Posta Celere

 

Dare una mano a chi chiede di essere rimesso alla prova?

Ergastolo: dialogo con una lettrice piuttosto severa

 

Una lettera alla redazione è l’occasione per un confronto sul “fine pena mai”, sul senso e la durata delle pene, sulla voglia che ha, o non ha, la società di riaccogliere chi ha commesso reati

 

di Sabrina

 

Cara Redazione, già da un po’ ho in mente una lettera delle mie, decisamente provocatoria, ma ormai dovreste essere abituati. Il punto di partenza è l’articolo “Anche chi è condannato all’ergastolo può essere recuperato?” che ho trovato sul website di Ristretti.

 

Una premessa sull’introduzione dell’articolo. Cito: Non è facile, oggi, parlare di senso della pena e ragionare su quanto una condanna a “fine pena mai” come l’ergastolo possa essere considerata giusta, se la nostra Costituzione dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Ora, Marino Occhipinti nell’articolo spiega come in realtà attualmente nessuno è in carcere per sempre, in quanto anche con l’ergastolo si ha la possibilità di uscire. Capisco quindi poco i toni “drammatici” iniziali, su questo “fine pena mai” che in realtà proprio mai non mi sembra… Quindi questo “cancellare la speranza dalla vita di una persona” mi sembra esagerato, soprattutto quando Marino cita esempi di ergastolani che hanno avuto accesso ai benefici (e sono quindi “fuori”, almeno temporaneamente) dopo 11-12 anni. O io ho capito male (cosa possibilissima), o mi sembra che la presentazione sia un po’ di parte… Poi è chiaro che ci sono detenuti che non hanno accesso a questi benefici, e per cui l’ergastolo è più vicino al “fine pena mai”, ma da quanto ho capito, se uno non accede i motivi ci sono…

Chiusa la premessa, quello che mi interessa è discutere se chi è condannato alla pena perpetua possa o meno essere recuperato. Ed allargherei il discorso al recupero dei detenuti che si sono macchiati di reati di sangue, perché, come sottolinea Ornella Favero in un articolo sul progetto “Carcere-Scuola”, è lì che spesso si ferma la capacità di “comprendere” della maggioranza della società.

Ho riflettuto parecchio sul problema, e sul fatto che secondo voi (e lo Stato italiano) il detenuto che salda il suo debito con la società dovrebbe avere il diritto di essere riaccolto dalla società stessa. Indipendentemente dal reato commesso. Cosa che invece non si verifica più di tanto: la società fa volentieri a meno dell’omicida che ha scontato la pena, debito pagato o meno. Scandalo? Ingiustizia?

Credo che il problema cruciale sia che gli anni di carcere fanno “pagare” il debito verso lo Stato, inteso come ente “super partes”. Stato che decide magari che un omicidio vada punito con l’ergastolo o con un certo numero di anni di carcere, ma che considera l’individuo “recuperato” dopo un certo periodo di tempo e lo fa uscire. Ma la società è fatta di persone, persone come i familiari delle vittime per cui il debito spesso non sarà mai pagato, persone come me che fanno fatica a quantificare in anni di carcere il prezzo di una vita umana, persone che hanno dubbi su quanto si possa recuperare una persona, e così via.

Un problema legato all’omicidio è che tale reato per definizione implica una disuguaglianza tra offesa e pena: da un lato abbiamo una vittima che viene privata del più sacro dei diritti, quello alla vita, dall’altro abbiamo il detenuto che avrà comunque la possibilità di vivere, in condizioni disagiate (il carcere non è di sicuro una passeggiata), ma con un futuro davanti. Mentre chi muore di futuro non ne ha nessuno. Questo implica che per la società l’ergastolo non è quasi mai una pena sproporzionata, per non parlare dei 20 anni di carcere… del resto, parlando chiaro, io faccio fatica a quantificare il valore di una vita umana in anni di carcere. Quanto è?

 

Il “diritto” al reinserimento

 

Alla società viene chiesto di riaccogliere l’omicida che ha scontato la sua pena. E qui iniziano i problemi. Come dicevo prima, nessun dubbio che il detenuto abbia pagato il suo debito con lo Stato. Ma con la società?

Si può veramente chiedere ai familiari delle vittime di riaccogliere l’ex-detenuto? Mi pare evidente che la scelta sia personale, più che di riaccogliere si può parlare di tolleranza. Non penso che nessuno si aspetti che, visto che lo Stato ha deciso che il “debito” è estinto, a chi ha perso un genitore od un figlio si possa chiedere di dimenticare e ripartire.

Naturalmente la società è anche fatta di persone che non sono state toccate personalmente dal reato commesso, e da cui ci si aspetta il riconoscimento del famoso diritto. Ma in cosa consiste tale diritto esattamente? Mi piacerebbe che la Redazione mi desse una definizione di reinserimento, che mi dicesse chiaramente cosa si intende per “rifarsi” una vita. Tento alcune soluzioni:

  1. Lavoro? Beh, lì sono tempi duri per tutti, ho amiche laureate che fanno i turni in fabbrica perché non c’è lavoro, chiaro che bisogna accontentarsi. Ma in ogni caso spetta allo Stato, più che alla società l’onere di rimettere sul mercato lavoratori che sono stati fermi per molti anni. E di onere si parla, perché ormai chi è fuori dal mercato per 3-4 anni già trova lavoro difficilmente, figurarsi dopo un’assenza più prolungata. Ma credo che nessuno obbietti che un ex-carcerato (od ergastolano in permesso) abbia diritto ad un aiuto nel cercare un lavoro, la certezza del lavoro non c’è per nessuno ormai, ed un lavoro che gratifichi e realizzi è una fortuna riservata a pochi.

  2. Relazioni sociali? Penso che sia questo il punto su cui vi concentrate nei vostri articoli, del resto nessuno sopravvive a lungo “fuori” se si ritrova isolato. Nell’articolo Marino sosteneva come non tutti i condannati all’ergastolo sono casi limite come Izzo. Vero. E che non tutti sono i mostri che la gente si dipinge. Sicuramente vero. Ma non stiamo neanche parlando di boy-scout. Perché comunque l’ergastolo si prende per un omicidio intenzionale (correggetemi se sbaglio), come minimo. E da lì si può solo salire come gravità del reato. Quindi che la società non veda l’ergastolano che esce come il vicino di casa ideale mi sembra normale, ed inevitabile. Stesso discorso per chi ha ucciso, ma ricevuto una condanna inferiore. L’omicidio è un danno purtroppo irreparabile alla società, è normale che la gente abbia paura ed ognuno ha il diritto di scegliere chi vuole frequentare e chi no. Temo che lo Stato non possa garantire niente di più che una tolleranza da parte della società. Riaccogliere è una scelta che ogni singola persona deve prendere da sola e su cui lo Stato non ha alcun potere.

Un’ultima considerazione. Per essere persone che hanno violato i diritti altrui (e non proprio trascurabili, nel caso del diritto alla vita), mi sembra che come detenuti abbiate un’alta aspettativa sul rispetto che gli altri dovrebbero avere per i vostri (diritto a rifarsi una vita, e così via). Una domanda polemica: ma perché dovrei preoccuparmi dei diritti di qualcuno che non si è fatto grossi problemi a calpestare i miei o quelli di altri membri della società? Ma dobbiamo proprio essere tutti dei santi là fuori? Perché riaccettare qualcuno dopo un crimine, specialmente se si tratta di un crimine di sangue, non è una richiesta da poco secondo me!

 

Ma cosa si può recuperare?

 

Anche qui l’argomento è delicato. Penso che uno dei motivi principali del “rifiuto” della società sia legato ad un notevole scetticismo sulle reali possibilità di cambiamento di una persona. Rimanendo in tema, qualcuno che ha commesso reati così gravi da ricevere un ergastolo, o comunque una pena detentiva molto lunga può veramente diventare una persona diversa?

Ci sono gravi rischi connessi al fatto che rimanga lo stesso tipo di persona, e nessuna certezza matematica di un cambiamento. Come si può stabilire che la persona ha effettivamente dato una svolta alla sua vita? L’esempio di Izzo, chiaramente limite, mostra che errori ci possono essere purtroppo. Ed avere un caro prezzo.

Vorrei chiarire che non sto auspicando la fine di ogni beneficio per i detenuti o roba simile, quella è una scelta dello Stato che come cittadina accetto. Un’altra cosa è la mia scelta personale di correre tale rischio frequentando la persona in questione. La grande maggioranza della società preferisce non farlo, ed io non mi sento di condannarla per questo. E voi?

La diffidenza e lo scetticismo della gente sono davvero così incomprensibili?

Proporrei un test. Prima di commettere il reato che vi ha portato in carcere, l’avreste data una seconda chance ad un ergastolano? Avreste invitato a casa vostra, magari per una cena in famiglia, con moglie e figli, o con i vostri genitori, il collega di lavoro che è un ex-carcerato che ha commesso un omicidio? Sinceramente ne dubito. Ma sono pronta ad essere smentita.

 

Reinserimento zero?

 

Diventa difficile rispondere alla domanda dell’articolo, sulla possibilità di un reale recupero di chi deve scontare un ergastolo o una lunga condanna…

Possibile od impossibile? Ovviamente non lo so. Se guardo all’esperienza di Ristretti, mi sembra che qualche possibilità ci sia, anche se ho l’impressione che i detenuti “usciti” con condanne gravi continuino più o meno ad essere connessi alla rivista lavorativamente, e quindi in un circolo “protetto” di persone che hanno un “a priori” in positivo verso i detenuti. Ma in generale credo che il reinserimento dopo un crimine di sangue sia una dura battaglia, dove bisogna armarsi di pazienza…

Non mi sorprende la reazione di cui Marino parla nel suo articolo: gente che ritrae la mano appena scopre che è un ergastolano. Vi immagino curiosi di sapere cosa farei IO in una situazione simile: il “buon prodotto” della società, ormai pronta ad intraprendere il mio lavoro in accademia. Beh, penso che il mio rapporto con la Redazione sia sempre stato onesto, e non voglio dipingermi migliore di quanto sono. Non avrei ritirato la mano perché sono stata educata a rispettare e non ferire le persone, soprattutto in pubblico. E sono sicura che questo sarebbe prevalso su tutto. Ma mi sarei fatta influenzare dal tipo di pena nei futuri contatti con la persona in questione. Del resto davanti ad un omicidio/ergastolo, il forte pregiudizio negativo mi sembra quasi inevitabile. E spetterebbe soltanto all’ex-carcerato/ergastolano l’onere della prova di essere un uomo diverso, la seconda chance automatica secondo me è pura illusione… almeno per la maggioranza della società.

Tuttavia, ritengo anche che non essere capaci di cambiare opinione sia un segno di grande stupidità. Quindi, diciamo che non sbarrerei la porta della mia vita a tripla mandata. E che ogni tanto guarderei fuori dalla finestra per cercare di capire se chi ho di fronte corrisponde all’idea negativa che associo all’ergastolo o se ho dato un giudizio affrettato. Mi rendo conto che non è molto incoraggiante, e spero per voi che la società in media sia migliore di me…

È chiaro che sta solo a voi decidere se persone come me valgono il tempo e la pazienza necessari ad aprire questa porta. Inutile illudersi che siano processi rapidi, per conquistare una fiducia frantumata da un omicidio ci vuole un lungo percorso di riavvicinamento, e non ci sono certezze che la porta si apra… Quindi l’opzione di ripiegare sul ristretto club di persone come Ornella, come tanti volontari, che sono capaci di non farsi influenzare dal passato di una persona è decisamente molto attraente. Unito al fatto che a nessuno piace essere valutato o giudicato. Ma temo che sia il prezzo da pagare per riavvicinarsi ad una grossa parte della società. Se poi ne valga la pena o meno spetta a voi stabilirlo.

I detenuti di Ristretti si confrontano con la nostra lettrice

 

Bisogna dare la possibilità di un futuro dignitoso a chi in una fase della sua vita ha commesso reati

 

di Elton Kalica

 

Cara Sabrina, è difficile per una madre o una moglie vedere l’uomo che ha ucciso suo figlio o suo marito girare liberamente per la città, e non nascondo che troverei complicato avvicinarmi e tentare di spiegare al familiare di una vittima che forse il suo caro in quel momento non sta affatto chiedendo vendetta dall’altro mondo, perché credo, dopo anni di carcere, di avere una sensibilità tale, che non mi permette di esprimere le mie idee se ho l’impressione che aprano una ferita, anche se magari in quel momento sono convinto della correttezza della mia opinione. Ma tu non sei il familiare di una vittima e allora cerco di rispondere alla tua lettera, saltando dentro a piedi uniti nella tua provocazione. Non sono condannato per reati di sangue e per fortuna il mio fine pena mi è noto, ma vestirò i panni di un ergastolano conservando però la mia ragione e la mia umanità (che sto ritrovando, nonostante la galera).

Condivido la tua opinione che scontare la pena non significa affatto aver pagato il proprio debito, perché non c’è nulla che restituisca la vita a una persona. Trovo discutibile invece l’affermazione che la società è fatta di persone come i familiari delle vittime, per cui il debito spesso non sarà mai pagato. Se lo Stato attraverso la sua istituzione della Giustizia punisce un membro della società perché ha ucciso un altro membro, non lo fa in quanto giustiziere, ma lo fa in nome della Società. E quindi, la pena che il condannato sconta, più che un debito che salda con lo Stato, è la punizione che gli è inflitta in nome della Società, è una privazione violenta della libertà che gli infliggono per punirlo e rieducarlo.

Punire una persona che ha ucciso è necessario, ma se per punirla la si uccide è decisamente da barbari. Mi rendo conto che i familiari di quasi tutte le vittime, se potessero, ucciderebbero il carnefice del proprio caro. In quegli Stati americani in cui vige la pena di morte, molto spesso i familiari della vittima vanno ad assistere all’esecuzione del condannato e in questo modo lo Stato mette in atto la vendetta. Ma non mi pare che la società americana sia fatta tutta di persone come i familiari delle vittime, per i quali, come dici tu, il debito spesso non sarà mai pagato, anzi la società americana sempre di più è fatta anche di persone che si riuniscono in associazioni e movimenti per portare avanti battaglie civili contro la pena di morte; diversi Stati non applicano più le esecuzioni capitali e sempre più cittadini non danno più il loro voto allo Schwarzenegger di turno.

Se puoi, sposta per un momento lo sguardo verso l’Italia, e ti accorgi che qui anche tanti familiari delle vittime accettano le leggi e non gridano vendetta, forse perché vogliono mantenere il livello di civiltà a cui faticosamente dopo tante guerre è arrivata l’Italia, forse perché il Vangelo suggerisce di porgere l’altra guancia, chi sa? La realtà è che io ho forti dubbi che la società sia solo quella che descrivi tu.

“La società fa volentieri a meno dell’omicida che ha scontato la pena, debito pagato o meno”, dici nella tua lettera. Nei miei dieci anni di carcere, ho avuto abbastanza tempo da dedicare ai giornali, alla televisione, e alle lamentele dei miei compagni di detenzione. Tutti pensano che ci sia una categoria di persone di cui non soltanto loro farebbero a meno, ma delle quali “tutta la società” farebbe volentieri a meno. Se fermassi la gente per strada per chiedere di chi o che cosa la società farebbe a meno, scopriresti che pochi ti direbbero che farebbero a meno della guerra, o della produzione delle mine antiuomo, o delle industrie inquinanti: tanti purtroppo direbbero che la società farebbe a meno degli zingari, o dei negri, altri se la prenderebbero con gli omosessuali, oppure con gli ebrei, così come ho sentito più volte gente esprimersi quando hanno concesso l’indulto: “Io penso che, una volta rinchiusi, non si debba liberare più nessuno dal carcere, ma far marcire tutti dentro”.

Però la tua affermazione non mi sembra così rappresentativa di tutta la società: Ornella un giorno, parlando con noi detenuti della redazione, si è guardata intorno e poi ci ha detto “… reputo una fortuna che in Italia non ci sia la pena di morte, perché vi guardo e penso che tanti di voi non sarebbero più in vita, e invece io sono contenta che voi siate qui, a parlare e a discutere tutti insieme”. E credo che la società sia anche piena di persone come Ornella che sono contente di vederci vivere e sperare.

Ma davvero per la società neppure l’ergastolo è una pena proporzionata?

“La società è fatta di persone (…) che hanno dubbi su quanto si possa recuperare chi commette reati”. Leggendo queste righe ho provato una sensazione di apprensione, perché so che è così. Mi rendo conto che sono tante le persone che dubitano del recupero dei condannati, e, se poi si tratta di persone che hanno ucciso, al dubbio si unisce la paura che il crimine si possa ripetere ancora. È istintivo avere paura, sentirsi insicuri, ma sono troppe le cose di cui abbiamo paura e spesso dimentichiamo le cose positive che aiutano a vivere meglio noi e chi ci sta vicino.

D’altro canto l’esperienza mi insegna che è anche vero che non tutti quelli che hanno commesso un reato hanno la capacità e la voglia di cambiare: succede per esempio che delle persone hanno dei forti problemi psichici e non sono in grado di controllare le proprie tendenze malvagie. Ma credo che questo sia dovuto a un sistema che non funziona tanto bene e che a volte non riesce a distinguere le persone con gravi problemi psichici e di autocontrollo da quelle che sono in grado e che hanno la voglia di cambiare. Conosco però anche decine di persone che, nonostante abbiano commesso un reato grave, hanno imparato a controllare i propri istinti e adesso che escono ogni mattina per andare a lavorare sono sicuro che non potrebbero far male nemmeno a una mosca.

“Per la società l’ergastolo non è quasi mai una pena proporzionata”, continui nella tua lettera. Ma cosa significa? Che la società preferirebbe condannarli tutti a morte? E tu, che rappresenti così realisticamente la società, vorresti ucciderli tutti? Ma voglio pensare che la tua tesi-soluzione sia che la “società” voglia rinchiuderli a vita. Io però penso che non sia così. Oggi viviamo in un’epoca in cui i media spesso finiscono per modellare i desideri, i bisogni e i pensieri delle persone, impoverendone la cultura, mentre sono sicuro che, se le persone ricevessero un’informazione pulita, e contemporaneamente avessero la curiosità intellettuale di coltivare continuamente la propria cultura, non vorrebbero mai delegare il proprio Stato a uccidere delle altre persone, qualsiasi sia il loro crimine, e non accetterebbero nemmeno che i condannati vengano torturati o trattati in modo inumano.

Eh sì, perché anche chi oggi si proclama persona civile perché ripudia la pena di morte, ma poi batte i pugni sul tavolo perché chi ha un “fine pena mai” rimanga in carcere fino a morire, in pratica chiede che sia tollerata e applicata la tortura. Condividerai almeno che chiudere una persona in una cella per il resto della sua vita, senza alcuna prospettiva di una condizione di vita dignitosa, sia un trattamento inumano. Già il carcere è una non vita, nel senso che in cella non hai più una vita, ti nutri per rimanere in vita e rimani in branda a guardare la televisione venti ore al giorno, in pratica vegeti. L’unica cosa che a un ergastolano dà il coraggio per andare avanti e non impazzire è la speranza che un giorno potrà andare in semilibertà, e cioè uscire alla mattina per andare a lavorare e rientrare alla sera in carcere.

Tu chiedi qual è la definizione di reinserimento, ecco, io credo che reinserimento per un ergastolano sia permettergli di fare almeno quell’attività così importante della nostra esistenza, che è lavorare. Nessuno sogna di fare l’ingegnere aeronautico e non pretendiamo che lo Stato si occupi di trovarci dei posti di lavoro da favola: la maggior parte dei detenuti in semilibertà fa lavori umili, lavori per niente gratificanti, lavori che nessuno vuole fare. Però se io parlassi del bisogno di rifarmi una vita intenderei di riconquistare un po’ di dignità, vale a dire rifarmi una vita essenziale fatta innanzitutto di lavoro e poi anche di persone che mi vogliono bene. Perché ai miei occhi, dignità significa speranza di lavorare e di coltivare gli affetti.

Per terminare voglio ricordarti che se il desiderio delle persone oneste è quello di creare un’umanità migliore, questo dovrebbe valere anche nei confronti di chi ha sbagliato e, incurante dei diritti altrui, ha agito nel peggiore dei modi, togliendo la vita a un altro uomo. Io credo che creare un’umanità migliore significhi non solo lottare perché le differenze, di classe, di cultura, di potere, non condizionino pesantemente la vita di tanti, ma anche investire in progetti che prevedano un futuro dignitoso per chi in una fase della sua vita ha commesso reati, ed essere disposti ad accettarne i costi e a lavorare per evitare i rischi. E allora non si deve rifiutare di trattare con umanità nemmeno gli ergastolani, che sono uomini che hanno perso sì la loro libertà, ma in quanto uomini io credo che debbano vedere riconosciuto il diritto a una vita dignitosa, una vita vera.

La civiltà di una società si misura anche con la sua capacità

di ricondurre su un percorso comune le sue “pecore nere”

 

di Paolo Moresco – Sandro Calderoni

 

Cara Sabrina, rispondiamo alla tua ultima lettera sforzandoci di non lasciarci coinvolgere sul piano emotivo. Cercheremo di controbattere le tue argomentazioni, svolte sul piano di una puntigliosa razionalità, con i soli strumenti della ragione e del buon senso, basandoci sull’esperienza diretta e sulle convinzioni che sono maturate in noi in non pochi anni di galera. E speriamo che ci perdonerai, se le nostre argomentazioni non risulteranno sempre chiare e lucide come le tue, ma devi capire che risponderti comporta per noi un impegno notevole, anche perché ci rendiamo conto perfettamente che il tuo punto di vista riflette in gran parte quello della società attuale.

Partiamo dall’ergastolo. Posto nei termini in cui tu lo esponi, l’argomento non avrebbe in effetti neppure motivo di porsi, dal momento che non c’è dubbio che la gran parte delle persone – di fronte a crimini tanto gravi come quelli che comportano la condanna al “fine pena mai” – è tentata, a caldo, di reclamare la “legge del taglione”, e la sola condanna a vita le sembra addirittura inadeguata per difetto. Del resto noi stessi, non lo nascondiamo, saremmo d’istinto forse portati a invocare non l’ergastolo ma la pena di morte, se a essere vittima di un crimine efferato fosse una persona a noi molto cara. Ma una cosa è la reazione “a caldo”, a ridosso dell’evento e al culmine del devastante stress emotivo che esso comporta, e ben diversa cosa è la valutazione razionale – distaccata nel tempo e maturata a “mente fredda” – del delitto e della conseguente pena.

E allora noi pensiamo che l’ergastolo, certamente più “umano” della pena capitale in quanto preserva (e “imbalsama”) almeno la vita fisica di una persona, è per altri aspetti ancor più disumano, perché poi, nei fatti, priva quella stessa vita dell’unica prospettiva positiva che ancora può rimanerle: la speranza di potersi un giorno – sia pure un giorno remoto – riscattare in vita vera, compiutamente realizzata (anche se, ormai, solo per un pugno d’anni) sia sul piano personale che sociale. Nel caso dell’ergastolo è come se il coltello nella piaga della condanna – non letale, ma a suo modo ugualmente “capitale” – venisse rigirato di giorno in giorno per centomila giorni, fino all’estremo giorno.

È certamente vero, come tu scrivi, che in molti casi oggi come oggi l’orizzonte desolato del “fine pena mai” è attenuato dalla possibilità di avere accesso – dopo parecchi anni scontati in buona condotta – ai benefici di legge (a partire dai permessi premio), ma va detto però che si tratta di misure premiali e non di diritti, e che non tutti i Magistrati di Sorveglianza sono ugualmente propensi a concederle a chi è stato condannato all’ergastolo, anche se ha maturato una profonda, sofferta e manifesta revisione critica del proprio passato criminale. Crediamo perciò che sarebbe più equo e più giusto (qualora proprio non ci si volesse decidere ad abolire il carcere a vita, come hanno fatto da tempo la Germania e altri paesi europei) che chi è stato condannato a una pena tanto pesante potesse aspirare, quantomeno, a una prova di ulteriore “appello” spostata anche molto in là nel tempo, quando cioè avrà scontato un numero elevato di anni di carcerazione (ti paiono sufficienti vent’anni, o venticinque?).

Dovrebbe trattarsi, come la vediamo noi, di una rivalutazione “a posteriori” della pena, mediante la quale stabilire – dopo un’approfondita analisi del percorso trattamentale compiuto dall’ergastolano – se egli è recuperato (e merita quindi di essere “messo alla prova”), o se invece continua – nonostante i molti anni trascorsi in galera – a rappresentare un potenziale pericolo per la società. In quest’ultimo caso, evidentemente, il “fine pena mai” verrebbe confermato, mentre nel primo si offrirebbe al condannato la possibilità di costruirsi un progetto di vita almeno per quel po’ di vita che ancora gli resta (e senza quell’orrendo e castrante macigno del “fine pena mai” sulla testa). Vedi, cara Sabrina, a stare in galera e a conoscerli, gli ergastolani, a viverci insieme per anni, ti rendi conto che molti di loro – probabilmente la maggioranza di loro – si sono giocati la vita per un giorno, per una settimana di follia. Giusto punirli e punirli pesantemente, per i crimini terribili che hanno compiuto, ma è giusto o no riconoscergli, almeno, che la loro vita (e il valore della loro vita) non si riduce tutta quanta a quel giorno, a quella settimana di spietata follia?

Quanto a ciò che affermi in materia di “disuguaglianza fra offesa e pena” nel caso dell’omicidio e della condanna che viene comminata al suo autore, hai perfettamente ragione; ma nel ribadire una cosa in sé ovvia (è infatti evidente a tutti, crediamo, che nulla può risarcire una vita annientata) di fatto evochi indirettamente la “legge del taglione”, perché non vediamo come altrimenti si potrebbe colmare questa “disuguaglianza” se non rispondendo a una morte con un’altra morte. La disuguaglianza che tu segnali c’è, è indubbio, ma il compito che la nostra Costituzione ha affidato alla legge non è di rimarcarla come dato umanamente e socialmente incancellabile ma, semmai, di riscattarla attraverso una espiazione severa ma orientata, comunque, al reinserimento del reo nella società. Ciò significa – in parole semplici – tendere a trasformare il male in bene, nella convinzione che la civiltà di un Paese, di una società, si misura anche con la sua capacità di ricondurre su un percorso comune le sue “pecore nere”, anche quelle della peggior specie.

Ma a proposito di società, c’è un punto in cui tu, secondo noi, incorri in un errore di valutazione. Ci riferiamo al punto della tua lettera in cui metti in antitesi lo Stato (“ente super partes”) e la società (che è fatta invece “di persone, persone come i familiari delle vittime per cui il debito spesso non sarà mai pagato”), arrivando alla conclusione che “pagare il debito verso lo Stato” non vuol dire automaticamente saldare i conti con la società. Ma lo Stato, attraverso i suoi tribunali, ha condannato noi due che ti scriviamo – e tutti gli altri come noi che affollano o hanno affollato le patrie galere – “in nome del popolo italiano” e non certo in nome della Legge intesa in senso algidamente astratto o dello “Stato super partes”. Insomma: è in nome e per conto della società che siamo stati condannati, e non si vede quindi perché quella stessa società – a debito pagato – debba ritenersi ancora irrisarcita. Che poi la società sia “fatta di persone”, e che a queste persone non possa essere impedito di maturare umori e malumori “soggettivi” nei confronti di coloro che hanno un passato criminale, nonostante abbiano scontato la loro pena, questo è certamente vero. Ma ciò non toglie che la società in quanto tale, come insieme organico di tutte le persone che la compongono, a pena espiata abbia il dovere di ritenersi risarcita, e quindi di accogliere e non di respingere, o relegare nell’angolo, chi ha pagato per gli errori che un giorno – magari lontanissimo – ha commesso.

 

La società nel suo insieme non deve essere un rancoroso contenitore di pregiudizi

 

C’è però un altro punto che noi riteniamo poco chiaro: mettere sostanzialmente sullo stesso piano (scrivendo che “la società è fatta di persone, persone come i familiari delle vittime”) coloro che sono stati direttamente colpiti da un gravissimo reato e la generalità degli altri membri della società, che di quel reato sono stati vittime solo indirette e in un certo senso “formali” (se commetto un crimine che personalmente non ti tocca, ti ferisco in quanto membro della comunità che con il mio atto ho offeso, ma non come individuo). Specie nei casi dei reati più gravi, quelli che hanno effetti irreparabili, le vittime e i parenti delle vittime costituiscono una categoria a sé, e hanno tutto il diritto di non sentirsi risarciti comunque, anche nel caso che il responsabile della sciagura che si è abbattuta su di loro stia scontando o abbia scontato la più implacabile delle condanne.

È un diritto drammaticamente loro, ma soltanto loro. Gli altri, tutti gli altri, hanno invece il dovere di sentirsi risarciti una volta che la condanna è stata espiata, perché così come un giorno quella condanna fu comminata nel loro nome, è nel loro nome che essa viene dichiarata estinta una volta che il reo abbia pagato fino in fondo il suo debito con la giustizia (ciò non toglie, ovviamente, che ogni persona abbia il diritto di ritenere troppo blanda una legge o inadeguato un verdetto. Ma finché quella legge è in vigore e quel verdetto non viene sconfessato da un altro verdetto, vanno accettati in tutte le loro implicazioni, anche in quelle che vanno a vantaggio del condannato).

Quanto alla tua “fatica a quantificare in anni di carcere il prezzo di una vita umana”, è una fatica che comprendiamo benissimo; e infatti è la più tremenda delle responsabilità quella che si assume un collegio giudicante nel decidere quale porzione di vita – se non tutta la vita – strappare a una persona che ha commesso un omicidio o un altro gravissimo reato. Non volendo addentrarci nel filosofico e nel giuridico sofisticato (non ne saremmo certo all’altezza) ti suggeriamo soltanto di provare a “quantificare” gli anni di carcere utilizzando, come metro, non la vita “in astratto” o la vita degli altri, ma la tua stessa vita. Se per esempio una condanna a venti, venticinque anni, ti sembra troppo blanda, prova a pensare a quante pagine del libro della tua vita passata, presente e futura dovresti strappare se venissi espropriata di venti o venticinque anni. Gli anni sottratti alla vita di una persona sono tremendamente lunghi, pesanti e irrevocabili, e sentir dire – come troppo spesso si sente dire – che a uno hanno dato “solo” vent’anni e a quell’altro “solo” trenta, è letteralmente insopportabile per chi li “quantifica” sulla propria pelle, quegli anni.

Qualche osservazione, ora, lasciacela fare anche per quanto scrivi in tema di “diritto al reinserimento”. Chiarito – almeno speriamo – che una volta saldati i conti con lo Stato essi devono intendersi saldati anche con la società (altrimenti si finirebbe davvero nel non senso), resta certamente il problema delle comprensibili diffidenze e dei diffusi pregiudizi che l’ex detenuto deve affrontare sul piano pratico quando viene restituito alla comunità. Al riguardo non c’è dubbio che l’“onere della prova” – come lo chiami tu – spetti anzitutto a lui, che deve armarsi di pazienza, di determinazione e di buona volontà per superare quelle diffidenze e quei pregiudizi; ma a nostro avviso non c’è dubbio, anche, che in questo suo sforzo di farsi accettare egli debba essere sostenuto, e non soltanto dai soliti volonterosi volontari, sul groppone dei quali è troppo comodo – e anche un po’ vile – scaricare sempre ogni onere.

La società nel suo insieme – se davvero vuole essere società civile, e non soltanto un rancoroso contenitore di pregiudizi e di mugugni – deve fare la sua parte, favorendo il reinserimento anziché ostacolarlo. Nessuno, sia chiaro, pretende che evangelicamente si sacrifichi in onore del figliol prodigo il vitello grasso, ma che – quanto meno opportunisticamente, se non per più nobili motivi umanitari – ci si renda conto che una persona che torna a far parte della comunità, dopo esserne stata espulsa e aver pagato i propri errori, ha solo due prospettive davanti a sé: o torna a essere in un periodo di tempo ragionevole un cittadino a pieno titolo, e quindi una risorsa per se stesso e per la collettività, o è destinato a tornare a essere un peso e una minaccia, indipendentemente dalla sua buona (o cattiva) volontà di rifarsi una vita.

Il tanto strombazzato spauracchio della recidiva, se ci pensi bene, sta tutto qui. Se “ricascarci” per alcuni è indubbiamente una scelta (non siamo tanto ipocriti da non riconoscere che esistono persone che tornano fuori con l’idea precisa di tornare a delinquere), per molti altri – e noi crediamo la maggioranza – è invece una resa, non imputabile alla loro sola personale debolezza. E allora la domanda è questa: cos’è più conveniente, per la società? Dare una mano a uno che chiede soltanto di essere rimesso alla prova o lasciarlo irrancidire nel suo angolo di disperazione e di ostracismo sociale, fino a quando si persuaderà che tutto sommato è una battaglia persa, quella per rifarsi una vita, e che non gli resta altro da fare che… tornare a “darsi da fare”, nella vecchia maniera?

Cara Sabrina, le tue apprezzabili ma a tratti fin troppo puntigliose argomentazioni sanno di testa (e di una buona testa, che sa analizzare e lucidamente argomentare), ma a nostro avviso sanno un po’ troppo poco di cuore. Perché aleggia sempre e comunque, nel tuo argomentare, la pretesa di capire problemi così complessi, contorti e sfaccettati con i soli ferri chirurgici della ragione: della ragione freddamente analitica del ricercatore, che guarda i fenomeni sociali attraverso la lente del microscopio ma senza correre il rischio di lasciarsi emotivamente coinvolgere e di sporcarsi le mani. C’è, in te, il riflesso di un atteggiamento tipico della società di oggi: la tendenza, cioè, a giudicare gli altri senza mai mettersi davvero in discussione, come se i fenomeni di devianza e di criminalità non fossero quasi sempre – oltre che sciagurate “imprese” personali, che vanno giustamente perseguite e sanzionate – dei sintomi di un malessere sociale che continua imperterrito a sobbollire, e a creare i presupposti di nuove devianze e di nuovi crimini.

Ci congediamo perciò da te con amicizia, ringraziandoti comunque dell’attenzione che presti a noi e alle nostre iniziative, ma anche con l’invito a riflettere su queste poche ma secondo noi esemplari righe di Ennio Flaiano (Autobiografia del Blu di Prussia, Adelphi):

 

Un tale, morto, consegnò al suo angelo custode la propria coscienza. Era intatta, senza il più piccolo rimorso.

“Senza il più piccolo rimorso?” commentò l’angelo che quel giorno era di buonumore. “Che mancanza d’immaginazione”.

 

 

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