Un incontro in redazione con Ugo De Vita, regista, attore e autore

Qualcosa di civile in un Paese che tanto civile non è più

È il teatro di Ugo De Vita, che ha raccontato di mafia, di camorra, di terrorismo, ma non aveva ancora puntato la sua attenzione sul carcere. Lo ha fatto con la rappresentazione “In morte segreta.
Conoscenza di Stefano”, dedicata a Stefano Cucchi

 

Ugo De Vita è regista, autore e attore di un teatro, che lui definisce “teatro civile” e che lo ha portato a pensare che proprio da una storia, di autentica inciviltà, come quella di Stefano Cucchi, si potesse trarre una pagina di questo teatro così attento alle ingiustizie, alle sopraffazioni, alla violazione dei diritti delle persone più deboli. Ne abbiamo parlato con lui in redazione, alla vigilia della prima del suo recital “In morte segreta”, avvenuta proprio nella Casa di reclusione di Padova.

 

Ugo De Vita: Io faccio teatro perché lo faceva mio papà, tutta la vita con Eduardo De Filippo, per cui il teatro è una tradizione di famiglia, io sono cresciuto in teatro a Napoli. Mamma viveva a Roma, per me fare teatro significava stare con papà che vedevo pochissimo. Questa cosa si è rinnovata con mio figlio, perché ho cominciato a fare teatro con Dario Fo che avevo 20 anni, quindi sono 32 anni che faccio questo lavoro, però da un certo momento in avanti ho pensato che piuttosto di recitare Goldoni, Shakespeare, Pirandello, insomma i grandi autori, fosse più bello raccontare la vita di cui sentivo parlare e i drammi, le tragedie della vita vera, perché mi sembra che tante volte superino quelle della fantasia letteraria; che quindi valga la pena di impostare delle istanze, cioè delle domande, più che delle risposte, e quindi raccontarle insieme ai famigliari di tante vittime di questi anni appunto, le storie sul terrorismo, sulla mafia, le storie sulla camorra, sugli omicidi di stato, perché ci sono stati anche questi.

L’ultimo lavoro su Stefano Cucchi è nato appunto così. Nel mio quartiere a Roma è capitato questo fatto per cui al parco dell’acquedotto, a duecento metri da casa mia, un ragazzo di poco più di 30 anni è stato fermato, gli hanno trovato del fumo e due grammi di cocaina, l’hanno portato in carcere, c’è stato un processo per direttissima, e dopo 5 giorni è stato restituito alla famiglia cadavere.

La famiglia è stata avvisata solo in occasione dell’autorizzazione per l’autopsia, sul corpo di Stefano sono stati riscontrati traumi di ogni genere, per cui da lì è nato un caso.

La famiglia sembrava non voler raccontare questa storia se non per voce di Ilaria. Io però sono uno che ha sempre cercato di avere un contatto diretto con le storie che voglio raccontare, quindi ho chiesto di poterla incontrare, l’ho incontrata e da lì è nato un libriccino di versi, ma soprattutto un breve monologo, un racconto appunto della storia di Stefano, e un documentario video girato a casa di Stefano.

Per questo fatto ci sono stati tredici rinvii a giudizio, ma nel mio lavoro io non ho voluto fantasticare su quello che è successo in quei cinque giorni, perché purtroppo ancora la verità non è emersa, le verità di cui possiamo parlare sono solo di questa consegna di un corpo martoriato alla famiglia. Il mio è il racconto della vita di questo ragazzo, il titolo è “In morte segreta”, perché questa morte è avvolta da un segreto, ma poi al centro c’è la conoscenza di Stefano, perché attraverso le parole della mamma e della sorella sono riuscito a conoscere tanti tratti di Stefano e a raccontarli.

Stefano era un ragazzo pieno di fantasia, pieno di vita, era uno sportivo e faceva la boxe, era una persona bella che vale la pena di essere raccontata e poi è particolare il fatto che una parte dello spettacolo viene dalle confidenze che mi ha fatto il nipotino di Stefano, che ha 10 anni e mi ha raccontato lo zio con gli occhi di un bambino, questo è il teatro che mi piace fare.

 

Ornella Favero: Ci puoi raccontare qualche altro esempio di spettacolo che hai fatto? Perché mi pare interessante raccontarlo sul nostro giornale, e ci piacerebbe anche sapere come hai costruito altre storie da cui hai tratto delle rappresentazioni teatrali.

Ugo De Vita: Diciamo che il lavoro del teatro civile per me in partenza è lo stesso, cioè io cerco sempre di incontrare la persona e poi dalla persona che incontro prendere quello che mi può portare. Non mi interessa molto lavorare sulla notizia, i giornali mi interessano ma fino ad un certo punto. Io fino a quando non ho incontrato Ilaria, Rita che è la madre di Stefano, oppure il nipote Valerio o il papà di Stefano, non è che avessi chiara la situazione, la notizia è sempre molto fredda ed uguale,  invece la persona no, la persona ti racconta con uno sguardo, con un dettaglio.

Le storie raccontate sono tante, quando ho fatto Falcone e Borsellino a Palermo mi ricordo che mi ha dato moltissimo Leonardo Guarnotta, che era appunto nel pool di Caponnetto e di Falcone e Borsellino. La prima cosa che mi disse fu: “Io ho poche cose da raccontarti, in realtà sono entrato nel pool perché raccontavo bene le barzellette a Falcone e Borsellino”. Ma quando poi entriamo in confidenza, ecco che queste persone riescono veramente a darmi la loro umanità e la loro totalità.

Mi ricordo quando abbiamo raccontato la storia di Stefano Melone che fu il primo risarcito dallo stato come vittima dell’uranio impoverito. Stefano si trovava dapprima in Africa e poi nei territori di confine dell’ex Jugoslavia, la moglie mi diceva che Stefano si rese conto subito che qualcosa non quadrava. Loro andavano a mani nude a toccare questi resti e da lontano videro una specie di astronauta che era nient’altro che un soldato americano, che aveva una divisa e una protezione che dava a loro l’impressione di un alieno.

Lì probabilmente Stefano si rese conto che i nostri erano stati mandati un po’ come dire allo sbaraglio, d’altronde lui andava a mani nude e dopo ha avuto questo cancro devastante e in due mesi e mezzo praticamente è mancato, aveva 38 anni. Noi facemmo lo spettacolo che ancora non era stata fatta la prima udienza, poi ci fu il primo risarcimento accordato di 500.000 euro alla famiglia e raddoppiato in appello con un milione di euro.

La cosa bella, vedete, è che i rapporti con queste persone restano. Io faccio questo lavoro e per me è una cosa straordinaria portare queste storie in giro, perché gli argomenti che tocco sono argomenti di pubblico interesse. Dovunque vado la storia di Stefano Cucchi la conoscono, e quindi è chiaro che raccontarla è un privilegio e mi consentirà di arrivare a tante persone, però non amo dare un taglio commerciale agli spettacoli che faccio. Questo vuol dire che non li faccio più di due o tre volte perché secondo me sarebbe come vestirmi di un abito che non è il mio, io devo solo raccontare una storia.

Abbiamo anche portato a Bruxelles, assieme a Gianfranco Funari, lo spettacolo sul caso Welby. Welby, forse non tutti lo sanno, è un cittadino italiano che si è trovato ad un certo momento ammalato di Sla, una forma di distrofia molto aggressiva, quindi era ridotto praticamente ad un vegetale, non aveva neanche la possibilità di muovere la testa, poteva muovere solo appena, appena gli occhi e comunicava con dei sensori ch lo collegavano ad un computer, era un tronco che cercava ad un certo momento disperatamente di avere la possibilità di staccare la macchina, e su questa morte come scelta predeterminata è stato montato un grande caso di discussione civile, anche fra credenti e non credenti. Il mio è in realtà uno spettacolo sulla possibilità di decidere della propria vita quando si è ridotti ad uno stato vegetale, di una sorta di autodeterminazione che può essere discutibile, però è comunque un diritto su cui dover riflettere. Tra l’altro lì mi resi conto che in tutto il nord Europa si riteneva addirittura superfluo il carattere dello spettacolo, cioè quello che da noi è un tema che può arrovellarci e dividerci, poi magari a poche ore di aereo diventa una cosa scontata.

 

Bruno Turci: Quando hai portato in scena lo spettacolo su Welby, che taglio gli hai dato, da che parte stavi?

Ugo De Vita: Io lavoro con una organizzazione che è assolutamente laica come l’associazione Nessuno Tocchi Caino, anche se loro sanno perfettamente che io non sono cattolico praticante, però mi considero cristiano, con tutti i dubbi di cui mi posso fare carico. Mi ricordo quando i funerali di Welby sono arrivati alla basilica di Don Bosco, a due passi da dove sto io. Quel giorno per fatalità io andavo a prendere il giornale  e vidi questa scena apocalittica, c’era Pannella che urlava come un pazzo ai piedi della basilica, una folla oceanica sotto e chiaramente il problema era che Welby non doveva andare in chiesa.

E dato che secondo me la chiesa deve essere aperta, vedere una chiesa chiusa mi ha acceso qualche lampadina. Sono andato in libreria, ho comprato il libro “Lasciatemi morire” e a quel punto poi ho cercato Mina Welby, la moglie, e ho parlato subito con lei.

Io ho cercato di raccontare Pier Giorgio, e il rapporto straordinario che ha creato con Mina, che era un rapporto simbiotico, ad un certo momento dentro quella storia io ho spostato proprio l’attenzione, cioè ero molto incuriosito dal rapporto, non di assistenza ad un ammalato, ma proprio di vicinanza di due anime, perché Mina ha sofferto enormemente la perdita di Pier Giorgio. Evidentemente questa presenza di pensiero che stava accanto a lei, le è mancata perché c’era comunque. Alla fine mi accorgo di raccontare quasi sempre quello che per me è il grande motore, cioè racconto sempre l’amore.

Questo è quello che racconto anche di Stefano Cucchi, perché poi ci sono cinque minuti dove io racconto come Stefano insegna a giocare a pallone a Valerio, che se vuoi con la storia di Cucchi, quella che noi dovremmo raccontare, non c’entra niente, però per me ci porta dentro quella persona.

 

Elton Kalica: A proposito della rappresentazione su Stefano Cucchi, è un racconto che riguarda anche l’ultima fase della sua vita, lì in carcere, dove poi è successo che è stato ucciso, oppure è un racconto solo di quello che lui era prima?

Ugo De Vita: Io credo che sia più interessante vedere quello che c’è prima, non voglio che sia un’istantanea, una fotografia, come anche non penso mai che io do la verità vera, io ti do la verità mia, la verità assoluta non c’è, ci sono dei dati di verità oggettiva, poi ognuno di noi li guarda, li sente, li vive, a seconda della sua esperienza. C’è lì qualcosa che è scattato di imponderabile, non fra Stefano e un’altra persona, questo non può essere, fra Stefano e un gruppo di persone, però a me quello che interessava era raccontare Stefano, capire anche come ha vissuto fino a quel momento.

Di Stefano, io racconto tutta la giovinezza, i rapporti con le ragazze, l’amore che era finito, perché era finito, il rapporto meraviglioso che aveva con questo nipotino. Poi so benissimo che quella conclusione è inaudita e io cerco di comunicarti questa cosa, tra l’altro facendomi portatore di un messaggio che secondo me è un messaggio ineludibile, sempre e comunque per una giustizia giusta e per il rispetto della persona umana e della vita umana.

 

Elton Kalica: Io ho fatto questa domanda, perché mi pare di aver capito che il suo punto di vista è sempre quello di cercare di raccontare una storia nella sua interezza. Noi qui proviamo sempre a raccontare storie di carcere, di detenuti, di persone, però con la paura di essere incompleti se raccontiamo solo del carcere senza mettere dentro i percorsi di vita, senza raccontare come uno ci è finito dentro, come uno è arrivato a questo punto. Proprio per evitare di fare un racconto sbagliato, che inchiodi solo la persona al suo rea­to. Quindi avevo immaginato che se dovessi raccontare io la storia di una persona che entra in carcere viva ed esce morta dopo cinque giorni, avrei difficoltà a capire da dove iniziare, quale potrebbe essere la parte interessante da raccontare.

Ugo De Vita: L’unico modo per entrare dentro a quella situazione secondo me era andare sul piccolo, non sulla totalità. Allora tu non avrai il racconto completo, però avrai dei pezzi che a mio giudizio ti restituiscono anche quel finale lì.

Poi se tu mi domandi se penso che è andata diversamente da come te l’ho raccontata, io ti rispondo di no e ti rispondo anche che non lo so come è andata, però a me è capitato, dopo la seconda e la terza prova del monologo, di sentire che stavo dicendo le cose vere su Stefano, di essere vicino ad una verità accettabile, la mia chiaramente, che però sentivo veritiera.

 

Gentian Germani: Io volevo chiedere perché ha deciso di trattare questa storia e perché proprio in questo momento. Noi sappiamo che ci sono state molte altre storie, molti casi simili successi nelle carceri in Italia anche prima, è stata la famiglia che le ha proposto questo caso?

Ugo De Vita: No, di Stefano, io ho saputo, come probabilmente gran parte degli italiani, dal telegiornale, per quanto riguarda quello che tu dici, che ci sono altre storie, questo è il primo appuntamento di una trilogia, stiamo lavorando su altre storie, che comunque riguardano il carcere.

Io ho raccontato di mafia, di camorra, di terrorismo, mi sono interessato di tutte queste istanze civili, ma non avevo ancora puntato la mia attenzione sul carcere. Non vi nascondo che per me è una grande gioia portare qui questo spettacolo, credo che sia anche un fatto importante che una storia così venga raccontata in un penitenziario, è importante che ci siate voi, che ci siamo noi. Cioè è un momento straordinario, se riusciamo a viverlo bene, lo facciamo insieme, con la partecipazione, con la discussione consapevole.

 

Gentian Germani: Io ho fatto questa domanda proprio per questo motivo, perché penso che è molto importante raccontare queste storie e queste realtà, e allora mi chiedevo se ci fosse un ruolo della famiglia, perché molte volte, quando succede con qualche straniero quello che è successo a Stefano Cucchi, non si sa neanche il nome, anche se la storia magari è altrettanto pesante, non si viene a sapere, appunto perché non c’è dietro una famiglia che ha il coraggio di andare davanti alle telecamere, sui giornali.

Ugo De Vita: Io mi ricordo un documentario dove Franco Basaglia, lo psichiatra ispiratore della legge che avrebbe poi chiuso i manicomi, diceva: “Io conosco solo due tipi di malati, quelli che appartengono ad una famiglia ricca e quelli che appartengono ad una famiglia povera”. Non che i Cucchi siano ricchi, ma hanno certamente una intelligenza, una sensibilità e una condizione che hanno consentito che la vicenda di Stefano non cadesse nell’oblio.

Allora sono d’accordo con te, però questo non può in nessun modo condizionarci nell’affrontare questa storia, come un’altra storia dove ci sono dei diritti che vengono lesi.

 

Elton Kalica: No, anzi, credo sia una cosa che dovrebbe stimolare di più l’impegno di artisti e di intellettuali a dare vita a storie simili. Noi consideriamo una fortuna che almeno un caso abbia trovato un interesse così grande, perché qui facciamo un monitoraggio costante sulle morti in carcere, su tutti i tipi di morte, e sappiamo che il numero delle morti in carcere è alto, e ci siamo quindi un po’ sorpresi quando il caso di Stefano è riuscito a “sfondare”, nel senso che di solito i media non hanno grande interesse per queste notizie, mentre questo è stato un caso che in qualche modo ha sensibilizzato molto l’opinione pubblica.

Sandro Calderoni: Sì, la storia di Stefano ha avuto questa cassa di risonanza da una parte proprio perché c’è stata la sorella che l’ha divulgata in un modo totalmente “normale”, per cui la gente comune riusciva ad identificarsi, quindi ha colpito molto il fatto che un ragazzo di una famiglia “regolare” abbia avuto un trattamento del genere, cioè non era l’immigrato clandestino, non era il tossicodipendente…

Ornella Favero: Però secondo me nella storia di Stefano ha avuto un ruolo fondamentale il modo in cui la famiglia lo ha saputo raccontare. Mi viene in mente la definizione “teatro civile”, penso che è una cosa diversa dal teatro di denuncia. Allora se Ilaria Cucchi avesse urlato, e aveva tutto il diritto di farlo, perché quello che è successo è terribile, sarebbe stato tutto diverso, lei invece ha avuto la capacità, appunto molto “civile” la chiamerei, di esprimere i suoi sentimenti, senza forzature, senza toni gridati, e questo ha permesso che tutti si identificassero in una storia di una famiglia come le nostre con un ragazzo che aveva problemi. E finalmente si è anche capito che il ragazzo che ha problemi con la droga non è un feroce criminale.

Sivia Giralucci (volontaria): Mi viene in mente che stamattina un detenuto mi ha detto: “Ma com’è che il sovraffollamento non provoca indignazione, perché fuori non interessa a nessuno?”. E la chiave della vicenda Cucchi è forse questa: di ingiustizie in carcere ce ne sono tantissime, però fuori non provocano indignazione.

La storia di Cucchi è riuscita a dare un aggancio per permettere alle persone di interessarsi e di provare indignazione, di superare la barriera che dice che tu sei un delinquente, quindi di te non mi interessa, perché Ilaria, con il suo bel viso e il suo modo di parlare, è riuscita a dire: “Vedi questa persona? È una persona che potrebbe essere tuo fratello o tuo figlio”. Su questo forse bisognerebbe cercare di ragionare per trovare il modo di parlare di carcere in una maniera diversa. Appunto, per sensibilizzare e presentare le storie del carcere all’interno di un contesto di normalità, perché è una cosa che potrebbe riguardare ciascuna delle persone che sono fuori e non in un altro mondo.

Mi viene in mente anche la testimonianza della sorella di Gentian al convegno “Spezzare la catena del male”, lei ha fatto capire come appunto dietro al “delinquente albanese” ci sia una onesta famiglia di insegnanti che mai avrebbero pensato a quel destino per il figlio. Lei ha detto anche che per i suoi figli adesso Gentian è un esempio, un esempio di come si possa facilmente finire in carcere e un esempio di come, pur avendo fatto del male, poi si possa recuperare e diventare un altro tipo di persona.

Ugo De Vita: Io faccio da anni tea­tro civile, ma è la prima volta che affido ad un famigliare una testimonianza video dentro lo spettacolo, perché Ilaria riesce a far capire che la normalità non è cosi distante da storie come quella di suo fratello, in un certo senso rompe ogni sbarramento per dire che può capitare a tutti. Ma poi qual è la normalità? Forse si tratta spesso di un’apparente normalità, una situazione dove tutto deve sembrare inappuntabile, “vedete, siamo perbene”, ma “perbene” invece è una definizione che deve riguardare la sostanza della vita delle persone, e la sostanza è anche un figlio che ha problemi con la droga e finisce in carcere.

Maurizio Bertani: La mia è più una curiosità: in pratica lei fa teatro-verità, poi le verità possono essere comode o scomode a seconda dei punti di vista, lei poi trova importante portare questo spettacolo all’interno di un carcere, questo lo trovo importante anch’io. Mi piacerebbe sapere da dove è venuta l’idea di portare questo spettacolo all’interno di un carcere, ma anche capire quello che ha convinto l’altra parte, cioè l’istituzione carcere, ad accettare che venga portata una rappresentazione di questo genere all’interno, che può anche essere scomodo per il carcere stesso, vista la situazione in cui è nata tutta la storia di Stefano Cucchi.

Ugo de Vita: Io voglio credere che ci sia anche un giudizio positivo su questo tipo di iniziativa, per me è un’occasione straordinaria per tutti, ed è anche un regalo che si fa in un certo senso all’Amministrazione penitenziaria, dandole l’opportunità di guardare la propria condizione, addirittura ospitando uno spettacolo che, oltre che tea­tro civile, finisce per essere uno spettacolo di denuncia.

In realtà a crearmi più difficoltà sono stati gli enti privati, solitamente quelli che magari sono degli sponsor abituali, mi capita di lavorare con delle banche, fondazioni, e a sorpresa ho trovato delle resistenze, ho sentito che la storia veniva catalogata come una storia di droga, ed è sempre difficile affrontare, e far accettare, storie che trattano anche questo tema.

 

Maurizio Bertani: Allora dobbiamo supporre che c’è un’apertura da parte dell’amministrazione del carcere verso l’esterno, un tentativo di promuovere una maggior trasparenza di ciò che accade al suo interno?

Ugo de Vita: Sinceramente non posso dirti che c’è un’apertura, però la storia è questa: c’è un ragazzo che entra in carcere con le sue gambe, ed esce dopo cinque giorni cadavere, noi la sottolineiamo, diamo il titolo a questo allestimento, “In morte segreta”, la verità è che io debutto nel carcere di Padova, poi lo porto al ministero a Roma e poi a Milano alla Biblioteca Braidense presso l’Accademia di Brera, c’è una situazione in cui io mi muovo dentro a canali anche istituzionali, e però non ho trovato nessun tipo di ostacolo, nonostante in questa storia ci siano alcuni elementi e alcuni aspetti che la rendono veramente una storia ignobile, nel senso che è tutto così convulso, così folle, così breve…

 

 

In morte segreta. Conoscenza di Stefano

Teatro civile: “Perché nessuno muoia più come è morto Stefano cucchi”

 

Teatro civile: in un momento in cui civiltà e senso della legalità nel nostro Paese scarseggiano, un attore, Ugo De Vita, invece di recitare i grandi autori teatrali, racconta le tragedie della vita vera, e lo fa insieme ai famigliari di tante vittime di questi anni. L’ultima storia è quella di Stefano Cucchi, una vita finita a trent’anni pochi giorni dopo l’arresto e l’impatto, per la prima volta, con il carcere. Ed è in carcere a Padova che ha avuto luogo la prima, raccontata dai detenuti con l’emozione di chi le angosce e le paure di Stefano le ha vissute e capite fino in fondo.

Sentirsi coinvolti nelle storie degli altri vivendole come proprie

 

di Maurizio Bertani

Mi è capitato spesso nei miei lunghi anni di detenzione di assistere a rappresentazioni teatrali in carcere e questo mi ha sempre lasciato sensazioni positive, ma l’ultima a cui ho assistito qui a Padova mi ha portato a un coinvolgimento personale così forte, che mi ha fatto sentire la storia raccontata come se fosse la mia.

La vicenda è quella di Stefano Cucchi, un ragazzo di trentun anni deceduto per cause ancora da accertare, tra camera di sicurezza del tribunale, carcere e un reparto di un ospedale riservato ai detenuti dove ha passato i suoi ultimi istanti di vita e dove pare che qualche medico, che avrebbe potuto forse salvarlo, l’abbia invece lasciato morire. Un’esistenza fatta a volte di spensieratezza, altre di problemi legati all’uso di sostanze, agli affetti famigliari forti, ma anche indeboliti dalla droga, tutti sentimenti spenti tra il quindici e il ventidue ottobre del duemilanove, in luoghi che avrebbero dovuto, al di là delle sue colpe, salvaguardarne l’incolumità. Una storia che mai avrebbe dovuto succedere, una storia che ha toccato in me corde relegate nei meandri di ricordi mai totalmente cancellati, che la capacità teatrale di un regista e attore di teatro civile come Ugo De Vita ha saputo far riemergere, provocando un crescendo di emozioni, con il racconto in un breve spazio di tempo di 40 minuti di una intera vita nei suoi mille aspetti, l’incredulità e la rabbia di un ragazzo in lotta per sopravvivere, l’inutile autodifesa in uno scontro impari, raffigurato da un ring dove tu sei solo, ma non hai di fronte il tuo avversario, hai di fronte il mondo intero, quindi la sopraffazione, la resa agli eventi che non puoi più dominare e l’attimo, l’attimo in cui forse neppure ti rendi conto di ciò che realmente sta avvenendo, e porta dentro la fine stessa di un’esistenza.

La sorella di Stefano a conclusione dello spettacolo con fermezza e pacatezza ha chiesto giustizia, per Stefano, per sé, per i genitori, per Valerio, suo figlio, il nipotino di Stefano, giustizia per un’intera società. Non ha colpevolizzato un’intera istituzione come il carcere, ha chiesto solo che vengano colpiti con fermezza i colpevoli e che questo possa essere un monito, perché altre sorelle, madri, padri, nipoti, non debbano più piangere morti assurde.

Credo che una prima teatrale come questa, fatta all’interno di un carcere, trasmetta la sensazione che le carceri italiane possano uscire dalla chiusura in se stesse per diventare trasparenti, come a dire che le omissioni, i sotterfugi e le coperture sono banditi, i responsabili sono avvisati e devono rispondere delle loro azioni.

Tutto questo non restituirà Stefano a una madre e a un padre distrutti dal dolore, non restituirà ad Ilaria un fratello amato, a Valerio uno zio adorato, non restituirà un ragazzo di trent’anni alla società. Ma se questa perdita potrà migliorare un po’ la nostra società, se  potrà dare più trasparenza all’interno delle carceri, forse anche il dolore dei famigliari di Stefano può uscirne un po’ mitigato.

 

 

Gli ultimi giorni della vita di Stefano Cucchi

 

di Sandro Calderoni

 

Gli ultimi giorni della vita di Stefano Cucchi sono al centro della rappresentazione teatrale “In morte segreta”, che si è svolta di recente nell’auditorium del carcere “Due Palazzi”.

Per me è stata la prima volta in assoluto che ho assistito a un evento del genere, in pratica la mia conoscenza del teatro era limitata ad alcune rappresentazioni fatte in carcere a cui partecipavano diverse persone che interpretavano dei ruoli. Quindi quando sono arrivato nell’auditorium e ho visto la scenografia spoglia, composta solo da un leggio e un microfono, mi sono trovato spiazzato, perché faceva saltare tutti i miei schemi mentali riferiti all’idea classica di teatro.

“Teatro civile” viene chiamato questo genere di rappresentazione in cui un attore, attraverso un lungo monologo, racconta dei fatti che hanno particolarmente colpito l’opinione pubblica o che sulle pagine della cronaca hanno lasciato aperti molti interrogativi.

L’argomento trattato era scottante, specialmente se presentato all’interno di un carcere, perché la tragedia che ha segnato la vita di Stefano Cucchi tocca inevitabilmente questa istituzione, per cui la curiosità da parte mia era molto forte, non tanto perché mi aspettavo che venissero rivelate verità nascoste, quanto perché in questa rappresentazione veniva data l’immagine di Stefano come una persona coi suoi difetti e i suoi pregi, l’immagine di un UOMO, della sua vita in famiglia, dei suoi rapporti con la droga, ma quello che più mi ha colpito è stata la ricostruzione dei pensieri che gli sono passati per la testa nel momento del suo arresto e negli attimi finali in cui la sua vita è stata spezzata, e non per cause naturali.

Attraverso la magistrale interpretazione di Ugo De Vita, regista, autore e attore, ho ricevuto emozioni forti, e mi sono ritrovato immerso nel personaggio, rivivendo con lui tante sensazioni comuni, il momento del fermo della polizia in cui il tuo pensiero non è rivolto al reato in sé, ma alle persone a cui ti rendi conto di dare dolore, il fatto che quell’attimo rompe definitivamente quello che eri prima, e tutta la tua vita da quel momento si trasforma agli occhi degli altri, gli unici pensieri sono esclusivamente concentrati su come difenderti, come reagire, il resto è scomparso, totalmente resettato, un termine questo che rende il concetto, perché cancella dalla tua mente qualsiasi immagine e pensiero razionale, lasciandoti solo l’istinto di sopravvivenza.

Queste emozioni mi hanno rapito, mi sono totalmente immedesimato, io ero Stefano e percepivo la sua sofferenza e i suoi pensieri come se fossero stati miei, anzi erano miei.

 

 

Dedicato ai famigliari ed alle persone che sono state più vicine a Stefano

Considerazioni e riflessioni di una persona detenuta,  che la vita di Stefano Cucchi l’ha sentita vicina alla sua

 

di Filippo Filippi

 

Qualche giorno fa, sono stato a teatro. Sì, nell’auditorium della Casa di Reclusione di Padova, ho potuto assistere ad una rappresentazione teatrale, “In morte segreta. Conoscenza di Stefano”. In alcuni brevi istanti mi è sembrato quasi che l’essenza fondamentale, lo spirito inquieto di Stefano fosse riuscita a trovare un “veicolo”,  tramite l’attore Ugo De Vita, per trasmettere ciò che è stata la sua vita. La sua vita con i suoi alti e bassi, le sue molte debolezze ma anche con i suoi tentativi di fortificarsi e rendersi impermeabile a tutte le sensibilità troppo accentuate e ai disagi che affliggevano lui e che affliggono tanti altri giovani. Anche lui forse era disarmato di fronte a quello che la vita gli riservava. Ma comunque è stata proprio la vita intera di una persona, Stefano Cucchi, ad essere messa al centro della rappresentazione.

La rappresentazione comprendeva anche, ma in maniera velata, in punta di piedi e sottovoce, la parte che riguarda le circostanze “misteriose”, di violenza, di omissione di soccorso, che hanno determinato la prematura ed improvvisa scomparsa di questo ragazzo.

A volte ho come l’impressione che le persone normali, i benpensanti o coloro che si considerano cittadini onesti, siano talmente immerse nelle loro laboriose, oneste ed impegnate vite, da non accorgersi quasi di tante cose che intorno a loro accadono e che apparentemente sembrano non riguardarle. Solo che poi quando capitano al proprio figlio, ad un proprio famigliare o conoscente al quale si è legati, allora in un attimo si cerca di recuperare il tempo perduto, la sensibilità, l’attenzione e la comprensione di cui non si è riusciti a dar prova. Quando tuo figlio, che porti sul palmo della mano, esce di casa e non torna più (per un incidente, per un pestaggio, perché finisce in galera o perché bevendo troppo si disinibisce e con l’ausilio dell’energia del branco, oltre a quella fornita dallo smodato uso di alcool o sostanze proibite, trova la “forza” di far cose che mai ti saresti aspettato), allora in un attimo ci si trova sbalzati in una realtà, triste e dura realtà che solo un istante prima non si credeva potesse esistere, o si ignorava che potesse proprio riguardarci direttamente. Ci troviamo coinvolti, catapultati in un mondo fatto di materia oscura. La netta divisione tra male e bene, l’idea che “io mi sento a posto, sono buono e onesto; loro sono i cattivi”, il confine, l’ipotetica linea di demarcazione che ci eravamo creati, anche come difesa, in un attimo svaniscono e tutto ci crolla addosso.

La famiglia di Stefano già da parecchio tempo aveva avuto questo brusco risveglio, ma come non fosse stato sufficiente, ne hanno dovuto sperimentare altri: l’aver ritrovato Stefano, poi perderlo di nuovo, le ricadute rovinose che tanto feriscono tutti, classiche dell’uso di sostanze stupefacenti.

Ed in ultimo… perderlo e basta. La parola “traumatico” non rende assolutamente il concetto.

Ci si risveglia come da un lungo sonno e dopo iniziamo a chiederci cosa avremmo potuto fare per dare a lui una mano, trovare il tempo e l’attenzione per riuscire almeno a capire il profondo malessere che lo attanagliava.

A seguire il monologo di Ugo De Vita, mi sono sentito molto toccato e commosso dall’interpretazione e dalle sequenze di montaggio della rappresentazione teatrale, e poi dai brevi interventi, quello di Ilaria in particolare, al punto che, superando lo spaesamento ed il rimescolamento emotivo, la timidezza, la riservatezza o l’usanza consolidata, qui ancora di più, di farmi gli affari miei, sono andato a stringerle la mano. A tratti mi sembrava di percepire la stessa sofferenza che nel corso degli anni anche i miei famigliari hanno dovuto forzatamente sperimentare, “grazie” a me. Per fortuna certi gesti per me valgono ancora e sempre, più di tante parole: perché ne ho dette troppe di parole nella mia vita, la cosiddetta ”aria fritta”, specie se uno è “fatto” di droga viaggia a velocità supersonica (ma solo dentro di sé), ed il giorno dopo, svanito l’entusiasmo chimico, chi si ricorda più?

 

Il racconto del malessere interiore di Stefano

 

In questi periodi di informazione mediatica che si consuma in fretta e di tempi e spazi ristretti per tutto, spesso si intervistano le vittime di gravi reati “a caldo”, e cosa volete vi rispondano dopo l’improvvisa e violenta scomparsa di un proprio caro? Invece Ilaria e la sua famiglia fin dall’inizio di questa tragedia hanno chiesto pacatamente, ma in modo deciso, che qualcuno rispondesse loro e si assumesse la responsabilità di ciò che era accaduto a Stefano.

Particolarmente accurato, e dal mio punto di vista ricco di esperienza vera, diretto e attendibile, è l’aspetto del recital che riguarda l’iniziale “malessere interiore” di Stefano: mirabile interpretazione di Ugo De Vita, che in pochi minuti è riuscito, anche per un osservatore attento, a descrivere anni di sofferenza interiore adolescenziale, anni di maldestri tentativi di placarla con polverine ”magiche”. E poi i conflitti con se stesso, la sua famiglia, le molte domande che Stefano si rivolgeva e che rimanevano punti interrogativi senza risposta, perché non sempre tutto è logico, razionale e catalogabile. Sembra che ci siano persone nate per arrovellarsi su tutte le cose, complicandole oltremodo per poi gradualmente ritirarsi sempre più dentro se stesse, sfociando spesso in un autistico silenzio, dove l’unica boccata di ossigeno che si riesce a trovare viene poi solo da un agente esterno che sia in grado di placare quel malessere, e quella boccata talvolta ci si illude che sia la droga o l’alcool, ma anche altre cose dalle quali si può sviluppare una ossessiva dipendenza.

La breve rappresentazione “In morte segreta”, se studiata attentamente e con la mente sgombra da pregiudizi, da atteggiamenti giudicanti a priori, potrebbe essere molto d’aiuto, come chiave di lettura di realtà complesse come quella della droga, per tutti gli addetti ai lavori che operano (o tentano almeno di farlo), per evitare che la galera debba per forza entrare a far parte della vita di tante persone sofferenti. Di quelle persone per le quali troppo spesso le galere funzionano come grande immondezzaio o contenitore, dove nascondere tutte le problematiche e le complicazioni sociali, relative alla droga, al forte flusso migratorio, al disagio psichico. Solo che le galere non dovrebbero essere usate per questo, ma così come sono ora, sovraffollate e svuotate di senso, tutto si ingolfa, si accavallano le responsabilità, le competenze, si esasperano i ruoli.

Probabilmente Stefano Cucchi, oltre alla tossicodipendenza, il suo cercare di allontanarsene e le ricadute, è incappato in un meccanismo esasperato e assurdo. Ma cosa ci sarebbe voluto per immobilizzare una persona come Stefano, anche se davvero fosse andato fuori di testa, da parte di persone addestrate ad affrontare situazioni come quelle? E un medico coscienzioso, degno di tale nome, al posto di chiudere gli occhi, quante cose avrebbe potuto fare prima che capitasse l’irreparabile per evitare che tale meccanismo cominciasse ad innescarsi? Qui non è la questione di mettere su un piedistallo Stefano in quanto tossicodipendente, la questione è sollevare i veli e dare trasparenza a fatti che forse sono solo la punta di un iceberg, e che comunque non devono succedere MAI.

Il nome del genere di teatro fatto da Ugo De vita è Teatro Civile, che non è teatro di denuncia, satirico, ironico, dissacrante o qualsivoglia altro, è semplicemente teatro civile che a me viene quasi spontaneo di contrapporre alla parola incivile.

 

 

“In morte segreta - conoscenza di Stefano”

 

Lo spettacolo, della durata di sessantacinque minuti, si compone della proiezione di un video con la sorella di Stefano, Ilaria, e la mamma Rita, seguita da una celebre aria del Mefistofele e una lettura da “Aspettando i barbari” del premio Nobel 2003 J. M. Coetzee, poi alcune liriche e il monologo IL SOGNO, una scrittura musicale fuori da ogni riferimento alla cronaca giudiziaria che ha portato a tredici rinvii a giudizio. La prosa privilegia invece i pensieri, i ricordi, i sogni, le contraddizioni, le emozioni del giovane Cucchi. La parte musicale è affidata alle improvvisazioni di un sax soprano e ad alcune registrazioni dal repertorio della canzone italiana.

 

 

Soltanto la verità può ristabilire la fiducia nelle istituzioni che è andata persa

 

di Walter Sponga

 

Alla rappresentazione teatrale nell’auditorium della Casa di Reclusione di Padova c’erano anche la mamma, il papà e la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria.   

Prima dello spettacolo è stata proiettata un’intervista che Ilaria ha rilasciato, dove spiegava con emozione quello che è successo al fratello, chi era lui prima dell’arresto, quello che ha subito durante la sua breve carcerazione, e poi la sua uccisione, perché credo proprio che sia cosi che si deve definire la sua morte. Mentre parlava sono scesi nella sala un silenzio e una emozione sconvolgenti, ho notato che alcune persone avevano gli occhi lucidi e con fatica riuscivano a trattenere le lacrime cercando in qualche maniera di non farsi vedere.

Erano emozioni veramente forti, e anche io, che nella vita ne ho viste e sentite di tutti i colori, sono rimasto coinvolto emotivamente. Quindi, anche se avrei dovuto fare delle riprese con la telecamera  per il telegiornale che facciamo dal carcere, ho deciso di non filmare quelle persone perché mi sono trovato nella loro stessa situazione, e mi sono allora seduto sulle gradinate appoggiando la telecamera sulle ginocchia perché non avevo il coraggio di “rubare” quei momenti cosi particolari e personali.

Alla fine dell’intervista rilasciata da Ilaria c’è stato un  lungo applauso, e io invece avrei voluto qualche minuto di silenzio, e allora mi sono rifugiato dove nessuno potesse vedermi, perché avevo bisogno di stare un po’ da solo con i miei pensieri.

Subito dopo è iniziata la rappresentazione teatrale su Stefano, e io ho acceso nuovamente la telecamera, pensando che lo spettacolo sarebbe stato sicuramente meno coinvolgente delle parole di Ilaria, ma mi sbagliavo.

L’attore è riuscito a catturare immediatamente l’attenzione del pubblico, coinvolgendolo emotivamente, il silenzio era tale che davvero non si sarebbe sentita una mosca volare, e nuovamente mi sono lasciato coinvolgere. Verso la metà della rappresentazione ho deciso di dare la telecamera a un mio compagno, e ho dovuto lottare con me stesso per reprimere queste emozioni che mi invadevano.

Alla fine è intervenuto il Direttore del carcere, e anche lui ha sostenuto che per la morte di Stefano coloro che hanno sbagliato devono risponderne alla giustizia, e che l’accaduto ha provocato un enorme danno, sfiducia e pregiudizi nei confronti della Polizia Penitenziaria e soltanto la verità può ristabilire la fiducia che è andata persa.

 

Ugo De Vita, autore e attore di prosa, diplomato all’accademia d’arte drammatica S. D’Amico, laurea e specializzazione in psicologia clinica, ha curato in oltre trent’anni di lavoro circa quattrocento allestimenti di prosa in Italia e all’estero. Autore di due film per la Rai e di una serie di telefilm, ha diretto tra gli altri: Mario Scaccia, Riccardo Cucciolla, Anna Miserocchi, Ileana Ghione, Eleonora Brigliadori, Elisabetta Pozzi, Vanessa Gravina, Lello Arena, Michele Placido, Elio Pandolfi, Lino Capolicchio, Piera degli Esposti, Gianfranco Funari, Nando Gazzolo, Luigi De Filippo, Duilio Del Prete. Ha pubblicato saggi e romanzi con Vallecchi, Bulzoni e Passigli editore. È autore di teatro civile, si ricordano gli allestimenti su Livatino, Falcone, Borsellino, Welby, Coco, Casalegno, lo spettacolo per la Moratoria sulla pena di Morte, e poi quello su Stefano Melone, prima vittima dell’uranio impoverito, risarcita dallo Stato.