Intervista
a Francesca Vianello, docente
universitaria impegnata anche in carcere con il Polo universitario e con
un’attività di ricerca
Lo studio,
la cultura, la ricerca danno un senso della pena?
a
cura di Elton Kalica
Io
mi chiamo Elton Kalica, immagino che molti di voi mi conoscano perché, ormai,
questo è l’ottavo convegno a cui partecipo e che contribuisco a preparare.
Sono un po’ emozionato, in modo particolare, perché questo è anche
l’ultimo convegno che faccio qui dentro, dato che fra pochi mesi dovrei
uscire.
C’è
una collaborazione molto intensa tra il carcere e l’Università di Padova,
perché da un lato noi
collaboriamo
come redazione, incontrando molti gruppi di studenti dei corsi di sociologia
della devianza e dei master. C’è poi un altro rapporto fondamentale, che è
quello di studio, perché alcuni docenti universitari
mandano
anche dei loro studenti a preparare le loro tesi in carcere, il metodo è quello
etnografico, quindi vengono a fare interviste qui dentro, noi ci mettiamo a
disposizione e loro imparano a studiare il carcere, non sui libri, ma
“sporcandosi le mani” direttamente.
All’interno
del carcere poi c’è anche la possibilità di dedicarsi agli studi
universitari, e, quindi, c’è un Polo universitario, coordinato da Francesca
Vianello.
Intanto
comincio con una prima domanda su una ricerca che, noi come redazione, abbiamo
chiesto di fare. Dopo più di sette anni di incontri con le scuole, noi abbiamo
voluto avere un riscontro scientifico di quelli che sono gli effetti che questi
incontri producono sui ragazzi, allora abbiamo chiesto all’Università di
aiutarci a fare una ricerca che abbia un valore scientifico, e di dirci quali
sono i frutti, i risultati del lavoro che stiamo facendo con le scuole.
Una
ricerca che, forse, riuscirà a smuovere qualcosa di più rispetto alle tavole
statistiche
di
Francesca Vianello
Ho
avuto dalla redazione il compito, che considero importante, di tentare, in
qualche modo, di misurare l’impatto di questo percorso che, ormai da anni, la
redazione sta compiendo con moltissimi studenti di Padova e provincia. Si tratta
evidentemente di misurare un impatto che è
un
impatto primariamente emotivo, che si può misurare poi nel cambiamento delle
opinioni, delle
percezioni,
ma che non è realmente quantificabile, statisticamente presentabile, se non
nelle elaborazioni che noi facciamo in seguito.
Il
percorso Carcere e Scuole è un percorso che ha portato già a delle
pubblicazioni importanti, pubblicazioni che hanno proposto le riflessioni
scritte degli studenti, che hanno raccolto le loro opinioni in occasione di
questa iniziativa. E da qui già era desumibile, era molto visibile il forte
impatto di questa esperienza. Abbiamo proposto semplicemente un approfondimento
di tipo metodologico: abbiamo deciso di preparare un questionario da distribuire
alla maggior parte degli studenti che hanno preso parte quest’anno a questa
esperienza, e - una cosa importante che ci tengo a dire - questo questionario lo
abbiamo prima immaginato insieme alla redazione stessa di Ristretti Orizzonti,
poi discusso, e poi ridefinito sulla base di quello che è uscito dalle nostre
discussioni. Quindi non è un questionario che abbiamo costruito noi da
“dentro l’università”, ma è un questionario che è il risultato di un
lavoro di condivisione e di elaborazione, di un approfondimento
che
è stato già di per sé un lavoro importante.
Si
tratta di un approfondimento metodologico che, in maniera semplice, comprende,
primariamente,
tre
aree tematiche. Una prima, che riguarda la decostruzione degli stereotipi, e,
quindi, la capacità di questa esperienza di de-influenzare, di dare degli
strumenti per resistere a quelli che sono gli stereotipi che vengono trasmessi
anche dalla televisione, dai giornali, rispetto alla criminalità, alla pena,
alla punizione, al senso del punire, e poi rispetto al carcere. Si tratta quindi
di misurare la capacità di questa esperienza di produrre un’informazione più
corretta, più limpida. Una seconda
tematica
intende investigare se questo tipo di esperienza possa essere, in particolare
con gli studenti di quell’età, anche uno strumento di prevenzione, di
prevenzione rispetto a determinati stili di vita, determinati comportamenti, di
cui magari gli studenti non percepiscono immediatamente la pericolosità né la
gravità, prima di tutto per loro stessi, oltre che per la società. Infine, una
terza area che riguarda la socializzazione di questa esperienza: abbiamo voluto
chiedere agli studenti se poi parlano di questa esperienza e di quello che
questa esperienza ha dato loro, se ne parlano in famiglia, se ne parlano con gli
amici, se questo tipo di esperienza è anche strumento, fonte di discussione,
all’esterno della scuola. È un aspetto, anche questo, a cui teniamo molto
perché crediamo che solo nella misura in cui si riesce a promuovere la
socializzazione del problema, delle questioni di cui si discute, si può poi
fare un discorso un po’ più ampio anche sulle possibilità
di
cambiamento, di trasformazione, di elaborazione di risposte innovative.
Un
ultimo appunto rispetto alla difficoltà, con questa ricerca, di misurare un
impatto emotivo. È difficile, ma credo che sia fondamentale: lo dico anche
perché, come studiosa di questi temi, sono anni che a convegni, conferenze,
incontri pubblici, scioriniamo dati che, in qualche maniera, tentano di
de-costruire i principali stereotipi sulla criminalità.
Posso
fare qualche esempio: l’idea che esista una relazione tra i tassi di
criminalità e i tassi di detenzione, e che, quindi, la pena abbia una funzione
deterrente. Tutti i dati sconfessano questa ipotesi.
Sono
anni che presentiamo, o altri presentano ai convegni, dati sulle misure
alternative che dimostrano in tutti i modi che con le misure alternative la
recidiva diminuisce.
Eppure,
questi dati statistici, questi dati quantitativi, pur ovviamente importanti,
sembrano non essere capaci di scalfire questi stereotipi, di scalfire quello che
noi comunque pensiamo rispetto alla punibilità, rispetto alla “giusta
vendetta”, rispetto a come secondo noi dovrebbe essere trattato il crimine.
Questo
è effettivamente un problema per noi. D’altro canto la stessa redazione di
Ristretti è una delle fonti principali di questi stessi dati statistici. A me
è capitato, moltissime volte, andando ad
incontri
di tipo “istituzionale”, di vedere che quando vengono presentati dei dati
nelle slide c’è scritto in calce “fonte Ristretti Orizzonti”. La
redazione è ormai diventata la principale fonte anche di questo tipo di dati.
Non parliamo poi di quell’Osservatorio che Ristretti condivide con altre
associazioni e che riguarda la questione, più drammatica, delle morti in
carcere. Però non si riesce a scalfire certi luoghi comuni, non si riesce ad
andare oltre: l’unica speranza mi sembra sia proprio quella di investire su
un’esperienza di tipo emotivo, che poi è proprio quello che si sta facendo
qui oggi.
In
questo caso, nel caso del carcere, non è vero che i dati parlano da soli, i
dati sembrano non parlare per niente. Scontrandoci quotidianamente con questa
realtà, ci è sembrato importante partecipare, riuscire a contribuire invece
con una ricerca su questo tipo diverso
di
esperienza che, speriamo, riuscirà a smuovere qualcosa di più rispetto alle
tavole statistiche, alle
elaborazioni,
e ai dati che si presentano normalmente alle conferenze.
Elton
Kalica:
Venendo in carcere in una doppia veste, come studiosa e come coordinatore del
Polo universitario, vedi il detenuto studente, quando vieni per problemi
relativi allo studio in carcere, e vedi il detenuto intervistato quando vieni
per fare i tuoi studi sul carcere. In entrambi i casi sia per il detenuto
intervistato, sia per il detenuto studente, il detenuto è un soggetto attivo,
cioè fa qualcosa, si impegna in qualche cosa e partecipa a qualcosa di utile.
Io volevo chiederti se vedi maggior consapevolezza di questo lavoro di
partecipazione di sé in parte del detenuto.
Lo
studio in carcere deve essere uno spazio, per quanto limitato, di libertà
Di
Francesca Vianello
Avendo
avuto modo di confrontarmi con l’esperienza di Ristretti Orizzonti, e anche
con tutto quello che riguarda la questione dello studio universitario in carcere
al Polo universitario di questa Casa di reclusione, credo di potermi considerare
semplicemente testimone di alcune esperienze che, proprio perché non sono
governate dalle tradizionali logiche carcerarie, funzionano. Adesso mi spiego
meglio: chi studia il carcere sa che il carcere è, primariamente, orientato
verso obiettivi di sicurezza interna. È così per la struttura stessa del
carcere, è così perché appare necessario per il governo di una istituzione
chiusa di questo tipo. Il carcere non solo pretende di isolare i detenuti dalla
società, ma pretende anche di isolare i detenuti tra loro stessi. Il carcere
tradizionale è un carcere che non prevede spazi di condivisione, non prevede
spazi in cui possa essere, in qualche modo, tematizzato
il
conflitto, non prevede spazi in cui i detenuti possano pensare a un qualche
progetto comune.
Credo
che le esperienze, sia di Ristretti che del Polo universitario, in qualche modo
e pur in maniera
diversa,
siano esperienze in cui il carcere - quello vendicativo, quello retributivo, il
peggiore che ci viene in mente - almeno per un momento si ritrae e lascia lo
spazio perché avvenga qualcosa che, pur essendo interno all’istituto, carcere
non è.
Che
cosa voglio dire? Credo che l’importanza di queste esperienze sia misurabile
nella misura in cui riusciamo ad opporci a quell’adagio che recita che “una
buona giornata in carcere è una giornata
in
cui non succede niente”. Invece, una buona giornata in carcere, nei nostri
casi, nel caso di Ristretti, nel caso del Polo universitario, è quando qualcuno
si laurea, quando ci sono delle esperienze che danno qualcosa, un carcere in cui
– per fortuna - succede qualche cosa.
Nella
mia, anche limitata, esperienza credo che i detenuti che partecipano a questo
tipo di piccoli
spazi
liberi se ne rendano conto perfettamente, mi sembra che molti rispondano, in
realtà, benissimo, e che testimonino con la loro esperienza, tutti i giorni,
come dovrebbe, e come potrebbe, essere altrimenti la pena. Però credo anche,
per testimoniare la difficoltà di questo tipo di esperienze, che perché queste
esperienze funzionino sia necessario, da parte di chi le porta avanti, di chi si
confronta con i detenuti, un rigore fortissimo, un rigore nella comunicazione.
Lo studio, per esempio: lo studio deve essere un bene a priori, ci deve essere
un accordo sul fatto che lo studio è una risorsa di per sé. Ci deve essere un
accordo sul fatto che le esperienze che vengono vissute
vale
la pena viverle, esse non possono e non devono diventare oggetto di
contrattazione, oggetto di scambio; allo stesso modo non possono essere
raccontate bugie, non si può promettere ciò che non si può dare. L’accesso
allo studio in particolare funziona quando si riesce a ricreare un piccolo
spazio in cui si offrono dei diritti e dei servizi, e non semplicemente
un’assistenza, che va benissimo, ma che non crea quello spazio, per quanto
limitato, di libertà all’interno del quale, solo, ci può essere
un’assunzione di responsabilità. Perché se non c’è possibilità di
scelta, se non c’è
libertà,
non credo ci possa essere neanche alcuna assunzione di responsabilità: che si
tratti dello studio o di aspetti ancora più importanti della vita dei detenuti
come di ciascuno di noi.
Un’intervista
a Giuseppe Mosconi, docente di Sociologia, sulla rieducazione e sul senso dei
percorsi scolastici realizzati in carcere
Un
delinquente istruito è sempre meglio che un delinquente ignorante?
A
cura di Elton Kalica
Riflettendo
su un progetto come quello che facciamo noi con le scuole e il carcere, vorremmo
rimettere in discussione la rieducazione, cos’è la rieducazione.
Secondo
l’Ordinamento penitenziario gli elementi cardine sono il lavoro e lo studio.
Sappiamo che la rieducazione è difficile, molto difficile, perché i due terzi
dei detenuti sono recidivi, quindi non è che funzioni sempre. Noi diciamo, agli
studenti, quando facciamo gli incontri, che la cosa che funziona meglio nelle
carceri di solito è la scuola. Da un lato ci sono molti detenuti che, una volta
finiti in carcere, ritrovano l’interesse per rimettersi a studiare e,
dall’altro, c’è veramente un investimento da parte delle istituzioni in
carcere, si può studiare dalle scuole elementari fino all’università. A
volte ci sentiamo dire che è un lusso, che è troppo che ci sia questo
investimento
quando
poi la recidiva è sempre alta, quando poi
Lo
studio offre strumenti che cambiano la percezione che la persona ha di sé e del
mondo
Di
Giuseppe Mosconi
In
realtà questa riflessione pone diversi livelli di questioni.
Credo
che ci sia un tema molto specifico, facilmente percepibile, che consiste nel
cercare di capire che cosa si associa di positivo a un percorso scolastico, dal
livello elementare fino alla laurea, agito in carcere. La prima cosa che è
necessario sottolineare, forse più semplice e più ovvia, ma non così
scontata, è che lo studio è un diritto, è un diritto che riguarda ogni
persona, e che questo non deve venire limitato o alterato dal fatto che la
persona si trovi reclusa. Se è vero che la pena dovrebbe consistere
esclusivamente nella privazione della libertà, ogni altro tipo di libertà non
deve risultarne compresso. Cosa semplice a dirsi, molto più problematica a
realizzarsi, quindi a concettualizzarsi.
Chi
si avvicina, dall’interno del carcere, a un percorso di studio agisce,
ovviamente, nell’esercizio di un proprio diritto, ma non lo fa in una
situazione di parità, lo fa in una situazione di privazione, di oggettivo
svantaggio, nel senso che gli vengono offerte molte meno possibilità nel
sistema di vita, di relazioni, ed è inevitabile che viva questa opportunità, e
questa esperienza, all’interno di questa condizione particolare. Allora è
abbastanza ovvio che succeda che il percorso formativo venga anche vissuto per
attenuare gli aspetti negativi della detenzione, a livello più elementare se
non altro perché non si sta in cella, ma si va in un’aula in cui si discute
di cose più o meno interessanti, e comunque si esce dal lessico, dalla
quotidianità, dallo stesso ritmo mentale ed emotivo della reclusione in cella.
E in secondo luogo perché, nel momento in cui si accede a un percorso
formativo, si acquisiscono crediti, cioè, si maturano punti positivi,
auspicabilmente anche in vista dell’ottenimento di benefici, si entra
attivamente nel progetto di rieducazione.
Io
ritengo che entrambe queste cose, che potrebbero, da un certo punto di vista,
essere giudicate
negativamente,
in quanto gettano una luce di strumentalità sull’attitudine formativa, siano,
prima di
tutto
inevitabili, ma anche comprensibili e giustificabili nel contesto in cui ci
troviamo. Altro è
chiedersi,
e questo è il livello successivo, se questi limiti, che sono però più i
limiti imposti dal contesto istituzionale, che dei limiti delle persone che si
avvicinano all’opportunità formativa, siano dei limiti superabili, siano dei
limiti che possono venire diluiti, così da portare l’esperienza formativa a
un livello diverso. E l’esperienza formativa a un livello diverso significa
essenzialmente
offrire,
e d’altra parte, fruire di strumenti che consentano di conoscere la realtà,
di analizzarne le componenti, le variabili, la storia, di acquisire strumenti
che consentano di interagire in modo
corretto
e adeguato con le istanze che la società solleva verso la persona.
Si
tratta cioè di avere i mezzi per poter interagire in modo adeguato e poter
analizzare anche la propria condizione all’interno della realtà sociale:
questo, probabilmente, è possibile. E’ vero che lo studio, dalle tecniche,
alle lingue, alla storia, alla geografia, a tutto ciò che è il sapere,
all’attitudine all’analisi dei fenomeni politici e sociali, offre strumenti
che, inevitabilmente, cambiano la percezione che la persona ha di sé e del
mondo, Non mi interessa sapere se questo vuol dire che la persona detenuta non
compirà più reati o meno, ma, sicuramente, il modo in cui, se è calato in
questa dimensione, è messo in condizioni di libertà, di sollecitazione,
cambierà la percezione di se stesso e del mondo in modo più dinamico, più
ricco, più avveduto, rispetto a una situazione di partenza. Quello che in realtà,
poi, in un processo interattivo di formazione, si pone problematicamente, è la
rappresentazione reciproca che si dispiega tra il docente e l’alunno. Perché
noi non possiamo guardare sempre a chi è stato condannato per un reato, come a
qualcuno che, bene o male, in un modo o nell’altro, deve cambiare, senza porci
a nostra volta il problema di interrogarci su come noi siamo orientati a
giudicare questa persona, su come i cosiddetti normali elaborano aspettative e
linguaggi verso questa persona, su come catalogano, che lo vogliano o non lo
vogliano,
e
quindi giudicano la sua esperienza, e che tipo di interazione si sviluppa tra
queste due dimensioni.
Allora,
ciò che nello studio rischia, paradossalmente, di deformare il processo
comunicativo, è un appiattimento dell’identità degli attori coinvolti, ad un
livello di formalizzazione, di tipizzazione, di
codificazione,
in cui si dà per scontato che l’uno e l’altro si muovano su un terreno di
adeguatezza, cioè, sostanzialmente, di omogeneità. Io ti insegno, tu impari,
tu hai imparato, mi rimandi una tua esperienza migliore, io che ti ho insegnato
mi riconosco di più nel miglioramento che ti ho consentito. È questo tipo di
interazione che contiene degli stereotipi, delle stereo tipizzazioni che
rischiano di comprimere e di alterare il senso delle scambio formativo. E,
invece, credo a questo
punto
sia necessario uno sforzo reciproco, e, però, bisogna avere l’avvertenza, la
consapevolezza e la delicatezza, nell’avvertire le variabili in gioco in
questo processo di comunicazione, perché si destrutturino le aspettative e si
pongano su un terreno più fluido, più aperto, i cui esiti siano anche tutti da
ridefinire.
E,
infine, c’è un problema che riguarda il dopo, quando il processo formativo si
è compiuto. Cioè,
quando
la persona ha maturato un titolo, ha maturato un diploma di scuola superiore, ha
maturato una laurea, e esce da qui. Ci sono sessanta studenti universitari nel
carcere Due Palazzi di Padova; non è poca cosa. La persona esce di qui, esce
con un titolo; e molti sono pure gli studenti di scuola media superiore. La
società che cosa fa? Si dirà: bravo hai studiato, quindi sei uno di noi, ci
capiamo subito, sei affidabile, è rassicurante il fatto che hai maturato questo
titolo. Sdrammatizziamo il pregiudizio verso chi esce, ma se poi, al titolo
maturato, e alle aspettative che si sono elaborate in virtù di questo titolo,
non corrispondono offerte reali, concrete, di opportunità adeguate al livello
di ciò che si è maturato? Ecco un altro possibile effetto paradossale,
l’effetto boomerang del percorso educativo e formativo, vale a dire, il
rischio che la delusione indotta dal non conseguimento di adeguate opportunità
rispetto al percorso formativo si traduca in una delusione più profonda, con le
conseguenze proprie di un processo regressivo, facilmente prevedibili.
Mi
permetto di sottolineare che questo è molto più delicato per uno studente che
ha fatto il suo percorso qui, rispetto a uno studente normale, perché lo
studente
normale
ha imparato che il suo futuro è la precarietà, che è la difficoltà, che è
la lotta, e, d’altra parte, è compensato da una serie di opportunità
collaterali, di relazioni, di apprendimento, di piacere anche, di edonismo, se
vogliamo, di godimento, rispetto alle frustrazioni del futuro precariato. Ma
qui, chi gode di un percorso alternativo è naturalmente indotto ad
assolutizzare le sue aspettative attorno a questo, è ovvio che da uno stato di
depauperamento, di carenza di opportunità, lo studio assurga ad una valenza
molto intensa e molto elevata. Quindi le responsabilità che la società si
assume io non vorrei che fossero semplicemente delle attenuazioni
dell’incapacità che la società ha di dare delle risposte adeguate, come
dire: ma si, intanto li facciamo studiare, è già molto che studino. No, il
fatto che si faccia studiare chi vive questa sofferenza, questa costrizione,
comporta un’assunzione di responsabilità che va onorata.
Nell’economia
di questo percorso, si pone un’ultima questione a proposito del tema del
rapporto tra
studio
e rieducazione. La categoria di rieducazione, ovviamente, contiene uno
stereotipo, ma noi non possiamo accusare i padri costituzionali di essere stati
influenzati negativamente da questo stereotipo.
Del
resto, ogni categoria va vista nel suo contesto storico, ma anche nel processo
che ha attraversato e che continua ad attraversare. Rieducazione vuol dire che
chi ha violato la legge non è educato, cioè, ha violato la legge perché non
è educato, non è sufficientemente bene educato, e, potremmo anche aggiungere,
alla luce di una consapevolezza critica, che l’esperienza carceraria, (e di
questo i padri costituzionali erano certamente consapevoli), senza che sia
realizzata una finalità educativa, rischia di essere ulteriormente
diseducativa; quindi un doppio gap, una doppia carenza, di carattere
diseducativo. Ma il parlare di rieducazione, certamente, comporta assumere sullo
sfondo del discorso una stereo tipizzazione di normalità e una assolutizzazione
di aspettative che non tengono conto della concretezza delle esperienze, della
complessità di elementi che sono assolutamente unici nell’esperienza
dell’individuo; sono, forse, non facilmente comunicabili, non sono
codificabili dagli interlocutori, e si delineano in modo spesso imprevedibile.
Allora il problema è non tanto quello di rieducare rispetto a una negatività
di partenza e a una positività di arrivo, ma di aprire una dimensione fluida,
una dimensione dinamica, qualificante, significativa, questo sì, dove le
aspettative possano essere messe a confronto. E, in questo senso, credo che chi
insegna in carcere, e
lo
fa con onestà intellettuale, non possa non riconoscerlo: si insegna in carcere,
non solo e non tanto, per insegnare, ma anche e soprattutto per imparare.
Gli
studenti raccontano che cosa ha significato per loro “incontrare” il carcere
Informazione
dal carcere: “Il piacere dell’onestà”
Quando,
quasi quindici anni fa, abbiamo deciso di provare a fare informazione dal
carcere, non
abbiamo
trovato niente di meglio dell’aggettivo “onesta”, volevamo esattamente
provare a fare una
informazione
onesta. “Il piacere dell’onestà” in carcere non sono in tanti ad averlo
sperimentato, e così abbiamo iniziato un complicato percorso alla ricerca di
quel piacere sottile che ti dà l’idea di non ingannare i tuoi lettori, di non
raccontargli bugie, di non cercare di passarti per quello che non sei.
Ma
la fatica di essere onesti nell’informare per chi sta in carcere è tanta,
perché si tratta, spesso, di
“mettere
al servizio” degli altri il peggio di sé, la parte più negativa della
propria vita. Ed è proprio
questo
il modo più profondo per dare un senso all’informazione, quando è fatta
realmente da persone detenute, persone che hanno vissuto direttamente la
conoscenza del “male”, qualche volta
hanno
scelto lucidamente di farlo, qualche volta non sono riuscite a controllare la
loro vita che deragliava.
E
chi, come gli studenti coinvolti nel progetto “Il carcere entra a scuola, le
scuole entrano in carcere”, sente il racconto di come si può arrivare a
commettere un reato, e capisce che non capita solo agli “altri”, altri da
noi naturalmente, forse ha qualche strumento in più per difendersi dalla
cattiva informazione.
Riscattarsi
da un passato oscuro e diventare persone migliori è possibile
interventi
di Nura, Stefano, Francesca,Giulia, Diletta, Annagaia,
studenti
del
Liceo Galileo Galilei di
Caselle di Selvazzano
Sbagliare
fa parte dell’essere umano. A volte certi errori non sono banali o
trascurabili, ma sono il risultato di una serie di circostanze che li rende
anche molto gravi.
Con
il progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”
abbiamo capito che ognuno di noi può commettere errori, più o meno gravi, e
che chiunque deve avere la possibilità di riuscire, in qualche modo, a
rimediare; abbiamo imparato che riscattarsi da un passato oscuro e diventare
persone migliori è possibile. Non abbiamo conosciuto solo detenuti o ex
detenuti, ma persone coraggiose che hanno avuto la forza di mettersi in gioco e
raccontare la propria esperienza a ragazzi che neanche hanno mai visto. Quello
che pensiamo è espresso in una frase della poetessa Alda Merini: “E se
diventi farfalla nessuno pensa più a ciò che sei stato, quando strisciavi per
terra e non volevi le ali”. Avervi conosciuto ci ha cambiati.
Questa
esperienza ci ha aperto gli occhi sulla realtà di chi finisce in carcere
Mi
collego al discorso che ha iniziato Stefano dicendo che questa esperienza ci ha
veramente
aperto
gli occhi sulla realtà di chi finisce in carcere, e la maggior parte delle
persone là fuori, come noi prima di iniziare questo progetto non ci pensa, la
ignora, la sfiora da lontano attraverso i giornali e la televisione, e spesso si
costruisce opinioni sbagliate. Anche noi lo facevamo, d’altronde
immedesimarsi
negli altri è sempre molto difficile in qualsiasi situazione. E per questo
siamo felici di aver avuto l’occasione di avvicinarci di più a questo mondo
attraverso le loro storie, le loro parole e, talvolta, solo attraverso i loro
sguardi. Personalmente il mio modo di giudicare è cambiato radicalmente, ora so
che dietro ad ogni accusa, ogni condanna, c’è sempre tanta sofferenza e tanto
dolore.
Speriamo
che iniziative preziose come questa possano diffondersi sempre di più, per noi,
per aiutarci a capire, e anche per loro perché abbiano la possibilità di
raccontare e spiegare. Grazie.
Scoprire
che, dietro a ogni cattivo, c’è una persona, un uomo come noi
La
maggior parte delle persone non pensa mai al carcere, siamo abituati a
considerarlo come una realtà che non ci riguarda, un mondo di disperazione con
cui nessuno di noi avrà mai a che fare. Nella nostra mente i carcerati sono
tutti mostri, uomini che hanno deciso, deliberatamente, di
dedicare
la loro vita al male, persone violente, ladri, truffatori, Nella nostra visione
comune il crimine è una scelta appartenente a una persona cattiva che vuole
costruire la sua vita rovinando quella di qualcun altro. La reclusione, quindi,
è la conseguenza logica, la giusta punizione per chi ha commesso un reato. Chi
sbaglia paga, ed è bene che la pena non sia troppo morbida.
Nessuno
di noi, esaminando per la prima volta la questione carceraria, considera il
sovraffollamento delle prigioni o le condizioni di vita dei detenuti, come
qualcosa di intollerabile. La prima cosa da cui si è colpiti, entrando in
carcere, è scoprire che, dietro a ogni cattivo, c’è una persona, un uomo
come noi, con i suoi valori, la sue emozioni, i suoi difetti. Ogni detenuto ha
alle spalle una famiglia il più delle volte perfettamente “normale” proprio
come le nostre.
Visitando
le prigioni, incontrando i carcerati capiamo che non esiste una linea ben
definita per distinguere il bene dal male, ogni reato è frutto di una storia,
dietro ogni crimine c’è una persona con alle spalle esperienze, disagi,
scelte sbagliate. Siamo tutti potenziali criminali, le nostre azioni, anche le
più terribili, sono il risultato di percorsi di vita che non possiamo sempre
prevedere. Ognuno di noi è tutto e il contrario di tutto, non esistono buoni e
cattivi. Nel mondo ci sono uomini che hanno commesso errori magari giganteschi,
che hanno fatto del male ad altri e che, quindi, devono pagare, ma ogni
carcerato è una storia a sé, ogni colpa è frutto di cause diverse.
Perché
la pena sia efficace il detenuto deve comprendere il suo errore, essere
assistito, vivere in un
ambiente
che rieduchi alla legalità, poter studiare, lavorare, aprirsi a nuove
prospettive. Un carcere
sporco
e sovraffollato non permette certo di riflettere sul proprio passato, percepire
la grandezza della propria colpa e pentirsene, stimola solamente a sentirsi
vittime di una ingiustizia, a dimenticare le azioni che hanno causato la
carcerazione.
Quando
un criminale entra in carcere “noi buoni” siamo abituati a provare
soddisfazione per l’arresto del cattivo, ma non consideriamo mai che, con la
situazione attuale, probabilmente ne uscirà più cattivo di prima.
La
parola agli insegnanti
Un
progetto per prendere coscienza di come sia facile far prevalere la parte più
buia di sé
Di
Morena Marsilio, Referente
del Progetto scuola/carcere presso il
Liceo
Scientifico “Galileo Galilei” di Caselle di Selvazzano (PD)
Sono
la portavoce del Liceo Scientifico “Galileo Galilei” di Selvazzano dove
svolgiamo il progetto, destinandolo alle classi Quarte, da tre anni: in questo
lasso di tempo tale attività è di certo cresciuta, radicandosi sempre più
nella realtà del nostro piccolo Istituto. A riprova di ciò posso sottolineare
come, nel maggio di tre anni fa, io abbia partecipato da sola alla Giornata di
Studi organizzata qui al Due Palazzi; l’anno scorso vi ha partecipato
un’altra collega, accompagnata da 4/5 studenti mentre quest’anno la nostra
presenza è decisamente aumentata, essendo presenti oggi due colleghe, oltre a
me, e una ventina di ragazzi, che ringrazio. Questo la dice davvero lunga su un
progetto che si autoalimenta di linfa interna e genera interesse e
partecipazione. Credo, inoltre, che i ragazzi siano molto coinvolti da tale
attività non tanto perché provino una morbosa curiosità nei confronti di chi
ha “scelto” di fare il criminale, quanto piuttosto dal processo di
identificazione che sentono innescarsi di
fronte alle storie di chi, inizialmente “normale”, ha poi deviato,
abbattendo l’uno dopo l’altro i paletti della norma condivisa su cui si basa
il vivere civile. Inoltre alla fine dello scorso anno scolastico, a conclusione
del progetto, gli studenti avevano manifestato per mezzo di un questionario di
gradimento il bisogno di essere messi a contatto:
con
vittime di reati, forse per il desiderio di capire anche il punto di
vista dell’altro, di chi ha subito l’affronto;
con
esperti che aiutino a capire il funzionamento del sistema giudiziario:
poter dare spazio a tale tipo di interesse può essere utile anche in
vista dell’orientamento universitario;
con
esperti di devianza.
Quest’ultimo
dato a mio avviso sottolinea che il progetto mette proprio a fuoco il cuore del
problema: molti dei nostri studenti, ascoltando COME i detenuti sono
finiti dentro, forse si sentono “a rischio”, comprendono quanto labile sia
il confine tra ciò che può apparire una ragazzata e un atto che ti può
cambiare la vita per sempre.
È
questo l’aspetto più dirompente del progetto: dare ai giovani la possibilità
di riconoscere la complessità della natura dell’uomo, di ogni uomo, e
prendere coscienza di come sia facile, talvolta addirittura impercettibile, far
prevalere la parte più buia di sé. Tuttavia questo progetto mostra anche che
è possibile attuare il percorso inverso, come ci racconta Calvino nelle battute
conclusive del Visconte dimezzato:
“Così
mio zio Medardo tornò uomo intero,
né cattivo, né buono, un miscuglio di
cattiveria e bontà, cioè apparentemente
non dissimile da quello che era
prima d’essere dimezzato. Ma
aveva l’esperienza dell’una e
dell’altra metà rifuse insieme, perciò doveva essere ben saggio. Ebbe vita felice, molti figli e un giusto governo. Anche la nostra vita mutò in meglio. Forse ci s’aspettava che, tornato insieme il visconte, s’aprisse un’epoca di felicità meravigliosa; ma è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo.”
Mi
pare che questo passaggio ben possa rappresentare l’idea espressa nel titolo “I
totalmente buoni e gli
assolutamente cattivi”, e anch il senso del progetto: da una parte
indurre i giovani, e noi insieme con loro, a riflettere sulla duplicità e
sull’imprevedibilità dell’animo umano, a ragionare su come la più
remissiva e apparentemente innocua delle persone, in circostanze deviate dai
binari della norma, possa far emergere il lato oscuro di sé. Dall’altra, però,
cerchiamo di indicare ciò che è ancor più difficile da accettare con la
nostra mentalità di uomini dal comune sentire: che anche colui che si è
macchiato del peggiore dei delitti può trovare modo di riscattarsi, può
davvero condurre un doloroso cammino interiore di ricerca e di pentimento che lo
porterà, come Medardo, ad avere un “viso che una linea rossa attraversava
dalla fronte al mento, continuando poi giù per il collo”.
Incontrando
in questi anni i detenuti che collaborano al Progetto, ascoltando le loro parole
abbiamo scorto la cicatrice indelebile che segna, in loro, l’acquisita
consapevolezza del confine che separa il
Bene
dal Male. Ecco, pensiamo che toccare con mano quella cicatrice possa essere
salutare e salvifico per i nostri ragazzi, solo apparentemente spavaldi e sicuri
di sé: spesso, infatti, per concludere con le parole di Calvino “alle
volte uno si crede incompleto, ed è soltanto
giovane.”
Come
si crea consapevolezza sulle questioni della legalità?
di
Antonio Bincoletto,
insegnante
del Liceo Marchesi-Fusinato di Padova
Vorrei
anzitutto riportare alcune osservazioni, raccolte giusto questa mattina,
sull’effetto che il percorso carcere ha avuto sui miei studenti, usando le
loro parole.
La
prima è questa, e credo farà piacere a Gianni Biondillo, che nel suo
intervento ha lamentato una diffusa mancanza di criticità indotta anche
dall’appiattimento nel modo che i media hanno di fare informazione: “Ho
imparato a leggere in maniera diversa le notizie”.
La
seconda ci riporta alla percezione del carcere e della pena: “Guardo con occhi
diversi al carcere e a chi vi è rinchiuso. Ora penso sia un luogo
di
sofferenza, ma anche di possibile riscatto”. La terza è una riflessione su se
stessi indotta dal percorso: “Penso che, in certe particolari condizioni,
possa capitare a chiunque, quindi sto attento”.
Le
ultime due riguardano il percorso e le sue ricadute: “Ho fatto un percorso
complesso. È stato giusto concludere anche con la testimonianza delle
vittime”; “Il percorso ha cambiato alcune mie idee, ora sono più
consapevole”.
Proprio
dall’ultima affermazione, riprendo un concetto già esposto in precedenti
occasioni: la scuola non ha solo il compito di trasmettere nozioni, ma anche
quello di formare cittadini consapevoli.
Come
si crea consapevolezza sulle questioni della legalità e delle conseguenze
derivanti dalle violazioni?
Una
via è quella della conoscenza delle regole di convivenza, e anzitutto di quella
regola fondamentale che è la Costituzione. Questa è la via tradizionalmente
percorsa dall’educazione civica, insegnamento quanto mai trascurato dalle
scuole.
Un’altra
via, complementare alla prima ma di effetto sicuramente più incisivo, consiste
nel mostrare
come
si arriva a violare le regole e il danno che in tal modo si arreca agli altri e
a se stessi. Ci si arriva presentando esperienze di vita, e lo si può fare in
modi diversi: attraverso racconti indiretti (film, testi scritti, documenti) o
attraverso testimonianze di vita vissuta. In quest’ultimo caso, l’impatto
diretto fra chi racconta e chi ascolta permette il crearsi di un rapporto umano,
di uno scambio e, con questo, di andare oltre le visioni pregiudiziali e
stereotipate che inevitabilmente
ciascuno
di noi porta con sé. Inoltre un tale approccio consente meglio di farsi
un’idea della complessità delle situazioni, d’immedesimarsi nell’altro e,
quindi, di prevenire nell’ascoltatore l’insorgere di comportamenti a
rischio.
L’obiettivo
del tradurre la conoscenza teorica in comportamenti virtuosi è uno dei nuovi
tratti
che
connotano l’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione, l’ambito
transdisciplinare che ora
sostituisce
lo spazio della vecchia “educazione civica”.
Quali
testimonianze servono per creare questa consapevolezza?
Anzitutto
è importante che ci sia una pluralità delle voci che si ascoltano, in modo da
poter confrontare vari punti di vista: quelli, per esempio, di detenuti, ex
detenuti, volontari, operatori, giudici, vittime di reati. Ciò permette di
andare al di là dello stereotipo del “criminale”, ma anche di quello della
“vittima”, del “giudice” o del “direttore”, scoprendo che dietro a
ogni individuo, nel bene e nel male, c’è una persona e c’è una storia.
Confrontandoci
quest’anno con alcune particolari vittime di reato che con grande generosità
si sono messe a nostra disposizione, ci è stato mostrato come si possa reagire
in maniera diversa anche ad una grave offesa subita, e come uno specifico
percorso possa condurre ad esiti diversi e non scontati. Silvia Giralucci, per
esempio, ci ha raccontato come lo scoprire la sofferenza dei parenti dei
detenuti abbia cambiato anche la sua percezione della pena e del carcere. Agnese
Moro, dal canto suo, ci h descritto il percorso attraverso cui è giunta alla
conclusione che il rancore non sia che un modo in cui un altro possiede il tuo
animo, e come lei abbia cercato di liberarsi di questo pesante fardello.
Posso
dire che esperienze molto incisive sono sia quelle che avvengono durante le
visite al carcere,
realtà
sconosciuta ai più, sia le testimonianze dei detenuti o ex detenuti, le quali
mostrano come si arrivi al reato attraverso percorsi che, quantomeno per alcuni
segmenti, possono essere simili a quelli vissuti dagli studenti stessi. Temi
come quello dell’abuso di alcol e del consumo di droghe, o delle forme di
prevaricazione diffuse fra giovani e giovanissimi (bullismo), o della guida
irresponsabile, o della mancanza di rispetto verso gli altri o verso il “bene
comune”, o ancora della ricerca del successo facile, della riduzione di ogni
cosa a merce, della smania di consumo, sono tutti ben presenti nella
rappresentazione del mondo dei nostri ragazzi e spesso ricorrono nei racconti
che si ascoltano durante gli incontri coi detenuti.
Le
testimonianze dunque innescano negli studenti ragionamenti diversi dal
considerare sempre e comunque “buono” chi sta fuori e totalmente
“cattivo” chi sta dentro il carcere. Le esperienze narrate fanno andare
oltre l’ovvia e giusta condanna verso chi ha sbagliato, fanno riflettere su se
stessi. Poi aiutano ad assumere un atteggiamento che non sia unicamente
vendicativo (quello più promosso da molti media e gruppi d’opinione in questi
anni), e a vedere la giustizia e il sistema punitivo nelle sue diverse funzioni,
definite dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Si passa insomma
dall’affermare la “legge del taglione”, che sotto sotto è quella che
determina le reazioni più immediate e emotive in tutti, al porsi la domanda
“a cosa serve la giustizia?”, distinguendo fra ‘reato’ e ‘peccato’ e
assumendo l’ottica dei diritti e dei doveri dell’uomo in senso laico e
universale.
Con
ciò si giunge a quella consapevolezza civica che permette di guardare con occhi
più critici e accorti ai fenomeni della devianza e del reato, alla realtà
carceraria, a se stessi e alla società intera, nell’ottica della prevenzione
e della pena non solo come retribuzione, ma anche come riparazione e come
possibile percorso di recupero.
L’acquisizione
di questa consapevolezza implica un passaggio fondamentale: superare l’idea,
ispiratrice di tutti i fanatismi e gli integralismi passati e presenti, che il
male sia qualcosa di esterno e estraneo a sé, e che in quanto tale possa essere
estirpato dal mondo. Bisogna riconoscere il male, scoprire anzitutto quello che
sta dentro a ciascuno di noi, se lo si vuole davvero sconfiggere e controllare.
Fedor
Dostoevskij, che fu maestro in questo, giunse alla conclusione che “ciascuno
è responsabile di tutto davanti a tutti”.
Educazione
alla cittadinanza, alla responsabilità, alla legalità
Un
percorso incessante da fare, attraverso tappe e fasi che impegnano a maturare la
ragione, la volontà, l’affettività, la relazione con se stessi e le altre
persone
di
Leopoldo Pincin, insegnante
di Religione cattolica
dell’Istituto
d’arte Bruno Munari di Vittorio Veneto
Padova,
3 marzo 2011 -
Visita di istruzione a Padova, incontro con detenuti presso la Casa di
Reclusione di via Due Palazzi. Due ore in tutto, ché tale è il tempo
consentito dai regolamenti carcerari, ma vissute intensamente. L’evento è
nato dalla collaborazione con Ornella Favero, Direttore responsabile della
rivista “Ristretti Orizzonti”. La preparazione in classe è avvenuta
attraverso la lettura ragionata e l’approfondimento (durante le ore di
Italiano e di Religione cattolica) di alcuni articoli-testimonianza tratti dalla
rivista; è seguita la formulazione scritta di una lunga serie di domande da
rivolgere in diretta agli interlocutori.
Cosa
abbiamo incontrato a Padova? Un edificio enorme, fatto di tanto grigio e lunghi
corridoi, alcune pareti dei quali sono ingentilite da pitture realizzate nel
corso di laboratori; inferriate su inferriate, posti di guardia, aria rafferma
ed umidità. Progettato per 370 detenuti, ne contiene attualmente 800.
Chi
abbiamo incontrato? All’esterno, appena scesi dal pullman, un gruppetto di
persone in attesa di
essere
chiamate per entrare ad incontrare i familiari detenuti. Ci hanno guardato
stupite, forse, dal
fatto
che tanti giovani si accingessero ad entrare in quel luogo e subito, senza
troppa attesa! Al posto di guardia d’ingresso, tre guardie cortesi ci hanno
accolto e, espletate le procedure di controllo documenti e rilascio pass
d’accesso, ci hanno accompagnato alla sala predisposta per l’incontro: 50
sedie, lungo le pareti sobri scaffali zeppi di libri e riviste, appese in
cornici semplici le copertine dei numeri fin qui usciti della rivista. Siamo nel
cuore della redazione di “Ristretti Orizzonti”. Un breve reciproco saluto di
presentazione, e via alle testimonianze dirette di alcuni tra i quindici uomini,
d’età compresa tra i 23 ed i 60 anni. Tutti, Elton, Ulderico, Sandro, Enos,
Rachid, Vincenzo, Franco, Filippo, Igor, Altin, con una storia personale che, ad
un certo punto, è diventata
storia
di azioni delittuose e di detenzione e che ha stravolto anche la vita dei loro
familiari: genitori,
mogli,
figli, compagne, fidanzate… Tutti desiderosi di portare avanti il cammino di
“autoaiuto”
che
prevede anche l’incontro con vittime dei delitti di cui si sono resi
colpevoli. Troppo breve il tempo per rispondere, con disponibilità, franchezza
e senza enfasi, alle tante domande dei ragazzi. Ma sufficiente a noi per capire
che è valsa la pena di incontrarci ed ascoltarci con rispetto. I frutti,
speriamo buoni, per noi e per loro, non sta a noi supporre o pre-giudicare se e
quando matureranno.
Piccole
considerazioni finali
Vale
la pena di credere e faticare per proposte di educazione alla Legalità ed
alla Giustizia, siano esse preventive o terapeutiche, nonostante tutto quel
che di criminogeno accade nel nostro Paese anche ad alti livelli
istituzionali, proprio perché crediamo nell’Educazione Civica e non
nell’educazione cinica.
All’uscita
dal carcere ci siam detti: ”No, non è decisamente bello stare qui
dentro!”. E con l’aggettivo “bello” intendiamo un’infinità di
motivi e di fatti. Misurarsi con queste storie significa perdere tante
illusioni: l’illusione che a commettere reati siano i “diversi”, i
“mostri”, visto che la grande maggioranza delle storie sono iniziate in
famiglie normali e continuate poi di trasgressione in trasgressione;
l’illusione che la razionalità ci salvi sempre e che “io/noi ci
pensiamo prima” perché più intelligenti-più furbi-più protetti;
l’illusione che si possa giocare con l’alcool e le altre sostanze
psicoattive, oltre che con la vita propria e altrui.
Nel
mondo dello spettacolo, dello sport, della finanza, dell’imprenditoria e
della politica fanno vita perfettamente libera persone già riconosciute
colpevoli di reatiben più pesanti di quelli compiuti da alcuni dei detenuti
da noi conosciuti, ma…
I
nostri ragazzi hanno chiesto ad una sola voce: “Più tempo per il
confronto”; perciò vedremo di organizzare scuola un ulteriore incontro
sia con detenuti in permesso speciale, sia con personale della polizia
penitenziaria.
Vittorio
Veneto, 9 giugno 2011
– Liceo Artistico ed Istituto Statale d’Arte “Bruno Munari” – Incontro
dei giovani delle quarte e quinte con Ornella, volontaria, Andrea e,Paola, che
hanno finito di scontare,la pena, e Maurizio, che è ancora,detenuto.
Il
9 giugno è anche l’ultimo giorno di lezioni! Volutamente scelto per dare
significato all’intero percorso formativo scolastico con l’obiettivo di
“Educare alla Cittadinanza responsabile, a partire dalla Costituzione”, ma,
insieme, di dare un seguito concreto alla richiesta di ragazze/i che il 3 ed il
10 marzo hanno vissuto l’esperienza dell’incontro con i detenuti componenti
la redazione di “Ristretti Orizzonti” presso la Casa di reclusione di
Padova.
Ecco,
la mia riflessione verte soprattutto sui VOLTI di tutte le persone con cui ho
avuto l’opportunità di condividere del tempo e degli spazi, dei sentimenti
espressi ed altri impliciti ma palpabili.
Ricordo
i volti di tanti miei allievi e colleghi delle cinque classi quarte e delle tre
quinte quando proposi fossero inserite nel piano annuale delle attività le
visite d’istruzione in carcere. Reazioni le più disparate, giustamente…
Passando dalla curiosità culturale, alla trepidazione sul “Chi incontreremo?
Cos’hanno fatto?”, ad obiezioni od adesioni motivate circa la valenza
dell’esperienza; ma nessuno aveva espresso indifferenza. Tutto è iniziato in
un clima di dialettica costruttiva e di sollecitudine ad essere non solo
insegnanti ma anche educatori ed a credere che è essenziale per noi stessi ed i
giovani che ci vengono affidati praticare l’educazione alla legalità,
attraverso l’esercizio di responsabilità e di regole costruttive per la
dignità umana.
Sono
personalmente convinto, inoltre, che l’incontro-confronto diretto con
testimoni veritieri faccia
parte
di questo patrimonio di umanizzazione costante ed itinerante: costante perché
non ha mai termine, itinerante perché è un percorso incessante da fare,
attraverso tappe e fasi che impegnano a maturare la ragione, la volontà,
l’affettività, la relazione con se stessi e le altre persone. È educante in
responsabilità: “sentire” e “vedere” Ornella chiedere, ad inizio
incontro, di stipulare un “Patto di onestà nell’ascolto”, libero da
chiacchiericci o commenti qualsivoglia e riscontrare che 120 ragazzi e ragazze e
i vari docenti presenti lo condividono consapevolmente. È lezione di
Cittadinanza attiva “sentire” e “vedere” Paola, Andrea e Maurizio
raccontare di sé con toni sinceri, umili, accorati e dimostrarsi effettivamente
disponibili a rispondere ad ogni domanda, senza smania di apparire, di recitare
una parte, di prestarsi a ruoli preconfezionati stile fictionreality- spot. Lo
è anche “sentire” e
“vedere”
le lettere aperte di Cristina ed Ambra di 4a E, la lunga lista di 43 domande
selezionate con
pazienza
tra oltre 100 da Sara B., Sara C., Valentina e Francesca di 5° A e quelle di
Nathian, Carlo e chi altri è intervenuto nel dibattito.
I
volti dei “miei” ragazzi e ragazze! Alcuni/e hanno già vissuto esperienze
molto difficili e travagliate; ad alcuni in casa non è possibile fare due pasti
quotidiani decenti, poiché manca il sostentamento necessario, ad altri è
possibile scialare. Alcuni/e sarebbero potuti finire in carcere, se solo
avessero compiuto un microscopico passo in più verso… Altri si prodigano
silenziosamente in scelte di concretizzazione della solidarietà, della
giustizia. Ma anch’io mi dico: ”Cosa farei, se, con due figli ancor piccoli,
mi trovassi in condizioni simili a quelle in cui si è trovata Paola?”. Già
ho vissuto, 10 anni fa, la pena della disoccupazione e della faticosa ed anche
umiliante ricerca di un
lavoro.
Ed a quanti più sta toccando, ora, nei nostri luoghi, la stessa esperienza! Ed
altrove esperienze ancor più gravi ed atroci, che spingono
masse inermi e violentate a scelte violente pur di sopravvivere. Ma qui
inizierebbe un’ulteriore e lunga riflessione. Grazie per la vostra
testimonianza ed il vostro aiuto in UMANITA’. Ci conto ancora.
Raccontare
con mitezza per dire il mai detto
A
questo portano i percorsi di riflessione e di scrittura di cui si è parlato al
convegno “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi”, a conferma che la
vita è davvero più complessa di quanto non si riesca a rappresentare con le
frasi dettate dal senso comune
di
Adriana Lorenzi, insegna
Tecniche di scrittura all’Università di Bergamo,
conduce
laboratori di scrittura autobiografica nelle carceri, e non solo
Da
anni partecipo ai convegni organizzati dentro il carcere Due Palazzi di Padova
dalla Redazione di Ristretti Orizzonti e ogni volta varco i cancelli che mi
portano in palestra, nel luogo dell’incontro, con infinite aspettative e tanta
curiosità, perché ormai so che l’Adriana che entra al mattino non è la
stessa che uscirà al pomeriggio a lavori ultimati, portandosi appresso un
quaderno zeppo di appunti, fascicoli, riviste e le tante emozioni e i pensieri
che gli interventi dei relatori e le testimonianze dei detenuti hanno mosso.
Ritrovo gli amici della Redazione esterna e interna, ma anche giornalisti e
insegnanti di altre realtà carcerarie con le quali sono entrata in contatto per
far circolare idee, esperienze e sentirmi meno sola nel promuovere iniziative
capaci di accompagnare i detenuti lungo il percorso della loro detenzione.
Poiché
il convegno si svolge alla fine di maggio, mi sembra anche un po’ la
conclusione di un anno accademico, delle attività che a Bergamo, nella Casa
Circondariale dove lavoro, vengono portate avanti e quindi diventa
un’occasione di bilancio, di raffronti. Quest’anno in modo particolare perché
a Padova sono andata insieme alle insegnanti della scuola con le quali collaboro
- in tre automobili
quattordici
persone -, una delle educatrici dell’area tratta mentale e, infine, le due
classi del liceo scientifico E. Amaldi accompagnate dalle loro insegnanti che
hanno partecipato al progetto Il carcere entra a scuola, le scuole
entrano in carcere.
È
al Due Palazzi che si ascoltano voci diverse, quelle che possono ancora
definirsi dissenzienti, militanti: voci che non accettano le condizioni di una
pena non conforme alla Costituzione Italiana
e
i diritti violati dei detenuti. È la rivista Ristretti Orizzonti che promuove
percorsi di riflessione e di
scrittura
a conferma che la vita è davvero più complessa di quanto non si riesca a
rappresentare con le frasi dettate dal senso comune, anche quello dotato della
più autentica buona volontà. È accanto a Ornella Favero che avverto la
presenza del pensiero che indaga, interroga, discute e offre risposte senza
pretendere che siano giuste, definitive. Lei, insieme ai suoi collaboratori,
incarna la libertà di un pensiero divergente, esigente e, soprattutto, poco
arrendevole.
Ed
è così che è stato anche in questo convegno dal titolo I totalmente buoni
e gli assolutamente cattivi dove da subito è stato chiaro che l’intento
era quello di narrare una realtà, quella carceraria, attraverso le storie degli
uomini e delle donne che la abitano: storie che scottano come, del resto, scotta
la vita. Non la vita in generale, piuttosto quella vita in particolare, quella
di chi si è giocato in un gesto la vita già trascorsa e quella a venire.
Storie che lasciano spesso il reato sullo sfondo per dire piuttosto ciò che
quel reato ha travolto, facendo terra bruciata dietro e orizzonte spaccato
davanti a sé. Ho imparato ascoltando i detenuti che non c’è affatto bisogno
di dire tutto, di sventolare i dettagli di azioni che agganciano la vergogna, o
magari l’orrore, mentre diventa cruciale dispiegare il processo
dell’assunzione di responsabilità di quelle stesse azioni che non sono
“capitate”, ma sono state “compiute”.
L’intento
del convegno, da subito esplicitato da Ornella Favero, era quello di proporre
contro-storie,
capaci
di disattendere le aspettative e le facili interpretazioni e ripensare i luoghi
comuni sul carcere
che
descrivono la reclusione come una villeggiatura, dove si mangia e si dorme senza
alcuna preoccupazione con la dotazione in sovrappiù di televisione, campo di
calcio e palestra. I temi in gioco erano quelli del sovraffollamento e della
salute così poco garantita e tutelata in carcere. La giornata è stata dedicata
alla memoria di Graziano Scialpi che è morto senza che gli venissero prestate
le cure necessarie. La presenza dei genitori di Graziano ha aggiunto commozione
alla commozione nel ricordo di chi ha scritto per anni sulle pagine di Ristretti
Orizzonti, disegnando anche la caricatura del detenuto, Dado, così familiare ai
lettori e alle lettrici più affezionati della rivista.
Ho
ascoltato tanti interventi: Paola Barretta spiegare con dati alla mano quanta
parte abbia l’informazione dei telegiornali nella costruzione della paura dei
cittadini nei confronti dei reati di criminalità: solo in Italia si riprendono
i casi di omicidio accaduti a distanza ditempo per nuovi aggiornamenti che sanno
rinnovare la tragedia e coltivare il senso di insicurezza della gente. Daniela
De Robert ha precisato in che modo la cronaca nera sappia distogliere dai
problemi sociali, creando un nemico comune, nell’ordine: i clandestini, i Rom
(definizione che ormai indica i Rumeni per una semplice variazione di vocale) e
i detenuti. E mi ha colpito sentire dalle parole di una giornalista che
l’informazione non “dà notizie, ma emozioni; non cerca
inquirenti, ma i parenti” delle vittime ed è stata lei a invitare il
pubblico lettore a segnalare le espressioni offensive alle redazioni dei
giornali, affinché chi li dirige e chi scrive le notizie possa usare con
attenzione le parole.
Preziose
indicazioni queste, per avviare un pensiero alternativo, mentre si facevano via
via sempre
più
toccanti le parole dei detenuti che da anni lavorano in redazione e hanno usato
il microfono, emozionati e concentrati, per dire quello che hanno vissuto e
continuano a vivere in carcere, accompagnati dalla vicinanza di Ornella che
vegliava sulla loro commozione, incoraggiandoli a continuare il loro discorso.
Penso a Filippo che ha ammesso di non avere mai provato l’esperienza della
paternità, eppure gli sembra di viverla adesso quando al Due Palazzi incontra
gli studenti ai quali cerca di spiegare il lento scivolamento nella
tossicodipendenza; oppure a Dritan che ha confessato di non sapere cosa farebbe
se qualcuno facesse del male a sua figlia, ma è grato per l’allenamento al
quale si sta dedicando per arrivare a pensare prima di reagire. Ha detto che è
un onore parlare con gli studenti. Io continuo a pensare che sia un onore per
gli studenti e anche per noi ascoltarli e confrontarci con il loro coraggio di
mettere a nudo la parte peggiore di loro stessi, le ombre di una vita che
nessuno gradisce nominare, né tantomeno condividere.
È
quando non si sa qualcosa che scatta la voglia di rifletterci sopra: è successo
anche a Lorenzo Pavolini - autore del libro Accanto alla tigre e
relatore al convegno – che ha raccontato del nonno, Alessandro, un eroe oppure
un mostro del periodo fascista, assassinato e appeso a testa in giù a Piazzale
Loreto insieme a Benito Mussolini e Claretta Petacci. Anche lui è partito dalle
domande per capire il nonno e la sua fede fascista sulla quale la memoria
familiare ha steso un velo di silenzio che lui ha cercato, invece, di penetrare,
forse proprio partendo dal suo “Non so”, dalle sue domande, evitando
accuratamente risposte-scappatoie.
È
questo che si impara nei convegni organizzati al Due Palazzi d Padova: a evitare
luoghi comuni, a rendere complessa una verità, a raccontare con mitezza per
dire il mai detto fino a quel momento e rompere le semplificazioni avvilenti per
chi parla e per chi ascolta. Quando non si sa cosa dire, diventa quasi pressante
avviare una ricerca in racconto che non cerca una risposta semplice, ma abita la
domanda e apre a connessioni meditative.
L’ascolto
delle vittime è una pagina importante di questi convegni
C’è
una pagina che amo e che da qualche anno si apre a ogni convegno ed è quella
nella quale si
ascoltano
le vittime come Silvia Giralucci e Marco Alessandrini i cui padri sono stati
uccisi dai terroristi, oppure Alfredo Bazoli, la cui madre è stata uccisa dalla
bomba scoppiata a Piazza della Loggia a Brescia. Tutti e tre hanno bisogno di
recuperare la fiducia nel patto sociale che qualcuno ha rotto privandoli di
affetti cari e vogliono svelenire l’odio per andare avanti senza dimenticare
quello che è stato, rinnovando quotidianamente il loro impegno in politica, nel
giornalismo, nelle loro attività professionali.
È
sceso un silenzio concentrato quando ha preso la parola Marina, la mamma di una
detenuta, Giulia, che ho conosciuto nel carcere di Bergamo. Parole vibranti e
intense per dire la fatica di seguire la figlia, l’unica, di carcere in
carcere, affidandosi alla verità di lei e non allo sciacallaggio fatto dai
giornali per il reato commesso e ribadire la necessità di pensarla sempre
figlia e di tenere accesa la speranza. Marina ha concluso dicendo di sentirsi più
fortunata dell’altra mamma che ha perso irrimediabilmente la sua creatura. Le
cose per lei e per Giulia possono ancora volgersi al meglio nell’apertura di
una seconda possibilità.
Nella
pausa del pranzo sono andata a salutare Marina, a complimentarmi con lei per il
coraggio della sua testimonianza, perché sono in tanti i genitori che non
riescono neppure a nominare il senso di colpa che vivono, perché il figlio ha
fatto quello che ha fatto ed è stato marchiato a fuoco dalla detenzione.
Il
convegno in realtà, come si legge sul dépliant illustrativo, è stato definito
Una Giornata Nazionale di Studi, proprio perché la questione
centrale è promuovere meccanismi di riflessione, un risveglio delle menti in
linea con la citazione di Primo Levi: “Quante sono le menti umane
capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante, impercettibile forza
di penetrazione dei luoghi comuni?”.
È
Hannah Arendt che ci insegna che: “discorso e azione sono le modalità in
cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici,
ma in quanto uomini. Questo apparire, in quanto è distinto dalla mera
esistenza corporea, si fonda sull’iniziativa, un’iniziativa da cui
nessun essere umano può astenersi senza perdere la sua umanità…
una vita senza discorso e senza azione è letteralmente morta per
il mondo”.
Senza
queste occasioni, sarebbe morta la vita di chi viene chiuso in carcere e rischia
di essere dimenticato dal mondo esterno. Invece, grazie alla presa di parola di
uomini e donne, detenuti oppure liberi, le loro esistenze ripensate,
riattraversate, ridiscusse nell’incontro con altri – detenuti oppure
studenti, volontari e operatori – diventano una sorta di bussola capace di
orientare il pubblico ascoltatore al di sopra della confusione del momento e di
guidarlo, per dirla con Richard Sennett “nel nuotare contro la
corrente vorticosa del tempo”.
Il
silenzio del pubblico in un contesto di per sé rumoroso per via della cattiva
acustica, della partecipazione numerosa di gente di tutte le età, provenienza
geografica e professionale è stata per me la riprova della delicatezza del
momento, della necessità di restituire in attenzione le infinite energie spese
per l’organizzazione di una giornata di studio come questa con il contributo
di scrittori come Davide Ferrario, Gianni Biondillo e Gaia Rayneri, docenti
universitari come Gianfranco Bettin e Adolfo Ceretti, la Dirigente Generale
dell’Amministrazione penitenziaria, Maria Pia Giuffrida.
Quando
ho salutato tutti gli amici di Ristretti Orizzonti, li ho ringraziati, perché
me ne andavo carica di fiducia per quello che ancora può essere, per quello che
sarà in termini di riforme e battaglie per migliorare, per come e per quanto
possibile, la realtà carceraria che ciascuno di noi ha imparato ad amare,
lavorandoci giorno dopo giorno, assistendo sia a uscite senza ritorno che con
ritorno.
Quel
venerdì di maggio ho lasciato il Due Palazzi con nuove idee da realizzare,
propositi da perseguire per non smettere di far sapere del carcere dal carcere,
per trasmettere le esperienze nascoste tra le pieghe delle vite spinte al limite
del comprensibile. È più facile, ma anche più bello, non sentirsi soli, ma in
compagnia di tanti accesi dalla stessa passione, dalla stessa energia che mira a
volere rendere più dignitosa la vita che scorre con lentezza esasperante e in
condizioni spesso disumane tra le mura carcerarie.
Elogio
dei comodini
di
Ornella Favero
Uno
studente durante un incontro con la redazione, per parlare della necessità di
imparare a “pensarci prima”, a fermarsi un attimo a riflettere prima di
agire, ha usato una immagine curiosa, attribuendola al regista Dario Argento,
che “una volta ha attraversato un periodo che voleva suicidarsi e ha deciso di
mettere tutti i comodini davanti al balcone, e quindi non poteva buttarsi, e se
avesse voluto farlo avrebbe dovuto spostare tutto ciò che aveva messo
davanti”. Quindi quei comodini diventano il simbolo della necessità di non
fare atti istintivi e affrettati, ma di “prendersi tempo” per riflettere.
Non so se questo aneddoto sia una fantasia di quello studente, so però che la
metafora dei comodini è utile per spiegare il nostro faticosissimo lavoro con
le scuole. È come se le persone detenute, che spesso raccontando la loro storia
testimoniano di quante volte, nella vita, si compiono delle scelte sulle quali
non si è stati capaci di fare una minima riflessione, si mettessero
a
disposizione per “spostare quei comodini” davanti alle finestre e innescare
nei ragazzi l’idea che bisogna allenarsi a pensarci prima, e non è per niente
scontato, né facile farlo.
La
cosa più spiazzante per i ragazzi, nel confronto con i detenuti, è la perdita
delle sicurezze: perché è rassicurante pensare che nella vita si possa sempre
scegliere razionalmente, e chi non lo fa sia pienamente consapevole delle
conseguenze che deve subire. Accorgersi invece che tanti di quei ragazzi finiti
in galera, magari per aver portato con sé un coltellino, o per essere scivolati
lentamente dalla piccola trasgressione a una dipendenza devastante, in un
momento della loro vita erano stati convinti di potersi fermare in tempo,
significa perdere un po’ di tranquillità, un po’ di
eccessiva
fiducia nella propria ragionevolezza, un po’ di illusione di poter contare
sempre sul proprio equilibrio. Perché nessuno nasce razionale ed equilibrato,
nessuno nasce “totalmente buono”, ci vuole un gran lavoro con se stessi, ci
vuole la consapevolezza che bisogna allenarsi ogni giorno a diventare persone in
grado di imboccare la strada giusta, senza cercare scorciatoie poco sicure.
Ma
questo progetto con le scuole è anche un progetto che tocca “la ragione e il
sentimento”, e che fa soffrire, perché il confronto che la redazione di
Ristretti Orizzonti propone ai ragazzi con la realtà del carcere, ma
soprattutto con le testimonianze personali, storie di vite difficili, faticose
da ascoltare, è anche un allenamento a riflettere sulla sofferenza e sulla
fatica di vivere, un modo per affrontare il momento in cui si devono fare delle
scelte imparando a conoscere i rischi.
E
non ci dicano che ai ragazzi è meglio far vedere cose belle, portarli a una
mostra invece che in galera, preservarli dalla sofferenza che portano con sé le
vite di chi è finito in carcere: noi preferiamo pensare, come dice Marco Lodoli,
scrittore e insegnante, che non voler soffrire mai, neppure per misurare le
nostre forze, sia un motivo di fragilità, e non di “robustezza” di idee e
di sentimenti.
Ci
piace allora riproporre il progetto di confronto tra scuole e carcere a partire
da questa riflessione
di
Marco Lodoli
“In
fondo questo deve essere il pensiero che ha portato quattro studenti liceali di
Milano ad allagare la scuola per evitare un compito di greco. Non volevano
soffrire. Ecco la verità centrale della nostra civiltà, ciò che prima l’ha
resa straordinaria e ora la rende cosi fragile..
(…)
Ora questo modello traballa per lo stesso motivo per cui si è imposto. Come ha
dichiarato quell’alunna, noi non vogliamo soffrire mai, neppure per un
momento, neppure per misurare le nostre forze. Ancora una volta dai ragazzi,
avanguardia del tempo, ci arriva il messaggio più nitido, quello che ci
costringe a riflettere sul centro della questione. La nostra capacità di
sopportare le difficoltà, di raccogliere le energie di fronte a una piccola
salita, di pretendere qualcosa di più da noi stessi grazie a uno sforzo anche
esiguo, ormai si sta esaurendo. Andiamo avanti a pasticche che sollevano dalla
depressione o smorzano l’ansia, beviamo per non sentirci inadeguati,
abbassiamo ogni giorno gli obiettivi, ci ritiriamo da ogni confronto, anche da
quello con la nostra vita e con i nostri sogni. Tutto va bene cosi come è, e se
non va bene ci si può sempre voltare dall’altra parte, distrarsi, stordirsi,
evitarsi. Non c’è grappolo che non sia comunque troppo in alto, non c’è
uva che non sia acerba. Persino la malinconia, sentimento capace di allargare
l’anima per farle accogliere tanta altra vita, viene respinta dal nostro
modello imperante”.