Intervista a Francesca Vianello, docente universitaria impegnata anche in carcere con il Polo universitario e con un’attività di ricerca

Lo studio, la cultura, la ricerca danno un senso della pena?

 

a cura di Elton Kalica

 

Io mi chiamo Elton Kalica, immagino che molti di voi mi conoscano perché, ormai, questo è l’ottavo convegno a cui partecipo e che contribuisco a preparare. Sono un po’ emozionato, in modo particolare, perché questo è anche l’ultimo convegno che faccio qui dentro, dato che fra pochi mesi dovrei uscire.

C’è una collaborazione molto intensa tra il carcere e l’Università di Padova, perché da un lato noi

collaboriamo come redazione, incontrando molti gruppi di studenti dei corsi di sociologia della devianza e dei master. C’è poi un altro rapporto fondamentale, che è quello di studio, perché alcuni docenti universitari

mandano anche dei loro studenti a preparare le loro tesi in carcere, il metodo è quello etnografico, quindi vengono a fare interviste qui dentro, noi ci mettiamo a disposizione e loro imparano a studiare il carcere, non sui libri, ma “sporcandosi le mani” direttamente.

All’interno del carcere poi c’è anche la possibilità di dedicarsi agli studi universitari, e, quindi, c’è un Polo universitario, coordinato da Francesca Vianello.

Intanto comincio con una prima domanda su una ricerca che, noi come redazione, abbiamo chiesto di fare. Dopo più di sette anni di incontri con le scuole, noi abbiamo voluto avere un riscontro scientifico di quelli che sono gli effetti che questi incontri producono sui ragazzi, allora abbiamo chiesto all’Università di aiutarci a fare una ricerca che abbia un valore scientifico, e di dirci quali sono i frutti, i risultati del lavoro che stiamo facendo con le scuole.

 

 

Una ricerca che, forse, riuscirà a smuovere qualcosa di più rispetto alle tavole statistiche

 

di Francesca Vianello

 

Ho avuto dalla redazione il compito, che considero importante, di tentare, in qualche modo, di misurare l’impatto di questo percorso che, ormai da anni, la redazione sta compiendo con moltissimi studenti di Padova e provincia. Si tratta evidentemente di misurare un impatto che è

un impatto primariamente emotivo, che si può misurare poi nel cambiamento delle opinioni, delle

percezioni, ma che non è realmente quantificabile, statisticamente presentabile, se non nelle elaborazioni che noi facciamo in seguito.

Il percorso Carcere e Scuole è un percorso che ha portato già a delle pubblicazioni importanti, pubblicazioni che hanno proposto le riflessioni scritte degli studenti, che hanno raccolto le loro opinioni in occasione di questa iniziativa. E da qui già era desumibile, era molto visibile il forte impatto di questa esperienza. Abbiamo proposto semplicemente un approfondimento di tipo metodologico: abbiamo deciso di preparare un questionario da distribuire alla maggior parte degli studenti che hanno preso parte quest’anno a questa esperienza, e - una cosa importante che ci tengo a dire - questo questionario lo abbiamo prima immaginato insieme alla redazione stessa di Ristretti Orizzonti, poi discusso, e poi ridefinito sulla base di quello che è uscito dalle nostre discussioni. Quindi non è un questionario che abbiamo costruito noi da “dentro l’università”, ma è un questionario che è il risultato di un lavoro di condivisione e di elaborazione, di un approfondimento

che è stato già di per sé un lavoro importante.

Si tratta di un approfondimento metodologico che, in maniera semplice, comprende, primariamente,

tre aree tematiche. Una prima, che riguarda la decostruzione degli stereotipi, e, quindi, la capacità di questa esperienza di de-influenzare, di dare degli strumenti per resistere a quelli che sono gli stereotipi che vengono trasmessi anche dalla televisione, dai giornali, rispetto alla criminalità, alla pena, alla punizione, al senso del punire, e poi rispetto al carcere. Si tratta quindi di misurare la capacità di questa esperienza di produrre un’informazione più corretta, più limpida. Una seconda

tematica intende investigare se questo tipo di esperienza possa essere, in particolare con gli studenti di quell’età, anche uno strumento di prevenzione, di prevenzione rispetto a determinati stili di vita, determinati comportamenti, di cui magari gli studenti non percepiscono immediatamente la pericolosità né la gravità, prima di tutto per loro stessi, oltre che per la società. Infine, una terza area che riguarda la socializzazione di questa esperienza: abbiamo voluto chiedere agli studenti se poi parlano di questa esperienza e di quello che questa esperienza ha dato loro, se ne parlano in famiglia, se ne parlano con gli amici, se questo tipo di esperienza è anche strumento, fonte di discussione, all’esterno della scuola. È un aspetto, anche questo, a cui teniamo molto perché crediamo che solo nella misura in cui si riesce a promuovere la socializzazione del problema, delle questioni di cui si discute, si può poi fare un discorso un po’ più ampio anche sulle possibilità

di cambiamento, di trasformazione, di elaborazione di risposte innovative.

Un ultimo appunto rispetto alla difficoltà, con questa ricerca, di misurare un impatto emotivo. È difficile, ma credo che sia fondamentale: lo dico anche perché, come studiosa di questi temi, sono anni che a convegni, conferenze, incontri pubblici, scioriniamo dati che, in qualche maniera, tentano di de-costruire i principali stereotipi sulla criminalità.

Posso fare qualche esempio: l’idea che esista una relazione tra i tassi di criminalità e i tassi di detenzione, e che, quindi, la pena abbia una funzione deterrente. Tutti i dati sconfessano questa ipotesi.

Sono anni che presentiamo, o altri presentano ai convegni, dati sulle misure alternative che dimostrano in tutti i modi che con le misure alternative la recidiva diminuisce.

Eppure, questi dati statistici, questi dati quantitativi, pur ovviamente importanti, sembrano non essere capaci di scalfire questi stereotipi, di scalfire quello che noi comunque pensiamo rispetto alla punibilità, rispetto alla “giusta vendetta”, rispetto a come secondo noi dovrebbe essere trattato il crimine.

Questo è effettivamente un problema per noi. D’altro canto la stessa redazione di Ristretti è una delle fonti principali di questi stessi dati statistici. A me è capitato, moltissime volte, andando ad

incontri di tipo “istituzionale”, di vedere che quando vengono presentati dei dati nelle slide c’è scritto in calce “fonte Ristretti Orizzonti”. La redazione è ormai diventata la principale fonte anche di questo tipo di dati. Non parliamo poi di quell’Osservatorio che Ristretti condivide con altre associazioni e che riguarda la questione, più drammatica, delle morti in carcere. Però non si riesce a scalfire certi luoghi comuni, non si riesce ad andare oltre: l’unica speranza mi sembra sia proprio quella di investire su un’esperienza di tipo emotivo, che poi è proprio quello che si sta facendo qui oggi.

In questo caso, nel caso del carcere, non è vero che i dati parlano da soli, i dati sembrano non parlare per niente. Scontrandoci quotidianamente con questa realtà, ci è sembrato importante partecipare, riuscire a contribuire invece con una ricerca su questo tipo diverso

di esperienza che, speriamo, riuscirà a smuovere qualcosa di più rispetto alle tavole statistiche, alle

elaborazioni, e ai dati che si presentano normalmente alle conferenze.

 

Elton Kalica: Venendo in carcere in una doppia veste, come studiosa e come coordinatore del Polo universitario, vedi il detenuto studente, quando vieni per problemi relativi allo studio in carcere, e vedi il detenuto intervistato quando vieni per fare i tuoi studi sul carcere. In entrambi i casi sia per il detenuto intervistato, sia per il detenuto studente, il detenuto è un soggetto attivo, cioè fa qualcosa, si impegna in qualche cosa e partecipa a qualcosa di utile. Io volevo chiederti se vedi maggior consapevolezza di questo lavoro di partecipazione di sé in parte del detenuto.

 

 

Lo studio in carcere deve essere uno spazio, per quanto limitato, di libertà

 

Di Francesca Vianello

 

Avendo avuto modo di confrontarmi con l’esperienza di Ristretti Orizzonti, e anche con tutto quello che riguarda la questione dello studio universitario in carcere al Polo universitario di questa Casa di reclusione, credo di potermi considerare semplicemente testimone di alcune esperienze che, proprio perché non sono governate dalle tradizionali logiche carcerarie, funzionano. Adesso mi spiego meglio: chi studia il carcere sa che il carcere è, primariamente, orientato verso obiettivi di sicurezza interna. È così per la struttura stessa del carcere, è così perché appare necessario per il governo di una istituzione chiusa di questo tipo. Il carcere non solo pretende di isolare i detenuti dalla società, ma pretende anche di isolare i detenuti tra loro stessi. Il carcere tradizionale è un carcere che non prevede spazi di condivisione, non prevede spazi in cui possa essere, in qualche modo, tematizzato

il conflitto, non prevede spazi in cui i detenuti possano pensare a un qualche progetto comune.

Credo che le esperienze, sia di Ristretti che del Polo universitario, in qualche modo e pur in maniera

diversa, siano esperienze in cui il carcere - quello vendicativo, quello retributivo, il peggiore che ci viene in mente - almeno per un momento si ritrae e lascia lo spazio perché avvenga qualcosa che, pur essendo interno all’istituto, carcere non è.

Che cosa voglio dire? Credo che l’importanza di queste esperienze sia misurabile nella misura in cui riusciamo ad opporci a quell’adagio che recita che “una buona giornata in carcere è una giornata

in cui non succede niente”. Invece, una buona giornata in carcere, nei nostri casi, nel caso di Ristretti, nel caso del Polo universitario, è quando qualcuno si laurea, quando ci sono delle esperienze che danno qualcosa, un carcere in cui – per fortuna - succede qualche cosa.

Nella mia, anche limitata, esperienza credo che i detenuti che partecipano a questo tipo di piccoli

spazi liberi se ne rendano conto perfettamente, mi sembra che molti rispondano, in realtà, benissimo, e che testimonino con la loro esperienza, tutti i giorni, come dovrebbe, e come potrebbe, essere altrimenti la pena. Però credo anche, per testimoniare la difficoltà di questo tipo di esperienze, che perché queste esperienze funzionino sia necessario, da parte di chi le porta avanti, di chi si confronta con i detenuti, un rigore fortissimo, un rigore nella comunicazione. Lo studio, per esempio: lo studio deve essere un bene a priori, ci deve essere un accordo sul fatto che lo studio è una risorsa di per sé. Ci deve essere un accordo sul fatto che le esperienze che vengono vissute

vale la pena viverle, esse non possono e non devono diventare oggetto di contrattazione, oggetto di scambio; allo stesso modo non possono essere raccontate bugie, non si può promettere ciò che non si può dare. L’accesso allo studio in particolare funziona quando si riesce a ricreare un piccolo spazio in cui si offrono dei diritti e dei servizi, e non semplicemente un’assistenza, che va benissimo, ma che non crea quello spazio, per quanto limitato, di libertà all’interno del quale, solo, ci può essere un’assunzione di responsabilità. Perché se non c’è possibilità di scelta, se non c’è

libertà, non credo ci possa essere neanche alcuna assunzione di responsabilità: che si tratti dello studio o di aspetti ancora più importanti della vita dei detenuti come di ciascuno di noi.

 

 

Un’intervista a Giuseppe Mosconi, docente di Sociologia, sulla rieducazione e sul senso dei percorsi scolastici realizzati in carcere

Un delinquente istruito è sempre meglio che un delinquente ignorante?

 

A cura di Elton Kalica

 

Riflettendo su un progetto come quello che facciamo noi con le scuole e il carcere, vorremmo rimettere in discussione la rieducazione, cos’è la rieducazione.

Secondo l’Ordinamento penitenziario gli elementi cardine sono il lavoro e lo studio. Sappiamo che la rieducazione è difficile, molto difficile, perché i due terzi dei detenuti sono recidivi, quindi non è che funzioni sempre. Noi diciamo, agli studenti, quando facciamo gli incontri, che la cosa che funziona meglio nelle carceri di solito è la scuola. Da un lato ci sono molti detenuti che, una volta finiti in carcere, ritrovano l’interesse per rimettersi a studiare e, dall’altro, c’è veramente un investimento da parte delle istituzioni in carcere, si può studiare dalle scuole elementari fino all’università. A volte ci sentiamo dire che è un lusso, che è troppo che ci sia questo investimento

quando poi la recidiva è sempre alta, quando poi

 

 

Lo studio offre strumenti che cambiano la percezione che la persona ha di sé e del mondo

 

Di Giuseppe Mosconi

 

In realtà questa riflessione pone diversi livelli di questioni.

Credo che ci sia un tema molto specifico, facilmente percepibile, che consiste nel cercare di capire che cosa si associa di positivo a un percorso scolastico, dal livello elementare fino alla laurea, agito in carcere. La prima cosa che è necessario sottolineare, forse più semplice e più ovvia, ma non così scontata, è che lo studio è un diritto, è un diritto che riguarda ogni persona, e che questo non deve venire limitato o alterato dal fatto che la persona si trovi reclusa. Se è vero che la pena dovrebbe consistere esclusivamente nella privazione della libertà, ogni altro tipo di libertà non deve risultarne compresso. Cosa semplice a dirsi, molto più problematica a realizzarsi, quindi a concettualizzarsi.

Chi si avvicina, dall’interno del carcere, a un percorso di studio agisce, ovviamente, nell’esercizio di un proprio diritto, ma non lo fa in una situazione di parità, lo fa in una situazione di privazione, di oggettivo svantaggio, nel senso che gli vengono offerte molte meno possibilità nel sistema di vita, di relazioni, ed è inevitabile che viva questa opportunità, e questa esperienza, all’interno di questa condizione particolare. Allora è abbastanza ovvio che succeda che il percorso formativo venga anche vissuto per attenuare gli aspetti negativi della detenzione, a livello più elementare se non altro perché non si sta in cella, ma si va in un’aula in cui si discute di cose più o meno interessanti, e comunque si esce dal lessico, dalla quotidianità, dallo stesso ritmo mentale ed emotivo della reclusione in cella. E in secondo luogo perché, nel momento in cui si accede a un percorso formativo, si acquisiscono crediti, cioè, si maturano punti positivi, auspicabilmente anche in vista dell’ottenimento di benefici, si entra attivamente nel progetto di rieducazione.

Io ritengo che entrambe queste cose, che potrebbero, da un certo punto di vista, essere giudicate

negativamente, in quanto gettano una luce di strumentalità sull’attitudine formativa, siano, prima di

tutto inevitabili, ma anche comprensibili e giustificabili nel contesto in cui ci troviamo. Altro è

chiedersi, e questo è il livello successivo, se questi limiti, che sono però più i limiti imposti dal contesto istituzionale, che dei limiti delle persone che si avvicinano all’opportunità formativa, siano dei limiti superabili, siano dei limiti che possono venire diluiti, così da portare l’esperienza formativa a un livello diverso. E l’esperienza formativa a un livello diverso significa essenzialmente

offrire, e d’altra parte, fruire di strumenti che consentano di conoscere la realtà, di analizzarne le componenti, le variabili, la storia, di acquisire strumenti che consentano di interagire in modo

corretto e adeguato con le istanze che la società solleva verso la persona.

Si tratta cioè di avere i mezzi per poter interagire in modo adeguato e poter analizzare anche la propria condizione all’interno della realtà sociale: questo, probabilmente, è possibile. E’ vero che lo studio, dalle tecniche, alle lingue, alla storia, alla geografia, a tutto ciò che è il sapere, all’attitudine all’analisi dei fenomeni politici e sociali, offre strumenti che, inevitabilmente, cambiano la percezione che la persona ha di sé e del mondo, Non mi interessa sapere se questo vuol dire che la persona detenuta non compirà più reati o meno, ma, sicuramente, il modo in cui, se è calato in questa dimensione, è messo in condizioni di libertà, di sollecitazione, cambierà la percezione di se stesso e del mondo in modo più dinamico, più ricco, più avveduto, rispetto a una situazione di partenza. Quello che in realtà, poi, in un processo interattivo di formazione, si pone problematicamente, è la rappresentazione reciproca che si dispiega tra il docente e l’alunno. Perché noi non possiamo guardare sempre a chi è stato condannato per un reato, come a qualcuno che, bene o male, in un modo o nell’altro, deve cambiare, senza porci a nostra volta il problema di interrogarci su come noi siamo orientati a giudicare questa persona, su come i cosiddetti normali elaborano aspettative e linguaggi verso questa persona, su come catalogano, che lo vogliano o non lo vogliano,

e quindi giudicano la sua esperienza, e che tipo di interazione si sviluppa tra queste due dimensioni.

Allora, ciò che nello studio rischia, paradossalmente, di deformare il processo comunicativo, è un appiattimento dell’identità degli attori coinvolti, ad un livello di formalizzazione, di tipizzazione, di

codificazione, in cui si dà per scontato che l’uno e l’altro si muovano su un terreno di adeguatezza, cioè, sostanzialmente, di omogeneità. Io ti insegno, tu impari, tu hai imparato, mi rimandi una tua esperienza migliore, io che ti ho insegnato mi riconosco di più nel miglioramento che ti ho consentito. È questo tipo di interazione che contiene degli stereotipi, delle stereo tipizzazioni che rischiano di comprimere e di alterare il senso delle scambio formativo. E, invece, credo a questo

punto sia necessario uno sforzo reciproco, e, però, bisogna avere l’avvertenza, la consapevolezza e la delicatezza, nell’avvertire le variabili in gioco in questo processo di comunicazione, perché si destrutturino le aspettative e si pongano su un terreno più fluido, più aperto, i cui esiti siano anche tutti da ridefinire.

E, infine, c’è un problema che riguarda il dopo, quando il processo formativo si è compiuto. Cioè,

quando la persona ha maturato un titolo, ha maturato un diploma di scuola superiore, ha maturato una laurea, e esce da qui. Ci sono sessanta studenti universitari nel carcere Due Palazzi di Padova; non è poca cosa. La persona esce di qui, esce con un titolo; e molti sono pure gli studenti di scuola media superiore. La società che cosa fa? Si dirà: bravo hai studiato, quindi sei uno di noi, ci capiamo subito, sei affidabile, è rassicurante il fatto che hai maturato questo titolo. Sdrammatizziamo il pregiudizio verso chi esce, ma se poi, al titolo maturato, e alle aspettative che si sono elaborate in virtù di questo titolo, non corrispondono offerte reali, concrete, di opportunità adeguate al livello di ciò che si è maturato? Ecco un altro possibile effetto paradossale, l’effetto boomerang del percorso educativo e formativo, vale a dire, il rischio che la delusione indotta dal non conseguimento di adeguate opportunità rispetto al percorso formativo si traduca in una delusione più profonda, con le conseguenze proprie di un processo regressivo, facilmente prevedibili.

Mi permetto di sottolineare che questo è molto più delicato per uno studente che ha fatto il suo percorso qui, rispetto a uno studente normale, perché lo studente

normale ha imparato che il suo futuro è la precarietà, che è la difficoltà, che è la lotta, e, d’altra parte, è compensato da una serie di opportunità collaterali, di relazioni, di apprendimento, di piacere anche, di edonismo, se vogliamo, di godimento, rispetto alle frustrazioni del futuro precariato. Ma qui, chi gode di un percorso alternativo è naturalmente indotto ad assolutizzare le sue aspettative attorno a questo, è ovvio che da uno stato di depauperamento, di carenza di opportunità, lo studio assurga ad una valenza molto intensa e molto elevata. Quindi le responsabilità che la società si assume io non vorrei che fossero semplicemente delle attenuazioni dell’incapacità che la società ha di dare delle risposte adeguate, come dire: ma si, intanto li facciamo studiare, è già molto che studino. No, il fatto che si faccia studiare chi vive questa sofferenza, questa costrizione, comporta un’assunzione di responsabilità che va onorata.

Nell’economia di questo percorso, si pone un’ultima questione a proposito del tema del rapporto tra

studio e rieducazione. La categoria di rieducazione, ovviamente, contiene uno stereotipo, ma noi non possiamo accusare i padri costituzionali di essere stati influenzati negativamente da questo stereotipo.

Del resto, ogni categoria va vista nel suo contesto storico, ma anche nel processo che ha attraversato e che continua ad attraversare. Rieducazione vuol dire che chi ha violato la legge non è educato, cioè, ha violato la legge perché non è educato, non è sufficientemente bene educato, e, potremmo anche aggiungere, alla luce di una consapevolezza critica, che l’esperienza carceraria, (e di questo i padri costituzionali erano certamente consapevoli), senza che sia realizzata una finalità educativa, rischia di essere ulteriormente diseducativa; quindi un doppio gap, una doppia carenza, di carattere diseducativo. Ma il parlare di rieducazione, certamente, comporta assumere sullo sfondo del discorso una stereo tipizzazione di normalità e una assolutizzazione di aspettative che non tengono conto della concretezza delle esperienze, della complessità di elementi che sono assolutamente unici nell’esperienza dell’individuo; sono, forse, non facilmente comunicabili, non sono codificabili dagli interlocutori, e si delineano in modo spesso imprevedibile. Allora il problema è non tanto quello di rieducare rispetto a una negatività di partenza e a una positività di arrivo, ma di aprire una dimensione fluida, una dimensione dinamica, qualificante, significativa, questo sì, dove le aspettative possano essere messe a confronto. E, in questo senso, credo che chi insegna in carcere, e

lo fa con onestà intellettuale, non possa non riconoscerlo: si insegna in carcere, non solo e non tanto, per insegnare, ma anche e soprattutto per imparare.

 

 

Gli studenti raccontano che cosa ha significato per loro “incontrare” il carcere

Informazione dal carcere: “Il piacere dell’onestà”

 

Quando, quasi quindici anni fa, abbiamo deciso di provare a fare informazione dal carcere, non

abbiamo trovato niente di meglio dell’aggettivo “onesta”, volevamo esattamente provare a fare una

informazione onesta. “Il piacere dell’onestà” in carcere non sono in tanti ad averlo sperimentato, e così abbiamo iniziato un complicato percorso alla ricerca di quel piacere sottile che ti dà l’idea di non ingannare i tuoi lettori, di non raccontargli bugie, di non cercare di passarti per quello che non sei.

Ma la fatica di essere onesti nell’informare per chi sta in carcere è tanta, perché si tratta, spesso, di

“mettere al servizio” degli altri il peggio di sé, la parte più negativa della propria vita. Ed è proprio

questo il modo più profondo per dare un senso all’informazione, quando è fatta realmente da persone detenute, persone che hanno vissuto direttamente la conoscenza del “male”, qualche volta

hanno scelto lucidamente di farlo, qualche volta non sono riuscite a controllare la loro vita che deragliava.

E chi, come gli studenti coinvolti nel progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, sente il racconto di come si può arrivare a commettere un reato, e capisce che non capita solo agli “altri”, altri da noi naturalmente, forse ha qualche strumento in più per difendersi dalla cattiva informazione.

 

 

Riscattarsi da un passato oscuro e diventare persone migliori è possibile

 

interventi di Nura, Stefano, Francesca,Giulia, Diletta, Annagaia,

studenti del Liceo Galileo Galilei di Caselle di Selvazzano

 

Sbagliare fa parte dell’essere umano. A volte certi errori non sono banali o trascurabili, ma sono il risultato di una serie di circostanze che li rende anche molto gravi.

Con il progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere” abbiamo capito che ognuno di noi può commettere errori, più o meno gravi, e che chiunque deve avere la possibilità di riuscire, in qualche modo, a rimediare; abbiamo imparato che riscattarsi da un passato oscuro e diventare persone migliori è possibile. Non abbiamo conosciuto solo detenuti o ex detenuti, ma persone coraggiose che hanno avuto la forza di mettersi in gioco e raccontare la propria esperienza a ragazzi che neanche hanno mai visto. Quello che pensiamo è espresso in una frase della poetessa Alda Merini: “E se diventi farfalla nessuno pensa più a ciò che sei stato, quando strisciavi per terra e non volevi le ali”. Avervi conosciuto ci ha cambiati.

 

Questa esperienza ci ha aperto gli occhi sulla realtà di chi finisce in carcere

 

Mi collego al discorso che ha iniziato Stefano dicendo che questa esperienza ci ha veramente

aperto gli occhi sulla realtà di chi finisce in carcere, e la maggior parte delle persone là fuori, come noi prima di iniziare questo progetto non ci pensa, la ignora, la sfiora da lontano attraverso i giornali e la televisione, e spesso si costruisce opinioni sbagliate. Anche noi lo facevamo, d’altronde

immedesimarsi negli altri è sempre molto difficile in qualsiasi situazione. E per questo siamo felici di aver avuto l’occasione di avvicinarci di più a questo mondo attraverso le loro storie, le loro parole e, talvolta, solo attraverso i loro sguardi. Personalmente il mio modo di giudicare è cambiato radicalmente, ora so che dietro ad ogni accusa, ogni condanna, c’è sempre tanta sofferenza e tanto dolore.

Speriamo che iniziative preziose come questa possano diffondersi sempre di più, per noi, per aiutarci a capire, e anche per loro perché abbiano la possibilità di raccontare e spiegare. Grazie.

 

Scoprire che, dietro a ogni cattivo, c’è una persona, un uomo come noi

 

La maggior parte delle persone non pensa mai al carcere, siamo abituati a considerarlo come una realtà che non ci riguarda, un mondo di disperazione con cui nessuno di noi avrà mai a che fare. Nella nostra mente i carcerati sono tutti mostri, uomini che hanno deciso, deliberatamente, di

dedicare la loro vita al male, persone violente, ladri, truffatori, Nella nostra visione comune il crimine è una scelta appartenente a una persona cattiva che vuole costruire la sua vita rovinando quella di qualcun altro. La reclusione, quindi, è la conseguenza logica, la giusta punizione per chi ha commesso un reato. Chi sbaglia paga, ed è bene che la pena non sia troppo morbida.

Nessuno di noi, esaminando per la prima volta la questione carceraria, considera il sovraffollamento delle prigioni o le condizioni di vita dei detenuti, come qualcosa di intollerabile. La prima cosa da cui si è colpiti, entrando in carcere, è scoprire che, dietro a ogni cattivo, c’è una persona, un uomo come noi, con i suoi valori, la sue emozioni, i suoi difetti. Ogni detenuto ha alle spalle una famiglia il più delle volte perfettamente “normale” proprio come le nostre.

Visitando le prigioni, incontrando i carcerati capiamo che non esiste una linea ben definita per distinguere il bene dal male, ogni reato è frutto di una storia, dietro ogni crimine c’è una persona con alle spalle esperienze, disagi, scelte sbagliate. Siamo tutti potenziali criminali, le nostre azioni, anche le più terribili, sono il risultato di percorsi di vita che non possiamo sempre prevedere. Ognuno di noi è tutto e il contrario di tutto, non esistono buoni e cattivi. Nel mondo ci sono uomini che hanno commesso errori magari giganteschi, che hanno fatto del male ad altri e che, quindi, devono pagare, ma ogni carcerato è una storia a sé, ogni colpa è frutto di cause diverse.

Perché la pena sia efficace il detenuto deve comprendere il suo errore, essere assistito, vivere in un

ambiente che rieduchi alla legalità, poter studiare, lavorare, aprirsi a nuove prospettive. Un carcere

sporco e sovraffollato non permette certo di riflettere sul proprio passato, percepire la grandezza della propria colpa e pentirsene, stimola solamente a sentirsi vittime di una ingiustizia, a dimenticare le azioni che hanno causato la carcerazione.

Quando un criminale entra in carcere “noi buoni” siamo abituati a provare soddisfazione per l’arresto del cattivo, ma non consideriamo mai che, con la situazione attuale, probabilmente ne uscirà più cattivo di prima.

 

 

La parola agli insegnanti

Un progetto per prendere coscienza di come sia facile far prevalere la parte più buia di sé

 

Di Morena Marsilio, Referente del Progetto scuola/carcere presso il

Liceo Scientifico “Galileo Galilei” di Caselle di Selvazzano (PD)

 

Sono la portavoce del Liceo Scientifico “Galileo Galilei” di Selvazzano dove svolgiamo il progetto, destinandolo alle classi Quarte, da tre anni: in questo lasso di tempo tale attività è di certo cresciuta, radicandosi sempre più nella realtà del nostro piccolo Istituto. A riprova di ciò posso sottolineare come, nel maggio di tre anni fa, io abbia partecipato da sola alla Giornata di Studi organizzata qui al Due Palazzi; l’anno scorso vi ha partecipato un’altra collega, accompagnata da 4/5 studenti mentre quest’anno la nostra presenza è decisamente aumentata, essendo presenti oggi due colleghe, oltre a me, e una ventina di ragazzi, che ringrazio. Questo la dice davvero lunga su un progetto che si autoalimenta di linfa interna e genera interesse e partecipazione. Credo, inoltre, che i ragazzi siano molto coinvolti da tale attività non tanto perché provino una morbosa curiosità nei confronti di chi ha “scelto” di fare il criminale, quanto piuttosto dal processo di identificazione che sentono innescarsi  di fronte alle storie di chi, inizialmente “normale”, ha poi deviato, abbattendo l’uno dopo l’altro i paletti della norma condivisa su cui si basa il vivere civile. Inoltre alla fine dello scorso anno scolastico, a conclusione del progetto, gli studenti avevano manifestato per mezzo di un questionario di gradimento il bisogno di essere messi a contatto:

Quest’ultimo dato a mio avviso sottolinea che il progetto mette proprio a fuoco il cuore del problema: molti dei nostri studenti, ascoltando COME i detenuti sono finiti dentro, forse si sentono “a rischio”, comprendono quanto labile sia il confine tra ciò che può apparire una ragazzata e un atto che ti può cambiare la vita per sempre.

È questo l’aspetto più dirompente del progetto: dare ai giovani la possibilità di riconoscere la complessità della natura dell’uomo, di ogni uomo, e prendere coscienza di come sia facile, talvolta addirittura impercettibile, far prevalere la parte più buia di sé. Tuttavia questo progetto mostra anche che è possibile attuare il percorso inverso, come ci racconta Calvino nelle battute conclusive del Visconte dimezzato:

“Così mio zio Medardo tornò uomo intero, né cattivo, né buono, un miscuglio di cattiveria e bontà, cioè apparentemente non dissimile da quello che era prima d’essere dimezzato. Ma aveva l’esperienza dell’una e dell’altra metà rifuse insieme, perciò doveva essere ben saggio. Ebbe vita felice, molti figli e un giusto governo. Anche la nostra vita mutò in meglio. Forse ci s’aspettava che, tornato insieme il visconte, s’aprisse un’epoca di felicità meravigliosa; ma è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo.”

Mi pare che questo passaggio ben possa rappresentare l’idea espressa nel titolo “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi”, e anch il senso del progetto: da una parte indurre i giovani, e noi insieme con loro, a riflettere sulla duplicità e sull’imprevedibilità dell’animo umano, a ragionare su come la più remissiva e apparentemente innocua delle persone, in circostanze deviate dai binari della norma, possa far emergere il lato oscuro di sé. Dall’altra, però, cerchiamo di indicare ciò che è ancor più difficile da accettare con la nostra mentalità di uomini dal comune sentire: che anche colui che si è macchiato del peggiore dei delitti può trovare modo di riscattarsi, può davvero condurre un doloroso cammino interiore di ricerca e di pentimento che lo porterà, come Medardo, ad avere un “viso che una linea rossa attraversava dalla fronte al mento, continuando poi giù per il collo”.

Incontrando in questi anni i detenuti che collaborano al Progetto, ascoltando le loro parole abbiamo scorto la cicatrice indelebile che segna, in loro, l’acquisita consapevolezza del confine che separa il

Bene dal Male. Ecco, pensiamo che toccare con mano quella cicatrice possa essere salutare e salvifico per i nostri ragazzi, solo apparentemente spavaldi e sicuri di sé: spesso, infatti, per concludere con le parole di Calvino “alle volte uno si crede incompleto, ed è soltanto

giovane.”

 

 

Come si crea consapevolezza sulle questioni della legalità?

 

di Antonio Bincoletto,

insegnante del Liceo Marchesi-Fusinato di Padova

 

Vorrei anzitutto riportare alcune osservazioni, raccolte giusto questa mattina, sull’effetto che il percorso carcere ha avuto sui miei studenti, usando le loro parole.

La prima è questa, e credo farà piacere a Gianni Biondillo, che nel suo intervento ha lamentato una diffusa mancanza di criticità indotta anche dall’appiattimento nel modo che i media hanno di fare informazione: “Ho imparato a leggere in maniera diversa le notizie”.

La seconda ci riporta alla percezione del carcere e della pena: “Guardo con occhi diversi al carcere e a chi vi è rinchiuso. Ora penso sia un luogo

di sofferenza, ma anche di possibile riscatto”. La terza è una riflessione su se stessi indotta dal percorso: “Penso che, in certe particolari condizioni, possa capitare a chiunque, quindi sto attento”.

Le ultime due riguardano il percorso e le sue ricadute: “Ho fatto un percorso complesso. È stato giusto concludere anche con la testimonianza delle vittime”; “Il percorso ha cambiato alcune mie idee, ora sono più consapevole”.

Proprio dall’ultima affermazione, riprendo un concetto già esposto in precedenti occasioni: la scuola non ha solo il compito di trasmettere nozioni, ma anche quello di formare cittadini consapevoli.

Come si crea consapevolezza sulle questioni della legalità e delle conseguenze derivanti dalle violazioni?

Una via è quella della conoscenza delle regole di convivenza, e anzitutto di quella regola fondamentale che è la Costituzione. Questa è la via tradizionalmente percorsa dall’educazione civica, insegnamento quanto mai trascurato dalle scuole.

Un’altra via, complementare alla prima ma di effetto sicuramente più incisivo, consiste nel mostrare

come si arriva a violare le regole e il danno che in tal modo si arreca agli altri e a se stessi. Ci si arriva presentando esperienze di vita, e lo si può fare in modi diversi: attraverso racconti indiretti (film, testi scritti, documenti) o attraverso testimonianze di vita vissuta. In quest’ultimo caso, l’impatto diretto fra chi racconta e chi ascolta permette il crearsi di un rapporto umano, di uno scambio e, con questo, di andare oltre le visioni pregiudiziali e stereotipate che inevitabilmente

ciascuno di noi porta con sé. Inoltre un tale approccio consente meglio di farsi un’idea della complessità delle situazioni, d’immedesimarsi nell’altro e, quindi, di prevenire nell’ascoltatore l’insorgere di comportamenti a rischio.

L’obiettivo del tradurre la conoscenza teorica in comportamenti virtuosi è uno dei nuovi tratti

che connotano l’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione, l’ambito transdisciplinare che ora

sostituisce lo spazio della vecchia “educazione civica”.

 

Quali testimonianze servono per creare questa consapevolezza?

 

Anzitutto è importante che ci sia una pluralità delle voci che si ascoltano, in modo da poter confrontare vari punti di vista: quelli, per esempio, di detenuti, ex detenuti, volontari, operatori, giudici, vittime di reati. Ciò permette di andare al di là dello stereotipo del “criminale”, ma anche di quello della “vittima”, del “giudice” o del “direttore”, scoprendo che dietro a ogni individuo, nel bene e nel male, c’è una persona e c’è una storia.

Confrontandoci quest’anno con alcune particolari vittime di reato che con grande generosità si sono messe a nostra disposizione, ci è stato mostrato come si possa reagire in maniera diversa anche ad una grave offesa subita, e come uno specifico percorso possa condurre ad esiti diversi e non scontati. Silvia Giralucci, per esempio, ci ha raccontato come lo scoprire la sofferenza dei parenti dei detenuti abbia cambiato anche la sua percezione della pena e del carcere. Agnese Moro, dal canto suo, ci h descritto il percorso attraverso cui è giunta alla conclusione che il rancore non sia che un modo in cui un altro possiede il tuo animo, e come lei abbia cercato di liberarsi di questo pesante fardello.

Posso dire che esperienze molto incisive sono sia quelle che avvengono durante le visite al carcere,

realtà sconosciuta ai più, sia le testimonianze dei detenuti o ex detenuti, le quali mostrano come si arrivi al reato attraverso percorsi che, quantomeno per alcuni segmenti, possono essere simili a quelli vissuti dagli studenti stessi. Temi come quello dell’abuso di alcol e del consumo di droghe, o delle forme di prevaricazione diffuse fra giovani e giovanissimi (bullismo), o della guida irresponsabile, o della mancanza di rispetto verso gli altri o verso il “bene comune”, o ancora della ricerca del successo facile, della riduzione di ogni cosa a merce, della smania di consumo, sono tutti ben presenti nella rappresentazione del mondo dei nostri ragazzi e spesso ricorrono nei racconti che si ascoltano durante gli incontri coi detenuti.

Le testimonianze dunque innescano negli studenti ragionamenti diversi dal considerare sempre e comunque “buono” chi sta fuori e totalmente “cattivo” chi sta dentro il carcere. Le esperienze narrate fanno andare oltre l’ovvia e giusta condanna verso chi ha sbagliato, fanno riflettere su se stessi. Poi aiutano ad assumere un atteggiamento che non sia unicamente vendicativo (quello più promosso da molti media e gruppi d’opinione in questi anni), e a vedere la giustizia e il sistema punitivo nelle sue diverse funzioni, definite dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Si passa insomma dall’affermare la “legge del taglione”, che sotto sotto è quella che determina le reazioni più immediate e emotive in tutti, al porsi la domanda “a cosa serve la giustizia?”, distinguendo fra ‘reato’ e ‘peccato’ e assumendo l’ottica dei diritti e dei doveri dell’uomo in senso laico e universale.

Con ciò si giunge a quella consapevolezza civica che permette di guardare con occhi più critici e accorti ai fenomeni della devianza e del reato, alla realtà carceraria, a se stessi e alla società intera, nell’ottica della prevenzione e della pena non solo come retribuzione, ma anche come riparazione e come possibile percorso di recupero.

L’acquisizione di questa consapevolezza implica un passaggio fondamentale: superare l’idea, ispiratrice di tutti i fanatismi e gli integralismi passati e presenti, che il male sia qualcosa di esterno e estraneo a sé, e che in quanto tale possa essere estirpato dal mondo. Bisogna riconoscere il male, scoprire anzitutto quello che sta dentro a ciascuno di noi, se lo si vuole davvero sconfiggere e controllare.

Fedor Dostoevskij, che fu maestro in questo, giunse alla conclusione che “ciascuno è responsabile di tutto davanti a tutti”.

 

 

 

Educazione alla cittadinanza, alla responsabilità, alla legalità

Un percorso incessante da fare, attraverso tappe e fasi che impegnano a maturare la ragione, la volontà, l’affettività, la relazione con se stessi e le altre persone

 

di Leopoldo Pincin, insegnante di Religione cattolica  

dell’Istituto d’arte Bruno Munari di Vittorio Veneto

 

Padova, 3 marzo 2011 - Visita di istruzione a Padova, incontro con detenuti presso la Casa di Reclusione di via Due Palazzi. Due ore in tutto, ché tale è il tempo consentito dai regolamenti carcerari, ma vissute intensamente. L’evento è nato dalla collaborazione con Ornella Favero, Direttore responsabile della rivista “Ristretti Orizzonti”. La preparazione in classe è avvenuta attraverso la lettura ragionata e l’approfondimento (durante le ore di Italiano e di Religione cattolica) di alcuni articoli-testimonianza tratti dalla rivista; è seguita la formulazione scritta di una lunga serie di domande da rivolgere in diretta agli interlocutori.

Cosa abbiamo incontrato a Padova? Un edificio enorme, fatto di tanto grigio e lunghi corridoi, alcune pareti dei quali sono ingentilite da pitture realizzate nel corso di laboratori; inferriate su inferriate, posti di guardia, aria rafferma ed umidità. Progettato per 370 detenuti, ne contiene attualmente 800.

Chi abbiamo incontrato? All’esterno, appena scesi dal pullman, un gruppetto di persone in attesa di

essere chiamate per entrare ad incontrare i familiari detenuti. Ci hanno guardato stupite, forse, dal

fatto che tanti giovani si accingessero ad entrare in quel luogo e subito, senza troppa attesa! Al posto di guardia d’ingresso, tre guardie cortesi ci hanno accolto e, espletate le procedure di controllo documenti e rilascio pass d’accesso, ci hanno accompagnato alla sala predisposta per l’incontro: 50 sedie, lungo le pareti sobri scaffali zeppi di libri e riviste, appese in cornici semplici le copertine dei numeri fin qui usciti della rivista. Siamo nel cuore della redazione di “Ristretti Orizzonti”. Un breve reciproco saluto di presentazione, e via alle testimonianze dirette di alcuni tra i quindici uomini, d’età compresa tra i 23 ed i 60 anni. Tutti, Elton, Ulderico, Sandro, Enos, Rachid, Vincenzo, Franco, Filippo, Igor, Altin, con una storia personale che, ad un certo punto, è diventata

storia di azioni delittuose e di detenzione e che ha stravolto anche la vita dei loro familiari: genitori,

mogli, figli, compagne, fidanzate… Tutti desiderosi di portare avanti il cammino di “autoaiuto”

che prevede anche l’incontro con vittime dei delitti di cui si sono resi colpevoli. Troppo breve il tempo per rispondere, con disponibilità, franchezza e senza enfasi, alle tante domande dei ragazzi. Ma sufficiente a noi per capire che è valsa la pena di incontrarci ed ascoltarci con rispetto. I frutti, speriamo buoni, per noi e per loro, non sta a noi supporre o pre-giudicare se e quando matureranno.

 

Piccole considerazioni finali

Vittorio Veneto, 9 giugno 2011 – Liceo Artistico ed Istituto Statale d’Arte “Bruno Munari” – Incontro dei giovani delle quarte e quinte con Ornella, volontaria, Andrea e,Paola, che hanno finito di scontare,la pena, e Maurizio, che è ancora,detenuto.

Il 9 giugno è anche l’ultimo giorno di lezioni! Volutamente scelto per dare significato all’intero percorso formativo scolastico con l’obiettivo di “Educare alla Cittadinanza responsabile, a partire dalla Costituzione”, ma, insieme, di dare un seguito concreto alla richiesta di ragazze/i che il 3 ed il 10 marzo hanno vissuto l’esperienza dell’incontro con i detenuti componenti la redazione di “Ristretti Orizzonti” presso la Casa di reclusione di Padova.

Ecco, la mia riflessione verte soprattutto sui VOLTI di tutte le persone con cui ho avuto l’opportunità di condividere del tempo e degli spazi, dei sentimenti espressi ed altri impliciti ma palpabili.

Ricordo i volti di tanti miei allievi e colleghi delle cinque classi quarte e delle tre quinte quando proposi fossero inserite nel piano annuale delle attività le visite d’istruzione in carcere. Reazioni le più disparate, giustamente… Passando dalla curiosità culturale, alla trepidazione sul “Chi incontreremo? Cos’hanno fatto?”, ad obiezioni od adesioni motivate circa la valenza dell’esperienza; ma nessuno aveva espresso indifferenza. Tutto è iniziato in un clima di dialettica costruttiva e di sollecitudine ad essere non solo insegnanti ma anche educatori ed a credere che è essenziale per noi stessi ed i giovani che ci vengono affidati praticare l’educazione alla legalità, attraverso l’esercizio di responsabilità e di regole costruttive per la dignità umana.

Sono personalmente convinto, inoltre, che l’incontro-confronto diretto con testimoni veritieri faccia

parte di questo patrimonio di umanizzazione costante ed itinerante: costante perché non ha mai termine, itinerante perché è un percorso incessante da fare, attraverso tappe e fasi che impegnano a maturare la ragione, la volontà, l’affettività, la relazione con se stessi e le altre persone. È educante in responsabilità: “sentire” e “vedere” Ornella chiedere, ad inizio incontro, di stipulare un “Patto di onestà nell’ascolto”, libero da chiacchiericci o commenti qualsivoglia e riscontrare che 120 ragazzi e ragazze e i vari docenti presenti lo condividono consapevolmente. È lezione di Cittadinanza attiva “sentire” e “vedere” Paola, Andrea e Maurizio raccontare di sé con toni sinceri, umili, accorati e dimostrarsi effettivamente disponibili a rispondere ad ogni domanda, senza smania di apparire, di recitare una parte, di prestarsi a ruoli preconfezionati stile fictionreality- spot. Lo è anche “sentire” e

“vedere” le lettere aperte di Cristina ed Ambra di 4a E, la lunga lista di 43 domande selezionate con

pazienza tra oltre 100 da Sara B., Sara C., Valentina e Francesca di 5° A e quelle di Nathian, Carlo e chi altri è intervenuto nel dibattito.

I volti dei “miei” ragazzi e ragazze! Alcuni/e hanno già vissuto esperienze molto difficili e travagliate; ad alcuni in casa non è possibile fare due pasti quotidiani decenti, poiché manca il sostentamento necessario, ad altri è possibile scialare. Alcuni/e sarebbero potuti finire in carcere, se solo avessero compiuto un microscopico passo in più verso… Altri si prodigano silenziosamente in scelte di concretizzazione della solidarietà, della giustizia. Ma anch’io mi dico: ”Cosa farei, se, con due figli ancor piccoli, mi trovassi in condizioni simili a quelle in cui si è trovata Paola?”. Già ho vissuto, 10 anni fa, la pena della disoccupazione e della faticosa ed anche umiliante ricerca di un

lavoro. Ed a quanti più sta toccando, ora, nei nostri luoghi, la stessa esperienza! Ed altrove esperienze ancor più gravi ed atroci, che spingono  masse inermi e violentate a scelte violente pur di sopravvivere. Ma qui inizierebbe un’ulteriore e lunga riflessione. Grazie per la vostra testimonianza ed il vostro aiuto in UMANITA’. Ci conto ancora.

 

 

Raccontare con mitezza per dire il mai detto

A questo portano i percorsi di riflessione e di scrittura di cui si è parlato al convegno “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi”, a conferma che la vita è davvero più complessa di quanto non si riesca a rappresentare con le frasi dettate dal senso comune

 

di Adriana Lorenzi, insegna Tecniche di scrittura all’Università di Bergamo,

conduce laboratori di scrittura autobiografica nelle carceri, e non solo

 

Da anni partecipo ai convegni organizzati dentro il carcere Due Palazzi di Padova dalla Redazione di Ristretti Orizzonti e ogni volta varco i cancelli che mi portano in palestra, nel luogo dell’incontro, con infinite aspettative e tanta curiosità, perché ormai so che l’Adriana che entra al mattino non è la stessa che uscirà al pomeriggio a lavori ultimati, portandosi appresso un quaderno zeppo di appunti, fascicoli, riviste e le tante emozioni e i pensieri che gli interventi dei relatori e le testimonianze dei detenuti hanno mosso. Ritrovo gli amici della Redazione esterna e interna, ma anche giornalisti e insegnanti di altre realtà carcerarie con le quali sono entrata in contatto per far circolare idee, esperienze e sentirmi meno sola nel promuovere iniziative capaci di accompagnare i detenuti lungo il percorso della loro detenzione.

Poiché il convegno si svolge alla fine di maggio, mi sembra anche un po’ la conclusione di un anno accademico, delle attività che a Bergamo, nella Casa Circondariale dove lavoro, vengono portate avanti e quindi diventa un’occasione di bilancio, di raffronti. Quest’anno in modo particolare perché a Padova sono andata insieme alle insegnanti della scuola con le quali collaboro - in tre automobili

quattordici persone -, una delle educatrici dell’area tratta mentale e, infine, le due classi del liceo scientifico E. Amaldi accompagnate dalle loro insegnanti che hanno partecipato al progetto Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere.

È al Due Palazzi che si ascoltano voci diverse, quelle che possono ancora definirsi dissenzienti, militanti: voci che non accettano le condizioni di una pena non conforme alla Costituzione Italiana

e i diritti violati dei detenuti. È la rivista Ristretti Orizzonti che promuove percorsi di riflessione e di

scrittura a conferma che la vita è davvero più complessa di quanto non si riesca a rappresentare con le frasi dettate dal senso comune, anche quello dotato della più autentica buona volontà. È accanto a Ornella Favero che avverto la presenza del pensiero che indaga, interroga, discute e offre risposte senza pretendere che siano giuste, definitive. Lei, insieme ai suoi collaboratori, incarna la libertà di un pensiero divergente, esigente e, soprattutto, poco arrendevole.

Ed è così che è stato anche in questo convegno dal titolo I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi dove da subito è stato chiaro che l’intento era quello di narrare una realtà, quella carceraria, attraverso le storie degli uomini e delle donne che la abitano: storie che scottano come, del resto, scotta la vita. Non la vita in generale, piuttosto quella vita in particolare, quella di chi si è giocato in un gesto la vita già trascorsa e quella a venire. Storie che lasciano spesso il reato sullo sfondo per dire piuttosto ciò che quel reato ha travolto, facendo terra bruciata dietro e orizzonte spaccato davanti a sé. Ho imparato ascoltando i detenuti che non c’è affatto bisogno di dire tutto, di sventolare i dettagli di azioni che agganciano la vergogna, o magari l’orrore, mentre diventa cruciale dispiegare il processo dell’assunzione di responsabilità di quelle stesse azioni che non sono “capitate”, ma sono state “compiute”.

L’intento del convegno, da subito esplicitato da Ornella Favero, era quello di proporre contro-storie,

capaci di disattendere le aspettative e le facili interpretazioni e ripensare i luoghi comuni sul carcere

che descrivono la reclusione come una villeggiatura, dove si mangia e si dorme senza alcuna preoccupazione con la dotazione in sovrappiù di televisione, campo di calcio e palestra. I temi in gioco erano quelli del sovraffollamento e della salute così poco garantita e tutelata in carcere. La giornata è stata dedicata alla memoria di Graziano Scialpi che è morto senza che gli venissero prestate le cure necessarie. La presenza dei genitori di Graziano ha aggiunto commozione alla commozione nel ricordo di chi ha scritto per anni sulle pagine di Ristretti Orizzonti, disegnando anche la caricatura del detenuto, Dado, così familiare ai lettori e alle lettrici più affezionati della rivista.

Ho ascoltato tanti interventi: Paola Barretta spiegare con dati alla mano quanta parte abbia l’informazione dei telegiornali nella costruzione della paura dei cittadini nei confronti dei reati di criminalità: solo in Italia si riprendono i casi di omicidio accaduti a distanza ditempo per nuovi aggiornamenti che sanno rinnovare la tragedia e coltivare il senso di insicurezza della gente. Daniela De Robert ha precisato in che modo la cronaca nera sappia distogliere dai problemi sociali, creando un nemico comune, nell’ordine: i clandestini, i Rom (definizione che ormai indica i Rumeni per una semplice variazione di vocale) e i detenuti. E mi ha colpito sentire dalle parole di una giornalista che l’informazione non “dà notizie, ma emozioni; non cerca inquirenti, ma i parenti” delle vittime ed è stata lei a invitare il pubblico lettore a segnalare le espressioni offensive alle redazioni dei giornali, affinché chi li dirige e chi scrive le notizie possa usare con attenzione le parole.

Preziose indicazioni queste, per avviare un pensiero alternativo, mentre si facevano via via sempre

più toccanti le parole dei detenuti che da anni lavorano in redazione e hanno usato il microfono, emozionati e concentrati, per dire quello che hanno vissuto e continuano a vivere in carcere, accompagnati dalla vicinanza di Ornella che vegliava sulla loro commozione, incoraggiandoli a continuare il loro discorso. Penso a Filippo che ha ammesso di non avere mai provato l’esperienza della paternità, eppure gli sembra di viverla adesso quando al Due Palazzi incontra gli studenti ai quali cerca di spiegare il lento scivolamento nella tossicodipendenza; oppure a Dritan che ha confessato di non sapere cosa farebbe se qualcuno facesse del male a sua figlia, ma è grato per l’allenamento al quale si sta dedicando per arrivare a pensare prima di reagire. Ha detto che è un onore parlare con gli studenti. Io continuo a pensare che sia un onore per gli studenti e anche per noi ascoltarli e confrontarci con il loro coraggio di mettere a nudo la parte peggiore di loro stessi, le ombre di una vita che nessuno gradisce nominare, né tantomeno condividere.

È quando non si sa qualcosa che scatta la voglia di rifletterci sopra: è successo anche a Lorenzo Pavolini - autore del libro Accanto alla tigre e relatore al convegno – che ha raccontato del nonno, Alessandro, un eroe oppure un mostro del periodo fascista, assassinato e appeso a testa in giù a Piazzale Loreto insieme a Benito Mussolini e Claretta Petacci. Anche lui è partito dalle domande per capire il nonno e la sua fede fascista sulla quale la memoria familiare ha steso un velo di silenzio che lui ha cercato, invece, di penetrare, forse proprio partendo dal suo “Non so”, dalle sue domande, evitando accuratamente risposte-scappatoie.

È questo che si impara nei convegni organizzati al Due Palazzi d Padova: a evitare luoghi comuni, a rendere complessa una verità, a raccontare con mitezza per dire il mai detto fino a quel momento e rompere le semplificazioni avvilenti per chi parla e per chi ascolta. Quando non si sa cosa dire, diventa quasi pressante avviare una ricerca in racconto che non cerca una risposta semplice, ma abita la domanda e apre a connessioni meditative.

 

L’ascolto delle vittime è una pagina importante di questi convegni

 

C’è una pagina che amo e che da qualche anno si apre a ogni convegno ed è quella nella quale si

ascoltano le vittime come Silvia Giralucci e Marco Alessandrini i cui padri sono stati uccisi dai terroristi, oppure Alfredo Bazoli, la cui madre è stata uccisa dalla bomba scoppiata a Piazza della Loggia a Brescia. Tutti e tre hanno bisogno di recuperare la fiducia nel patto sociale che qualcuno ha rotto privandoli di affetti cari e vogliono svelenire l’odio per andare avanti senza dimenticare quello che è stato, rinnovando quotidianamente il loro impegno in politica, nel giornalismo, nelle loro attività professionali.

È sceso un silenzio concentrato quando ha preso la parola Marina, la mamma di una detenuta, Giulia, che ho conosciuto nel carcere di Bergamo. Parole vibranti e intense per dire la fatica di seguire la figlia, l’unica, di carcere in carcere, affidandosi alla verità di lei e non allo sciacallaggio fatto dai giornali per il reato commesso e ribadire la necessità di pensarla sempre figlia e di tenere accesa la speranza. Marina ha concluso dicendo di sentirsi più fortunata dell’altra mamma che ha perso irrimediabilmente la sua creatura. Le cose per lei e per Giulia possono ancora volgersi al meglio nell’apertura di una seconda possibilità.

Nella pausa del pranzo sono andata a salutare Marina, a complimentarmi con lei per il coraggio della sua testimonianza, perché sono in tanti i genitori che non riescono neppure a nominare il senso di colpa che vivono, perché il figlio ha fatto quello che ha fatto ed è stato marchiato a fuoco dalla detenzione.

Il convegno in realtà, come si legge sul dépliant illustrativo, è stato definito Una Giornata Nazionale di Studi, proprio perché la questione centrale è promuovere meccanismi di riflessione, un risveglio delle menti in linea con la citazione di Primo Levi: “Quante sono le menti umane capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante, impercettibile forza di penetrazione dei luoghi comuni?”.

È Hannah Arendt che ci insegna che: “discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini. Questo apparire, in quanto è distinto dalla mera esistenza corporea, si fonda sull’iniziativa, un’iniziativa da cui nessun essere umano può astenersi senza perdere la sua umanità… una vita senza discorso e senza azione è letteralmente morta per il mondo”.

Senza queste occasioni, sarebbe morta la vita di chi viene chiuso in carcere e rischia di essere dimenticato dal mondo esterno. Invece, grazie alla presa di parola di uomini e donne, detenuti oppure liberi, le loro esistenze ripensate, riattraversate, ridiscusse nell’incontro con altri – detenuti oppure studenti, volontari e operatori – diventano una sorta di bussola capace di orientare il pubblico ascoltatore al di sopra della confusione del momento e di guidarlo, per dirla con Richard Sennett “nel nuotare contro la corrente vorticosa del tempo”.

Il silenzio del pubblico in un contesto di per sé rumoroso per via della cattiva acustica, della partecipazione numerosa di gente di tutte le età, provenienza geografica e professionale è stata per me la riprova della delicatezza del momento, della necessità di restituire in attenzione le infinite energie spese per l’organizzazione di una giornata di studio come questa con il contributo di scrittori come Davide Ferrario, Gianni Biondillo e Gaia Rayneri, docenti universitari come Gianfranco Bettin e Adolfo Ceretti, la Dirigente Generale dell’Amministrazione penitenziaria, Maria Pia Giuffrida.

Quando ho salutato tutti gli amici di Ristretti Orizzonti, li ho ringraziati, perché me ne andavo carica di fiducia per quello che ancora può essere, per quello che sarà in termini di riforme e battaglie per migliorare, per come e per quanto possibile, la realtà carceraria che ciascuno di noi ha imparato ad amare, lavorandoci giorno dopo giorno, assistendo sia a uscite senza ritorno che con ritorno.

Quel venerdì di maggio ho lasciato il Due Palazzi con nuove idee da realizzare, propositi da perseguire per non smettere di far sapere del carcere dal carcere, per trasmettere le esperienze nascoste tra le pieghe delle vite spinte al limite del comprensibile. È più facile, ma anche più bello, non sentirsi soli, ma in compagnia di tanti accesi dalla stessa passione, dalla stessa energia che mira a volere rendere più dignitosa la vita che scorre con lentezza esasperante e in condizioni spesso disumane tra le mura carcerarie.

 

 

Elogio dei comodini

 

di Ornella Favero

 

Uno studente durante un incontro con la redazione, per parlare della necessità di imparare a “pensarci prima”, a fermarsi un attimo a riflettere prima di agire, ha usato una immagine curiosa, attribuendola al regista Dario Argento, che “una volta ha attraversato un periodo che voleva suicidarsi e ha deciso di mettere tutti i comodini davanti al balcone, e quindi non poteva buttarsi, e se avesse voluto farlo avrebbe dovuto spostare tutto ciò che aveva messo davanti”. Quindi quei comodini diventano il simbolo della necessità di non fare atti istintivi e affrettati, ma di “prendersi tempo” per riflettere. Non so se questo aneddoto sia una fantasia di quello studente, so però che la metafora dei comodini è utile per spiegare il nostro faticosissimo lavoro con le scuole. È come se le persone detenute, che spesso raccontando la loro storia testimoniano di quante volte, nella vita, si compiono delle scelte sulle quali non si è stati capaci di fare una minima riflessione, si mettessero

a disposizione per “spostare quei comodini” davanti alle finestre e innescare nei ragazzi l’idea che bisogna allenarsi a pensarci prima, e non è per niente scontato, né facile farlo.

La cosa più spiazzante per i ragazzi, nel confronto con i detenuti, è la perdita delle sicurezze: perché è rassicurante pensare che nella vita si possa sempre scegliere razionalmente, e chi non lo fa sia pienamente consapevole delle conseguenze che deve subire. Accorgersi invece che tanti di quei ragazzi finiti in galera, magari per aver portato con sé un coltellino, o per essere scivolati lentamente dalla piccola trasgressione a una dipendenza devastante, in un momento della loro vita erano stati convinti di potersi fermare in tempo, significa perdere un po’ di tranquillità, un po’ di

eccessiva fiducia nella propria ragionevolezza, un po’ di illusione di poter contare sempre sul proprio equilibrio. Perché nessuno nasce razionale ed equilibrato, nessuno nasce “totalmente buono”, ci vuole un gran lavoro con se stessi, ci vuole la consapevolezza che bisogna allenarsi ogni giorno a diventare persone in grado di imboccare la strada giusta, senza cercare scorciatoie poco sicure.

Ma questo progetto con le scuole è anche un progetto che tocca “la ragione e il sentimento”, e che fa soffrire, perché il confronto che la redazione di Ristretti Orizzonti propone ai ragazzi con la realtà del carcere, ma soprattutto con le testimonianze personali, storie di vite difficili, faticose da ascoltare, è anche un allenamento a riflettere sulla sofferenza e sulla fatica di vivere, un modo per affrontare il momento in cui si devono fare delle scelte imparando a conoscere i rischi.

E non ci dicano che ai ragazzi è meglio far vedere cose belle, portarli a una mostra invece che in galera, preservarli dalla sofferenza che portano con sé le vite di chi è finito in carcere: noi preferiamo pensare, come dice Marco Lodoli, scrittore e insegnante, che non voler soffrire mai, neppure per misurare le nostre forze, sia un motivo di fragilità, e non di “robustezza” di idee e di sentimenti.

 

 

Ci piace allora riproporre il progetto di confronto tra scuole e carcere a partire da questa riflessione

 

di Marco Lodoli

 

“In fondo questo deve essere il pensiero che ha portato quattro studenti liceali di Milano ad allagare la scuola per evitare un compito di greco. Non volevano soffrire. Ecco la verità centrale della nostra civiltà, ciò che prima l’ha resa straordinaria e ora la rende cosi fragile..

(…) Ora questo modello traballa per lo stesso motivo per cui si è imposto. Come ha dichiarato quell’alunna, noi non vogliamo soffrire mai, neppure per un momento, neppure per misurare le nostre forze. Ancora una volta dai ragazzi, avanguardia del tempo, ci arriva il messaggio più nitido, quello che ci costringe a riflettere sul centro della questione. La nostra capacità di sopportare le difficoltà, di raccogliere le energie di fronte a una piccola salita, di pretendere qualcosa di più da noi stessi grazie a uno sforzo anche esiguo, ormai si sta esaurendo. Andiamo avanti a pasticche che sollevano dalla depressione o smorzano l’ansia, beviamo per non sentirci inadeguati, abbassiamo ogni giorno gli obiettivi, ci ritiriamo da ogni confronto, anche da quello con la nostra vita e con i nostri sogni. Tutto va bene cosi come è, e se non va bene ci si può sempre voltare dall’altra parte, distrarsi, stordirsi, evitarsi. Non c’è grappolo che non sia comunque troppo in alto, non c’è uva che non sia acerba. Persino la malinconia, sentimento capace di allargare l’anima per farle accogliere tanta altra vita, viene respinta dal nostro modello imperante”.