Capitolo settimo: Il cambiamento drammatico del sé

 

Il cambiamento drammatico del sé

 

di Adolfo Ceretti

 

“Nel corso dell’esistenza di ognu­no di noi, il nostro Sé può essere messo in discussione, riorientato e fatto slittare “drammaticamen­te” verso una nuova conformazione/organizzazione valoriale e simbolica. Detto altrimenti, con l’espressione “cambiamento drammatico di sé” indichiamo quei mutamenti del Sé assai simili ai processi che accadono nel corso di una “conversione” ma che, a differenza dei primi, sono drastici e improvvisi e non implicano una “istituzionalizza­zione” del processo di trasforma­zione. In questi frangenti di crisi, la consapevolezza della nostra comunicazione interna tende a farsi particolarmente acuta come quando, in una situazione pro­blematica, parliamo con noi stessi per valutare le diverse vie d’u­scita. Ma ora si tratta degli snodi decisivi, i più dolorosi e “privati”, delle esperienze biografiche. Rei e vittime, talvolta, incontrano queste trasformazioni profonde”

 

 

 

Il possibile “cambiamento drammatico di sé” dei “cattivi per sempre”

 

di Ornella Favero

 

Il capitolo dedicato al “cambiamento drammatico di sé” inizia con una persona che è da poco tempo nella nostra Redazione, ma che purtroppo ha una storia carceraria pesante: Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo ostativo. Quando è venuto nella nostra Redazione, era il primo di una sezione di Alta Sicurezza ammesso a farne parte, e non è stato facile, per lui e per noi. Perché noi siamo continuamente abituati a questo confronto serrato soprattutto con i ragazzi delle scuole, quindi le persone si mettono in discussione, sono attente alle pa­role, imparano a pensare che è più importante l’ALTRO, lo studente che incontri, del proprio star male, è più importante quel ragazzo che hanno davanti. Allora con Carme­lo abbiamo cominciato a dire che la sua storia è una storia particolarmente difficile, ma ragionare sull’ergastolo ostativo con i ragazzi delle scuole, far capire che comunque stiamo parlando di persone, non “reati che camminano”, è stata una tappa impor­tante del nostro progetto, in cui abbiamo cercato di “umanizzare” anche i “cattivi per sempre”, quelli che invece noi pensiamo che possano essere protagonisti di quel “cambiamento drammatico di sé”, di cui vogliamo parlare in questo capitolo della nostra narrazione. Quando Carmelo Musumeci ha discusso la sua tesi di laurea, il suo timore più grande era che sua figlia lo rimproverasse perché sbaglia i congiuntivi: ecco, mi ha fatto sorridere questo particolare, ma mi ha fatto anche capire che in questa esperienza di racconto di sé devono venire fuori queste piccole cose, devono venire fuori le persone con tutta la loro umanità. Questa credo che sia la nostra grande battaglia.

 

 

 

Che cosa se ne fa la società della mia sofferenza e di quella di tanti ergastolani?

Serve una pena che abbia un senso, io per la prima volta davanti ai ragazzi delle scuole, di fronte alle loro domande, mi sono sentito colpevole, cosa che non mi è mai capitata in venti anni di carcere

 

di Carmelo Musumeci, Ristretti Orizzonti

 

Ho un po’ di mal di mare perché non sono abituato a vedere tutta questa gente e poi soprattutto è qui che mi sta ascoltando mia figlia, non è facile è la prima volta che succede, perché l’ho lasciata che aveva otto anni, adesso ne ha trenta. Sono veramente emozionato, perché vivo da 23 anni in queste sezioni ghetto, l’Alta Sicurezza da quasi sedici anni, e prima sono stato sottoposto a un periodo molto lungo di regime di 41bis.

In queste sezioni si forma veramente una sottocultura, nel senso che si parla sempre delle solite cose, non ci si accorge che il mondo è andato avanti, si rimane fermi. Sono sezioni in cui l’età media è tra i 50 e i 60 e siamo quasi tutti ergastolani, “Uomini Ombra”, come ci chiamiamo fra di noi, quindi non si parla mai del futuro, non si parla mai di speranza, perché è inutile parlarne, non ne abbiamo, abbiamo anche smesso di sognare perché ci fa più male.

Quando sono arrivato a Padova Ornella ha avuto il coraggio di chiedere di farmi scendere, in via sperimentale, nella redazione di Ristretti Orizzonti. Non nascondo che i primi tempi per me sono stati difficili, durissimi, mi veniva voglia di scappare per rifugiarmi nel sicuro della mia cella lontano da tutti.

Nella redazione c’è questo progetto collettivo con le scuole che è importantissimo. I primi tempi avevo proprio paura, per la prima volta davanti a quei ragazzi, di fronte alle loro domande, mi sono sentito colpevole, cosa che non mi è mai capitata in venti anni di carcere. In pochi mesi, dentro di me, c’è stata una vera e propria rivoluzione, perché sei disarmato davanti alle domande dei ragazzi, davanti ai loro occhi, davanti ai loro visi, loro fanno delle domande che veramente dentro di te fanno scattare dei meccanismi che non mi era mai accaduto di vivere. Allora io, con un po’ di ironia, ho detto ad Ornella: Attenzione qui abbiamo trovato la maniera per sconfiggere la criminalità organizzata. Se li portiamo davanti a questi ragazzi, io penso che veramente si raggiungano degli obiettivi importanti.

Io in questi pochi mesi ho fatto un salto di qualità, una vera e propria rivoluzione interiore e credo che questo esperimento andrebbe esportato nelle altre carceri, perché così si possono educare le persone proprio dentro la società, perché non corrano il rischio di diventare asociali. Certo un progetto del genere è molto faticoso per gli stessi interessati, perché è doloroso cambiare in meglio e poi avere il fine pena mai, quindi incredibilmente hai un miglioramento però la sofferenza aumenta, io mi sentivo più sicuro prima, adesso ho perso un po’ la mia identità, la mia identità da cattivo. Perché il carcere, un certo tipo di carcere, come l’hanno descritto, io lo dico spesso, è il posto più illegale di altri, dove al male si aggiunge altro male. Invece con un percorso, come sta accadendo a me in redazione, si possono ottenere risultati incredibili.

Colgo l’occasione per parlare dell’ergastolo ostativo, perché non si può educare una persona senza dirgli il suo fine pena, senza dargli la possibilità di avere un calendario in cella per segnare i giorni che passano. Io lo dico spesso in redazione, che è molto più umana la pena di morte, perché in questo modo è una “morte al rallentatore”. A che serve migliorarsi, crescere anche interiormente, senza poi avere la possibilità di uscire, soprattutto, a che serve alla società murare viva una persona invece di farle scontare una pena in modo utile? Io preferirei scopare le strade di una città, andare in un Pronto Soccorso, assistere gli anziani. Dopo 23 anni di carcere credo che sarebbe ora che io andassi fuori a scontare veramente la mia pena in modo utile per la società. Che cosa se ne fa la società della mia sofferenza e di quella di tanti altri ergastolani? Voglio ricordare, soprattutto, i giovani ergastolani che sono entrati in carcere a 18/19 anni e hanno passato una parte più lunga della loro vita dentro che fuori. Che ne facciamo di queste persone? Qualcosa bisogna fare se veramente si vuole applicare la funzione rieducativa della pena. A me, da questo punto di vista, questi confronti con i ragazzi mi hanno fatto molto bene.

Se invece un uomo viene trattato in maniera disumana, rinchiuso senza speranza, finisce per credersi innocente, diventa innocente a tutti gli effetti. È disumano non capire che, dopo tanti anni di carcere, una persona è cambiata. Quando cambi ti chiedi perché devi continuare a scontare la pena in questa maniera, perché?

Voglio concludere questo intervento dicendo che, per molti di noi, la pena migliore, forse più dolorosa, è il perdono. È importante questo perché fin quando ci tenete dentro, mi rivolgo alla società, alla politica, noi non ci sentiamo colpevoli, io mi sentirei più colpevole se qualcuno mi perdonasse del male che io ho fatto, vorrei rimediare a questo male facendo del bene, ma la vorrei io e molti ergastolani questa possibilità.

Un’ultima cosa voglio aggiungere: ci sono sezioni sotto il regime di 41bis dove i detenuti non possono abbracciare neppure la propria madre o la propria figlia, io ho avuto l’esperienza con mia figlia, quando facevamo il colloquio davanti a un vetro divisorio, lei piangeva perché non potevo abbracciarla, non potevo darle una carezza. Ecco io credo che non si rieduca così una persona, posso capire quando c’è una emergenza come è accaduto nella strage di Falcone e Borsellino, però adesso sono passati vent’anni e non c’è più questa emergenza, non c’è più questa necessità perché così si diseducano anche i nostri figli. Io ho visto come i nostri figli, con i loro genitori sottoposti al regime del 41bis, anche loro cominciano ad odiare lo stato, questo c’è da dirlo.

Ecco perché la legalità, prima di pretenderla, bisogna darla, lo Stato deve iniziare a darla e poi forse può pretenderla.

 

 

 

Persone che compiono gesti violenti,e hanno un’immagine di sé violenta

Con chi dialogavano mentre commettevano i loro reati violenti? ed è possibile per loro cambiare la propria immagine, modificare delle parti di sé?

 

di Adolfo Ceretti

 

La proposta è di chiudere questa giornata con una domanda: “Nel corso dell’esistenza di ognuno di noi, il nostro sé può essere messo in discussione?”. È possibile che a un certo punto della nostra vita noi riusciamo a metterci in discussione, a riorientarci, facendo slittare “in modo drammatico” noi stessi verso una nuova configurazione valoriale e simbolica? Va da sé che ora, qui, stiamo parlando di persone che hanno commesso gesti violenti, che hanno un’immagine di sé violenta e che iniziano un percorso di trasformazione. È possibile, dunque, per costoro, cambiare la loro immagine, modificare delle parti di sé?

Nel libro Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali (2009), io e Lorenzo Natali abbiamo posto la questione in termini scientifici. Oggi cercheremo di restituirla in modo un po’ più fruibile. Come molti sanno, abbiamo lavorato su un materiale narrativo raccolto attraverso lunghe interviste in profondità raccolte nel carcere di Opera. Gli intervistati erano soggetti che avevano commesso omicidi e violenze sessuali. Nel corso delle nostre interviste abbiamo cercato di mettere i nostri interlocutori nella condizione di aprire un flusso narrativo, di porli il più possibile in contatto con quei mille sé di cui parlava Alfredo Verde, e di raccontarci che cosa si dicevano, che cosa pensavano, e con chi dialogavano mentre commettevano i loro reati violenti.

Queste parole sono molto familiari per chi ha partecipato alle riunioni della redazione di Ristretti Orizzonti, perché ci abbiamo lavorato sopra parecchio.

Una delle questioni che nel libro mettiamo maggiormente in evidenza è il ridimensionamento di un mito che, nella seconda parte del secolo scorso, ha occupato una posizione di privilegio nel pensiero criminologico, cioè a dire il mito psicopatologico. In breve, stiamo parlando della convinzione, assai diffusa, che i reati violenti siano commessi, nella maggior parte dei casi, da persone affette da disturbi psichiatrici. Nella logica comune infatti, è molto rassicurante pensare che una persona cosiddetta normale non possa commettere certi delitti, che per gravità e per mancanza di provocazioni appaiono assolutamente irrazionali, insensati, gratuiti e incomprensibili. Invece accade il contrario. Quotidianamente e ovunque persone non affette da disturbi psichici attaccano il corpo di qualcun altro. Le violenze accadono negli spazzi urbani o extraurbani, nei caseggiati che abitiamo, nei luoghi in cui lavoriamo, e producono inquietudine, sconcerto e l’urgenza di prenderne, in qualche modo, le distanze.

Spaventa e perturba doversi arrendere a riconoscere che, nel manifestarsi di molti gesti distruttivi, è rinvenibile un ruolo “attivo e riflessivo” dell’individuo, lo stesso che presiede e guida ogni altra azione, anche quella non violenta. In breve quello che io e Lorenzo sosteniamo è che in quasi tutti i delitti violenti è possibile ricostruire, se si riesce a dialogare a fondo con le persone che li hanno commessi, l’istante in cui è stata pre­sa una sorta di decisione di commettere il reato. Se, dall’esterno, essa può sembrare dettata dalla casualità noi scommettiamo, al contrario, che quasi sempre essa si appoggia, invece, ad alcune conversazioni interiori, dei veri e propri soliloqui che, per quanto in modo breve, in maniera sempre fallibile, indicano, a chi li compie, come certi elementi, certe credenze, certe idee, certi desideri e motivazioni abbiano a che fare con lui. Nel nostro caso come alcuni desideri e alcune motivazioni siano del tutto coerenti con il commettere un gesto violento.

Ecco: Lorenzo e io ci occupiamo soprattutto di questi temi: di come gli uomini parlano a se stessi, che cosa si raccontano quando decidono di comportarsi così come si comportano, anche in modo violento.

Oggi, però, non vogliamo approfondire questa parte della nostra ricerca, quella che ha studiato le conversazioni interiori di chi attacca il corpo di un “nemico”. Vogliamo al contrario spostare il discorso su quei soliloqui che gli uomini e le donne inaugurano quando iniziano ad abbandonare un’im­magine violenta di sé all’interno di un faticoso e mai lineare percorso di riconoscimento dell’altro, inteso come essere singolare, come l’altro possibile di una relazione.

È un percorso irto di difficoltà, di oscillazioni, di avanzamenti e indietreggiamenti.

Prima di dare la parola a Lorenzo, che entrerà più dettagliatamente nel merito del discorso, vorrei leggervi un frammento di una delle nostre interviste, che parla di un uomo che aveva iniziato a commettere delitti violenti. Dopo l’incontro con una ragazza, della quale si era perdutamente innamorato – e che lo aveva “cambiato” –, è accaduto un evento altamente drammatico, che ha riportato il nostro a commettere delitti violenti.

“Per esempio molte volte è anche il destino ad essere infame. Per esempio quando sono uscito dal carcere - sono stato condannato per reati contro la persona, truffe, assegni a vuoto e altro - mi sono messo a lavorare perché quella volta mi sono detto: basta mi sono stufato. Mio padre mi aveva dato un furgone e andavo a fare i mercati e guadagnavo. Poi ho conosciuto una ragazza e mi sono messo con lei, lei mi diceva sempre: “Non rubare altrimenti io non ti voglio più”. Sai com’è la donna quando è innamorata, continuava a dirmi: “Se ti arrestano io non resisto”. Allora per amore io avevo mollato tutto, ero un altro. Pure gli amici alla fine mi stavano alla larga perché o li menavo o dicevo “Statemi lontani”. Oltre ad avere i soldi perché lavoravo onestamente ero pure bravo, ero in regola con licenza, tutto. Non rubavo più perché mi ero innamorato. “Cambio vita e chi se ne frega del resto”, tanto facevo più soldi onestamente che rubando. Quando salutavo qualcuno lei diceva: “Ma chi è quello un tuo amico?” E io: Sì, perché? E lei: “Quello non è un vero amico e te lo dico io”, e alla fine aveva ragione, perché poi guardavo tutto sotto un altro aspetto, sotto un altro profilo, e mi dicevo: “Ma guarda questa, lo sai quanti me ne ha scoperti di amici falsi?”.

Un giorno ero al mercato, stavo vendendo quando arrivano due poliziotti e uno mi fa: “Devi venire con noi”. Ma io sto lavorando, e c’e­ra la mia donna che subito chiede: che succede? L’hanno chiamata in disparte e chissà che cosa le hanno detto, perché poi l’ho vista uscire piangendo mentre diceva: “Ti devono arrestare”. Ero sicuro che da un anno non avevo commesso alcun reato, ma loro: “Ti dobbiamo arrestare perché devi scontare dieci mesi per reati che hai commesso da minorenne. Lo sappiamo che da un anno sei fuori dal giro, però purtroppo la legge è la legge”. Io: “Porca miseria, e adesso come faccio, c’è la mia donna, mi portate via e il banco rimane qui”. E da qui è partito tutto il destino infame”.

 

 

 

L’importanza di porsi la domanda giusta

E di trovare risposte che siano capaci di orientare e orientarci riflessivamente verso modalità di risoluzione dei conflitti alternative all’uso della violenza e del dominio violento rispetto agli altri

 

di Lorenzo Natali, assegnista in Diritto penale e Criminologia all’Università

di Milano-Bicocca e co-autore del libro Cosmologie Violente

 

Ho pensato di iniziare il mio intervento con le parole del sociologo Paolo Jedlowski, che affronta il tema della narrazione – tema che ha attraversato tutte le relazioni e gli interventi che mi hanno preceduto. Scrive Jedlowski (Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, 2000, pp. 34-35): “Se possiamo rendere conto della vita nella forma di storie è […] perché la vita stessa ha in sé una dimensione storica: si svolge nel tempo, ed è del tempo […] che i racconti si occupano. Perché viviamo nel tempo […]. […] la vita si dispone nel tempo, e con ciò ci si offre come un materiale narrabile”.

È proprio vero, ed è questo il senso del nostro sguardo all’agire violento e ai cambiamenti che si possono verificare. Per noi, come criminologi sensibili alle storie e alle narrazioni di chi ha commesso gesti atroci, comprendere la storia di queste persone ha significato anche ascoltare i loro possibili cambiamenti, quelli riusciti o quelli solo tentati, come nel caso che è stato appena letto da Adolfo Ceretti. Quando ci troviamo di fronte a qualcosa di simile a quello che si è ascoltato, ciascuno di noi in qualche modo comincia a raccontare a se stesso la storia della propria vita, e inizia a raccontarsela in un modo nuovo. Si tratta di veri e propri mutamenti, trasformazioni del sé, che assomigliano ai processi di conversione, ma che si esprimono in maniera molto più drastica e improvvisa. Sono i cambiamenti drammatici di sé. Detto in maniera molto sintetica, chi li attraversa non sarà più la stessa persona che era prima.

Vorrei proporvi oggi una rapida analisi, necessariamente semplificata, delle fasi che compongono questo cambiamento. Si tratta di fasi che non si determinano in modo automatico né in modo lineare: prima di concludere una fase occorre, infatti, attraversare una serie di esperienze che sono tutt’altro che scontate. È questa una visione processuale e non deterministica della vita degli individui che mi sembra abbia attraversato molti degli interventi che abbiamo ascoltato e che mi hanno preceduto. Ogni cambiamento segna la fine di un capitolo della propria esistenza e l’inizio di uno nuovo. Il finale, ossia, l’esito del cambiamento, è sempre aperto: nuovi capitoli possono sempre essere scritti. È anche questo il senso delle affermazioni che sono state fatte relative alla convinzione che ognuno di noi scrive e riscrive costantemente la propria vita. La domanda che proveremo ad esplorare è, allora, la seguente: “Come passiamo da un capitolo della nostra vita a quello successivo? Quali sono questi momenti di trasformazione, spesso così dolorosi e per niente scontati?”.

Se il nostro Sé può essere rappresentato e immaginato come un prisma, una vera e propria lente che ci permette di guardare il mondo nel quale siamo immersi e di osservare, al tempo stesso e in maniera riflessiva, noi stessi – la parola riflessività è senza dubbio centrale nella nostra proposta – questo prisma può entrare in crisi e frammentarsi di fronte a un’esperienza sociale drammatica. È un’esperienza sociale che rompe in maniera drastica la trama simbolica che diamo normalmente per scontata. È questa la fase della frammentazione, la prima fase, quella che inaugura un possibile cambiamento personale. Si tratta di un’esperienza radicale, un vero e proprio sconvolgimento – anche questa è una parola che si è potuta ascoltare più volte nel corso di questa giornata. Un’esperienza che non riusciamo ad assimilare né a mettere a fuoco con le lenti che abbiamo costruito nel corso della nostra vita. E così il nostro Sé si spezza: non siamo più in grado di leggere delle direttive chiare su come ci si dovrebbe comportare. Ci troviamo di fronte, in altre parole, a una intelligibilità che all’improvviso sembra mancare, e, ovviamente, ci sentiamo totalmente smarriti, divisi e indifesi, innanzitutto di fronte a noi stessi. Questa è la drammaticità del cambiamento. Il mondo, attraverso questa nuova lente, sembra essersi improvvisamente rovesciato: è diventato del tutto alieno ed estraneo. Si apre così un periodo tormentoso, di autoesame, estremamente riflessivo, durante il quale la nostra autostima si abbassa in maniera vertiginosa, e quella conversazione interiore di cui si è parlato si fa particolarmente acuta, come quando per esempio ci troviamo in una situazione problematica e stiamo valutando dentro di noi le possibili vie di uscita. Quello che è importante sottolineare nella nostra proposta – che, ovviamente, è solo una proposta, ma che può aiutare a leggere questo genere di cambiamenti – è il fatto che la crisi non nasce mai solamente per una svalutazione del nostro mondo interiore, dei nostri valori, di ciò in cui crediamo. Qualcosa di molto forte è accaduto là fuori, nel mondo; qualcosa di molto violento è avvenuto in noi che in un certo modo si rispecchia e si manifesta nel mondo esterno. È qualcosa che rimane incomprensibile, ma che, nonostante questa inintelligibilità, si incista inevitabilmente nel nostro Sé, ormai profondamente scosso.

Questo sconvolgimento spinge ad andare in cerca di un nuovo orizzonte al quale ancorarci, per non rimanere più indifesi e divisi di fronte a noi stessi. Proprio su questo punto, anche per dare un sapore più concreto alle parole che stiamo pronunciando, proporrei un breve filmato, tratto dal film American History X, che mostra chiaramente e con la forza persuasiva della rappresentazione cinematografica, questo momento decisivo che dà il via al cambiamento drammatico di sé. Il protagonista, Derek, è un ex naziskin che sta scontando in carcere una pena detentiva per aver ucciso a colpi di arma da fuoco due ragazzi neri. Proprio in carcere incontra il professor Sweeney, che è stato in passato il suo insegnante. Derek è profondamente scosso per le esperienze traumatiche che ha appena vissuto in carcere e sta attraversando proprio quella fase iniziale di cambiamento che abbiamo provato a suggerire, una fase che lo porterà a mettere in discussione e poi ad abbandonare la violenza intesa quale mezzo giusto, credibile e convincente per risolvere i conflitti. È proprio nel corso del dialogo con il suo ex insegnante, accorso in suo aiuto, che Derek sente chiaramente per la prima volta la necessità di ripensare il suo passato.

Sweeney: “Non voglio che tu faccia nulla. Dimmi soltanto come ti senti veramente…”.

Derek: “[…]. Non lo so… non so come mi sento… sono… Mi sento un po’ confuso… io non lo so… Ci sono cose che… che non mi tornano…”.

Sweeney: “Sì, succede… Senti Derek, tu sei troppo in gamba per buttarti via facendo finta di non vedere tutti i buchi di questa misera ideologia”.

Derek: “Ehi, ehi aspetta, ho solo detto di essere confuso, non ho mai detto che non ci credo”.

Sweeney: “Bene, è per questo che devi aprirti… In questo momento la rabbia ti sta consumando, la rabbia che hai sta annebbiando il cervello che il Signore ti ha donato”.

Derek: “Ci hai mai fatto caso? Non fai che parlare di quello che mi succede fin da quando ero al liceo. Come fai a sapere così bene tutto ciò che c’è dentro di me?”.

Sweeney: “No. So cosa c’è dentro di me, questa sensazione la conosco bene… Conosco bene lo stato in cui ti trovi…”.

Derek: “Che ne sai tu dello stato in cui mi trovo?”.

Sweeney: “C’è stato un momento in cui incolpavo qualsiasi cosa, chiunque al mondo, per tutte le sofferenze e le viltà orrende che capitavano a me e che vedevo capitare alla mia gente. Davo la colpa a tutti, davo la colpa ai bianchi, colpa alla società, colpa a Dio… Non avevo risposte perché mi facevo le domande sbagliate. Tu devi farti la domanda giusta…”.

Derek: “E qual è?”.

Sweeney: “Tutto quello che hai fatto ti ha reso la vita migliore?”.

Sweeney: “No…”.

Come abbiamo visto nello spezzo­ne cinematografico, Derek chiede aiuto e soccorso al professore, e ciò di cui ha bisogno è soprattutto un consiglio, un suggerimento, come accade nelle esperienze di cambiamento. Derek dice di sentirsi confuso e smarrito; il suo ex professore nomina la rabbia e l’importanza di porsi la domanda giusta, anticipando forse anche troppo il cambiamento di Derek – lo notiamo dalla sua reazione. Nella fase della frammentazione, infatti, la comparazione critica tra l’evento estraneo ancora incomprensibile e le certezze che fino a quel momento erano date per scontate inizia ad avviare l’attore sociale – l’attore violento in questo caso – verso una ricerca volta a sostituire le certezze passate. Si tratta, però, ancora di un Sé “semplicemente” in costruzione. In questa fase ci si rivolge, per esempio, a persone reali, a ricordi o a frasi sagge che abbiamo incontrato anche molto tempo prima rispetto al momento della crisi. Quello che cambia – e questo è decisivo – è che ora, per la prima volta, tutto ciò acquista un senso, un tono e un sapore peculiare: è questa la seconda fase (la fase dell’unità provvisoria), nel corso della quale si inizia a ristrutturare quello che prima era semplicemente un cumulo di macerie e di frantumi. In questa fase quello che conta è proprio l’apertura che ora abbiamo rispetto agli altri e, in particolare, all’influenza di altri significativi – come la figura del professore nel caso del filmato proposto. Tuttavia, pur in questa apertura, siamo sempre e solo noi a dover trovare una via ancora non percorsa e, per questo, unica. L’unicità del nostro vissuto è qualcosa che dobbiamo tenere costantemente in dialogo con la molteplicità possibile degli altri significativi a cui ci riferiamo.

La domanda che a questo punto ci rivolgiamo in termini di conversazione interiore è la seguente: “Quando un giorno mi troverò di nuovo ad affrontare un’esperienza drammatica e dolorosa come quella che ho vissuto, riuscirò a dimostrarmi all’altezza di questa sfida? Riuscirò a superare indenne ciò che ho appena vissuto?”. La risposta a questa domanda ovviamente è tutt’altro che scontata, e un ruolo decisivo è giocato dall’azione. È durante la fase della “praxis” (terza fase) che il nuovo Sé provvisorio viene sottoposto alla prova cruciale dell’esperienza. È così che si testa il definitivo affermarsi o il deciso fallimento del nostro Sé ancora provvisorio. Quest’ultimo si rivelerà una guida affidabile per il futuro solo se il neonato “riorientamento simbolico-valoriale” riesce a integrare con successo l’intera esperienza sociale che, in passato, aveva prodotto la crisi. L’affermazione definitiva del nostro nuovo Sé – o, viceversa, il suo fallimento – deve attraversare l’esperienza della vita, e la fiducia nel poter dare un nuovo nome al mondo, riconoscendolo sotto una luce differente, potrà consolidarsi solo grazie a continui tentativi che confermano o meno la nostra capacità di superare questa prova.

Tutta questa serie di esperienze, che stiamo necessariamente riassumendo, culminano poi in una rivelazione personale, una sorta di epifania. Ecco che tutt’a un tratto la prospettiva muta radicalmente sotto i nostri occhi e ci troviamo cambiati. Con grande sorpresa e soddisfazione personale, per non parlare di reale sollievo, si realizza di essere finalmente riusciti a superare un’esperienza sociale simile a quella che aveva provocato la frammentazione del Sé precedente. Dal momento che ogni Sé va inteso come un processo anche sociale, il nuovo modo di guardare al mondo rimane transitorio fin tanto che non guadagna l’approvazione e la risposta simpatetica di “altri si­gnificativi”, rivelandosi così ai suoi occhi e, ciò che più conta, a quelli degli altri. Il vecchio Sé viene definitivamente sostituito da quello emergente, per mezzo del quale si possono finalmente riordinare i pensieri e le emozioni che vagavano caoticamente (quarta fase: “consolidamento”). Sono solo gli “sguardi degli altri” che possono, però, conferire pieno significato al successo e stabilizzare il cambiamento, riconoscendolo. A questo punto una domanda chiave che rivolgiamo a noi stessi è quella che riguarda il desiderio. È così che la persona inizia a domandarsi: “Desidero veramente essere il tipo di persona che sto per diventare?”. La risposta a questo dilemma tragico, ancora una volta non è mai scontata, anche se. dopo il lungo e tormentoso percorso intrapreso con la “frammentazione”, è difficile trovare motivazioni valide e convincenti per negarsi il traguardo, tanto desiderato, dell’assunzione di un nuovo Sé. La riflessività si intreccia e si lega così, inevitabilmente, con la dimensione del desiderio. Si tratta di quella stessa domanda decisiva che il professore, nel filmato, propone a Derek: “Tutto quello che hai fatto ti ha reso la vita migliore?”. La domanda giusta. In conclusione possiamo affermare che è proprio nella nostra ineliminabile apertura al bene e al male, in un’insenatura e in uno spazio che si crea e che rende possibile un dialogo tra queste due polarità – è stato detto benissimo da Marina Valcarenghi nel suo intervento –, in questo dialogo continuo tra Bene e Male, che la possibilità di un cambiamento diventa allora, anche nella nostra proposta, possibile, credibile e, non da ultimo, desiderabile. Occorre pertanto non solo porre la domanda giusta, ma anche riuscire a esprimere con coraggio risposte adeguate alla complessità della domanda, risposte che siano capaci di orientare e orientarci riflessivamente verso modalità di risoluzione dei conflitti alternative all’uso della violenza e del dominio violento rispetto agli altri.

 

 

Adolfo Ceretti

Voglio chiudere con una sola riflessione perché Lorenzo, che a mio avviso è stato bravissimo, ha dovuto sintetizzare una quantità di concetti molto complessi in poche battute. Il lavoro che stiamo svolgendo Lorenzo e io e quello che, per esempio, svolge anche Graziella Bertelli a Milano nel reparto de “La Nave”, o Angelo Aparo con il “Gruppo della Trasgressione”, non sono metodologicamente simili. Ciò che ci accomuna è che tutti, nel proprio contesto operativo, cerchiamo di immettere la riflessività come un elemento di operatività. Immettere l’interlocutore violento o tossicodipendente in un momento riflessivo significa mettere una persona nella condizione di osservarsi, per iniziare un percorso di cambiamento. In questo modo il carcere diventa un carcere che non cancella, che inizia a riconoscere, a vedere. È quello che accade ogni giorno nella Redazione di Ristretti Orizzonti, dove si contano le persone per una, restituendo loro dignità. Anche dentro le istituzioni la storia, la narrazione di ognuno viene finalmente riconosciuta, senza essere più giudicata. La storia, la narrazione di ognuno può diventare allora un punto di partenza per un percorso di auto-osservazione che, se sostenuto nei modi in cui abbiamo cercato di raccontarvi, può avviare anche un percorso di cambiamento.

E in questo senso anche il carcere, che noi vorremmo fortemente ridimensionato, può però paradossalmente diventare uno spazio potenziale per pensare – mettendo in secondo piano quella che, oggi, è ormai diventata la funzione che gli è stata assegnata: quella di incapacitare i delinquenti.