacce in sé erano finalizzate esclusivamente alla rapina in banca, ma logicamente le persone che ricevevano tali minacce sicuramente non sapevano che era per una motivazione di­versa. Dunque il terrore si poteva leggerglielo negli occhi. Non ricordo neanche quanti ostaggi io ab­bia preso in tutte le rapine che ho fatto, credetemi sono tante perché mi davano una sicurezza in più per la fuga, oppure mi viene da pen­sare a quante volte ho trovato una madre con i propri figli.

Ecco che trovo le mie vittime. Onestamente mi devo ancora abituare a questo pensiero, ma devo farlo mio perché è la verità. Non voglio essere ipocrita dicendo che oggi mi dispiaccia per queste vittime, ancora non ho raggiunto questa maturazione, però mi accorgo che sto acquisendo, dentro un confronto, elementi nuovi su cui riflettere in questi miei futuri anni di detenzione.

Questa è un’opportunità straordinaria, pensare, riflettere, esaminare con scrupolosa attenzione il proprio vissuto, e dentro esso trar­re delle conclusioni sulle proprie azioni.

 

 

 

Io ho fatto del male e non ho ancora potuto fare nulla per rimediare

Brutta sensazione quella di avere bisogno di chiedere scusa a qualcuno e non poterlo mai incontrare

 

di Erion Celaj, Ristretti Orizzonti

 

Ho quasi trent’anni e sono stato da sempre un grande sognatore, sognare si dice non costa nulla eppure nel caso mio i sogni sono costati svariati anni di carcere. Essendo figlio unico maschio, da adolescente pensavo che tutto mi fosse dovuto perché i miei genitori assecondavano ogni tipo di pretesa che esprimevo.

Appena finii la terza media, il pre­mio fu uno scooter nuovo: mi dava un senso di appagamento infinito, avere un mezzo così a quattordici anni mi faceva sentire superiore ai ragazzini della mia età, e forse era proprio da quei segnali insignificanti di allora che incominciava a crescere l’uomo errante che diventai negli anni avvenire. Il senso di superiorità di allora mi ha fatto commettere atti sconsiderati, che con l’anda­re del tempo si sono trasformati nella privazione della mia libertà.

Quel tornare tardi la sera, quel non stare alle regole di una famiglia normale mi hanno fatto allontanare da casa, tutto è avvenuto in modo naturale per me e drammatico per i miei genitori: io mosso dai miei sogni volevo andare oltre, i miei genitori scossi dalle mie scelte non chiudevano occhio la notte. Cosi mi ritrovai libero e spensierato a vagare con i miei sogni, in partenza vedevo solo il colore del denaro, delle macchine e del­la bella vita, ma durante il viaggio ho conosciuto anche la cocaina. Desideravo queste cose, ma come le avrei realizzate non lo sapevo, avevo solo la fame dentro, brutta bestia la fame quando ti colpisce e per sentirla non è necessario essere poveri economicamente. Io provengo da una famiglia che non mi ha fatto mancare niente nei limiti delle loro possibilità, ma la mia fame di allora era la fame dell’anima, nulla mi soddisfaceva. Forse proprio il mio carattere ha provocato certe scelte, poi i primi soldi sono arrivati, erano frutto di affari illeciti ma dopo neanche due giorni già erano finiti e io mi sentivo un idiota, mi ero sporcato le mani e tutto per pochi euro. Avevo deluso le mie stesse aspettative, e allora ecco che quel lato oscuro che si nasconde dentro ogni uomo ha preso il sopravvento in me, e mi ripromisi di “andare oltre”, il “di più, sempre di più” era ciò che volevo sin dall’inizio.

I primi tempi furono accettabili per le mie aspettative, ma si era introdotta una novità nella mia vita: avevo conosciuto i night club, i locali di lapdance ed ogni tipo di locale notturno, avevo appena 18, 19 anni e mi piaceva vivere cosi, ma il culmine lo raggiunsi quando conobbi la cocaina. Una sera in uno di quei locali notturni, mentre ero preso dall’euforia dell’alcool, spuntò fuori la coca, ricordo come se fosse oggi cosa pensai, “io ti posso dominare” , e sniffai come un dannato quella notte. A quelle notti ne seguirono altre, i sogni del ragazzino che ero stato divennero realtà, con una premessa però, la testa non la voltavo mai indietro per osservare ciò che provocavo agli altri e a quelli che mi amavano.

I sogni si interruppero al mio primo arresto, la prima notte in carcere pensavo che fosse normale e che sarei uscito ancora più forte da quell’esperienza, ci rimasi poco in carcere la prima volta, quando uscii nulla cambiò, da una parte io e dall’altra loro, parenti e genitori che mi sembrava fossero marziani con le loro tiritere e i loro consigli. Ho continuato a sbagliare ancora, se ci fosse un manuale sugli errori dell’uomo penso di averli commessi quasi tutti per seguire i sogni di allora. Oggi sono rimasto ancora un sognatore, ma un sognatore strano, sogno di riavere tutto ciò che avevo quando partii da casa dei miei genitori, sogno di poter stare vicino a mia madre e mio padre, sogno di svegliarmi una mattina e poter fare la cosa più semplice al mondo, prendere un caffè al bar, sogno quella normalità che tanto ripudiavo durante la mia crescita, e la cosa che sogno ancora di più è avere indietro i migliori anni della mia vita, perché dai 18 di ieri fino ai quasi trenta di oggi la maggior parte l’ho trascorsa in carcere. Vorrei non aver fatto azioni che hanno fatto del male agli altri e a me, vorrei non aver mai conosciuto la cocaina, oggi ci penso e mi dà i brividi, la cocaina è un male straziante, ti distrugge lentamente mentre tu senti di essere più lucido che mai.

Proprio non mi do pace come pos­sa aver io fatto uso di cocaina, la mia famiglia, mio padre e mia madre, dovevano lavorare otto ore al giorno per poter portare cento euro a casa e io ne spendevo il doppio o il triplo al giorno per un vizio malato, anzi, non li spendevo io ma ancor peggio la vendevo ai figli degli altri, di famiglie che quei soldi li avevano sudati, ma anche se li avessero ereditati non cambiava niente, nulla ti da il diritto di ingorgare le vene di un figlio altrui.

Il tempo sta trascorrendo e sperò che i sogni di oggi mi accompagnino nel mondo libero, indietro non posso più tornare, assieme ai miei sogni un pensiero mi assale di frequente: io ho fatto del male ad altri e durante questi anni non ho potuto fare nulla per rimediare, brutta sensazione quella di avere bisogno di chiedere scusa a qualcuno e non poterlo mai incontrare. Le istituzioni si fermano sempre al primo passo, condannano e diventi un numero di matricola, non danno un volto a chi sbaglia e neanche a chi è vittima, entrambi si rimane nell’anonimato, non c’è bisogno di essere Freud per capire che i contatti umani ti migliorano e che una comunicazione semplice e sincera potrebbe far capire cose che da solo ci metteresti una vita a cogliere.

Chi sbaglia sente spesso il bisogno di dare qualcosa, forse perché il carcere ti rende rozzo esteriormente e però anche sensibile inte­riormente, e quella sensibilità ha la necessità di appigliarsi da qualche parte per non farci sentire delinquenti per il resto dei propri giorni.

Noi abbiamo fatto del male a voi nell’insieme (voi sotto forma di una grande famiglia che si chiama società), dunque le sorti del nostro reinserimento dipendono anche dalla società, perché quando sarà finito il lavoro delle istituzioni e noi ritorneremo liberi, starà a voi se noterete solo l’aspetto esteriore, o anche quella sensibilità interiore che ci impone di ridarvi qualcosa indietro con delle buone azioni.

 

 

 

Emigrazione, illegalità: a volte sono le uniche strade per moltissimi giovani

Succede in tanti Paesi del mondo, ma anche nell’Italia del Sud, che i ragazzi passino dalla strada, ai reati, al carcere

 

Ci sono regioni del nostro Pa­ese dove è meno facile vivere rispettando la legge, o perché la criminalità organizzata è for­te, le istituzioni sono deboli e il senso della legalità basso, o perché trovare lavoro è compli­cato, e per farlo bisogna andar­sene. La realtà è che i sogni dei ragazzi sono ovunque gli stessi, solo che per realizzarli la strada finisce troppo spesso per essere quella dell’emigrazione, e a vol­te anche quella dell’illegalità. E così il carcere è pieno di persone che arrivano da Paesi stranieri, ma anche dal nostro Meridione, dalla Sicilia, dalla Sardegna, solo che noi ci dimentichiamo facil­mente di essere stati un Paese di forte emigrazione, verso Paesi stranieri o al nostro interno, dal Sud al Nord. Ce lo ricordano però le carceri, e le persone che le abitano, attraverso le loro te­stimonianze.

 

di Luca R.

 

Volevo fare tutto e AVERE TUTTO SUBITO

 

Sono Luca e mi trovo ristretto presso la Casa di reclusione di Padova.

Sono un ragazzo di Catania e già dirvi questo dovrebbe mettervi di fronte a una realtà molto diversa da quella che può essere il nord.

La mia famiglia rispecchia la classica famiglia lavoratrice del sud, cioè lavoratori sottopagati, dunque si sopravviveva con mio padre in giro per il nord facendo il muratore, invece mia madre arrangiava le giornate facendo la casalinga. Io davo il mio contributo lavorando in un forno a pietra di notte. Dicia­mo che la mia età non corrispon­deva a quella dell’anagrafe, avevo delle responsabilità a cui far fronte e forse proprio quel peso, che un bambino non dovrebbe mai ave­re, è stato uno dei motivi di una scelta di vita.

Era una notte come le altre, calde, molto calde data l’elevata tempe­ratura del forno, non ero da solo a lavorare, con me c’era un uomo adulto, un padre di famiglia. Quel­la notte, il nostro principale ebbe l’idea di lasciare a casa questo padre per sfruttare la mia bravura nel lavoro e, ovviamente, guadagnarci sotto l’aspetto economico. Ho sempre odiato le ingiustizie e quella lo era, così decisi di licen­ziarmi. Non pensai che anch’io avevo delle responsabilità nei confronti della mia famiglia, comunque io ero giovane e poi tut­to sommato questo lavoro non mi piaceva più di tanto.

Avendo le giornate completamente libere, mi avvicinai di più a una compagnia del mio quartiere, che già conoscevo ma per l’impegno del lavoro non riuscivo a frequentare. Non potevo avere quello che avevano gli altri ragazzini, perché non potevo permettermelo, così la decisione fu presa in gran fretta: cosa c’era di meglio di una rapina in una banca che poteva consegnarti soldi veloci e soprattutto in contanti? Ancora prima di farla, mi ricordo che già programmavo cosa mi sarei comprato con i soldi rubati, il motorino era una priorità necessaria, ti permetteva di essere autonomo, di avere le ragazzine vicino e di andare a ballare anche fuori città. Quello volevo. Essere libero.

Ma ecco che tutti questi bei pro­getti e sogni in un attimo si tramutarono in incubi. Il carcere minorile. Prima di essere portato al carcere passai tre giorni al Centro di prima Accoglienza. Accoglienza è una parola che dà un senso piacevole, a me per esempio fa pensare a delle braccia aperte. Appena mi interrogarono mi convalidarono l’arresto e fui portato al carcere. Ero spaventato ma cercavo di non mostrarlo, e quando mi accorsi di avere attorno ragazzi che conoscevo, essendo del mio quartiere, mi tranquillizzai. Eravamo molto uniti e, pur essendo seguiti da educatori e assistenti sociali, il nostro pensiero era di essere dei duri, dunque questo significa anche di dimostrare di esserlo.

Mio padre non la prese per niente bene, mi veniva a trovare ogni 3/4 mesi ma per lettera era sempre vicino. Come al solito mia madre era presente e puntuale, una volta si presentò con 40 di febbre, lì capii la sofferenza che stavo recando alla persona più importante che ho nella mia vita.

Il più delle volte ero nelle celle di isolamento, per via dei casini che combinavo. Dopo due anni uscii, non per aver finito la mia condanna, ma per scadenza. Uscii con gli arresti domiciliari, per cinque mesi dovetti stare chiuso in casa. Al termine ricominciò la mia vita da ragazzo libero. Gli anni passavano senza che ne fossi consapevole. Il pensiero del divertimento, delle ragazze ma soprattutto dei soldi non era passato, continuava a farmi crescere con la convinzione che potevo fare tutto e avere tutto subito. Così cascai ancora nello stesso errore.

Il problema è che non ti fanno capire la realtà vera qual è, non ti aiutano a trovare la motivazione giusta per capire gli errori che hai commesso. Non c’è una prevenzione vera.

Ho tanti rimpianti e questo è uno su tutti, l’aver perso quel calore della mia famiglia. Non aver vissuto a pieno quella che credo sia l’età più bella e più importante per un adolescente.

 

 

 

Ero un ragazzo giovane in mezzo alla “crema della crema” della malavita

 

di Paolo Cambedda

 

Mi chiamo Paolo, sono nato in Sardegna in un paese alle pendici del Gennargentu. Sono figlio di un pastore e io stesso ho fatto il pastore in un ambiente patriarcale. Vengo da una fa­miglia abbastanza povera, ma nonostante la povertà non ci è mai mancato l’indispensabile per vivere. Devo premettere che in quei luoghi di pastori, banditi e gente onesta ma duri come le pietre di quel monte, per poter reperire l’indispensabile si doveva andare con il coltello in mezzo ai denti. Un luogo dove l’infanzia non esiste, dove devi fare alla svelta a diventare un ometto, portandoti sulle spalle il peso di una vita che un bambino stenta a reggere.

All’età di tredici anni, vedendo quanti sacrifici doveva fare la mia famiglia, è venuta fuori in me una forma di ribellione, così ho deciso di cercare un altro lavoro, panettiere, manovale, e altri piccoli lavoretti. Ma tutto questo non mi portava a rag­giungere quel traguardo che mi ero imposto.

Quando ho compiuto i dicias­sette anni, ho deciso di emigrare in una grande metropoli, un po’ per caso sono approdato a Milano dove c’era un mio fratello che faceva l’infermiere pres­so l’ospizio per anziani. Li sono stato assunto anche io. Oltre a lavorare studiavo come ausilia­re generico d’infermeria, tutto sembrava andare bene, fino a quando i debiti, per poter pa­gare la pensione dove dormi­vo e mangiavo, mi hanno sommerso.

Il proprietario della pensione era proprio del mio paese. L’orgoglio e la vergogna di non poter far fronte alle spese mi hanno fatto cadere in una crisi. Da lì iniziò il mio deragliamento, cosi decisi, invece di avere l’umiltà di chiedere aiuto, che con l’ultimo stipendio mi sarei comprato un’arma. E ben presto mi sono aggregato ad una compagnia di ragazzi che vivevano alla “bene e meglio”, accordandoci di fare qualche piccola rapina. Rapina perché durante la mia infanzia avevo fatto pratica con le armi, poiché nel mio paese quasi ogni famiglia possedeva un’arma, anche se illegalmente. Cosi facendo tutto mi sembrava facile, sino al punto di farmi perdere il lume della ragione.

La realtà che vivevo mi dava euforia, i soldi facili mi permettevano di avere cose che non avrei mai pensato di poter avere, portandomi a spostare i limiti sempre più oltre.

Poi il mio primo arresto per una rapina in banca. In carcere, nel­la sezione dove mi avevano collocato, c’era “la crema del­la crema” della malavita, e con il contributo dei giornali, che descrivevano le mie gesta in modo esagerato, mi sono montato la testa. E quando uscii, dallo sprovveduto che ero quando sono entrato, mi ritrovai a essere un vero e proprio rapinatore, quasi senza neanche saperlo.

Da li, ho cominciato ad alzare il tiro, fino al punto di usare armi sempre più potenti, finché in un conflitto a fuoco con dei portavalori ho avuto la peggio, rimanendo ferito, ed uno dei miei compagni è stato ucciso. A seguito di ciò, facendomi curare clandestinamente ho riportato anche delle complicazioni fisiche che mi hanno segnato per sempre.

Ed è cosi che stupidamente ho buttato via la mia vita, perden­do gli affetti più cari e persino la mia salute.