Voci da lontano

 

Un carattere porta-guai

Ecco perché ho finito per commettere un reato. Ma quanti sono i ragazzi che finiscono per violare la legge per il “cattivo carattere” o il “desiderio di potere e di ricchezza”?

 

In un questionario sulla legalità e la devianza, rivolto ai ragazzi delle medie inferiori, c’è la domanda “Secondo te, per quali motivi una persona commette dei reati?” e ci sono molte opzioni possibili di risposte, fra le quali “il carattere” e “il desiderio di potere e di ricchezza”. Parlandone in redazione, abbiamo pensato che sarebbe interessante dare a queste “asettiche” risposte un volto e una storia, provare cioè a raccontare ai ragazzi le testimonianze di chi ha sbagliato davvero spinto da un carattere irruente, aggressivo, orgoglioso all’eccesso, oppure motivato dal desiderio di “fare la bella vita”, quella che, date le condizioni di povertà di certi paesi, è per forza associata all’idea di andarsene più in fretta possibile. Sono le storie di Elton ed Elvis.

 

La storia di Elton Kalica

 

A scuola, a Tirana

 

Non ricordo bene se era una pioggia d’ottobre o di febbraio. Ma oltre alle piogge grige e fredde di Tirana che rimangono sempre nella memoria, ricordo che stavo per finire nei guai. Mi tolsi di dosso l’impermeabile color verde oliva che continuava a grondare acqua  mentre Endrit, un compagno di classe, continuava a raccontarmi come era stato picchiato da due ragazzi di fronte alla scuola. Quei due tipi li conoscevo anch’io. Il loro modo di camminare scomposto per i corridoi della scuola, dando spintoni ai più giovani e tirando i capelli alle ragazze, non passava inosservato. Ma nella nostra scuola vi erano diversi ragazzi che si comportavano come loro e io li guardavo come si guardano le automobili dal bordo della strada, stavo attento a non andargli contro quando dovevo attraversare, poi, un momento dopo, la loro esistenza veniva cancellata dalla mia mente. Ma quel giorno non andò così. Il mio amico aveva un occhio nero e mi aveva chiesto di aiutarlo a vendicarsi. Quel giorno non potevo ignorarli.

Certo potevo dirgli che non ero in grado di dargli una mano, che temevo di essere espulso dalla scuola o che avevo paura dai miei genitori. Ma avrei fatto la figura del cacasotto, sarei passato per quel tipo di amico sempre bravo e disponibile, ma che poi, alla prima difficoltà, ti gira le spalle e se ne va. Quindi mi tolsi l’impermeabile che continuava a grondare acqua e gli dissi: “Va bene andiamo!”. 

Mancavano cinque minuti all’inizio della prima ora di lezione, e quindi decidemmo che era abbastanza per mettere in atto la nostra vendetta e ritornare poi in classe. Trovammo subito l’aula dove faceva lezione la classe dei due, e mentre ci avvicinavamo, li vedemmo che, come richiamati da qualche forza sconosciuta a noi favorevole, uscivano in corridoio con uno zaino in mano, lo appoggiavano subito per terra e frugavano all’interno tirando fuori una merendina, mentre un altro ragazzo li raggiungeva in lacrime chiedendo di riavere indietro la sua roba. Approfittammo della distrazione per aggredirli. Endrit attaccò per primo con una raffica veloce di pugni quello più vicino mentre io mi avventai contro l’altro che, sorpreso, non si difese nemmeno ma si buttò per terra e si raccolse in posizione fetale. La vista mi si restrinse e vidi soltanto il corpo raggomitolato che presi a calci. Tutto il resto si scuriva, finché mi accorsi che c’era un altro piede che tirava calci alla stessa schiena che stavo colpendo io. Era il mio amico Endrit. L’altro ragazzo era scappato lasciando il suo amico per terra, a prendersele anche per lui. Una cosa che io non avrei mai fatto.

Tirai per il braccio il mio amico dicendogli di ritornare in classe, ma appena mi girai, sbattei addosso al professore di Fisica, un uomo grande e robusto, che mi bloccò subito il polso. Mi accorsi in quel momento che il corridoio si era riempito di ragazzi curiosi che avevano creato un passaggio stretto dove avanzava il professore di Fisica, trascinandomi dietro per una mano. Mi portò dritto dal preside, che telefonò a mio padre in ufficio per convocarlo urgentemente. Prima il preside e poi mio padre mi chiesero i motivi della nostra aggressione. Spiegai come erano andate le cose, e il preside partì subito con una breve lezione di comportamento civico. Disse che dovevo avere fiducia nelle autorità, e che dovevo rivolgermi sempre a lui e mai farmi giustizia da solo.

Poi mio padre mi ordinò di promettere che non avrei più fatto una cosa simile, ma non me la sentii e mi rifiutai di fare una promessa che non avrei mai mantenuto. Io non ero una femminuccia, e mi consideravo uno in grado di risolvere da solo i propri guai, quindi non potevo promettere che, se uno faceva un torto a me e ai miei amici, io sarei corso dal preside.  Non avrei mai potuto tirarmi indietro perché nessuno mi doveva mai chiamare cacasotto. Quella sera ricevetti a casa una razione abbondante di schiaffi in sostituzione della cena, e il giorno dopo si riunì il consiglio disciplinare che mi sospese per una settimana, con una nota negativa in condotta.

 

In Italia

 

Dopo quattro anni, finii le superiori ed emigrai in Italia. Facevo qualche lavoretto saltuario e mi ero anche trovato la morosa, quando un giorno d’estate – ricordo benissimo il caldo che soffoca Milano d’agosto, e ricordo che stavo per finire nei guai – incontrai Renzo, un mio amico che si lamentava delle ingiustizie che gli aveva arrecato un nostro paesano, un tipo prepotente, che nella sua vita di emigrato si era specializzato nel fregare i suoi connazionali, tra i quali anche il mio amico. Renzo quindi era deciso a dargli una lezione e quello che chiedeva era il mio aiuto. Per un momento sentii la voce di mio padre che mi ordinava di promettere di non farlo mai più, per un attimo pensai di dirgli di no, che avevo paura, oppure che avevo da fare e che non potevo aiutarlo, ma erano parole che non avevo mai pronunciato nella mia vita, erano parole che un uomo non doveva mai pronunciare. Lo guardai negli occhi e gli chiesi: “Renzo dimmi, cosa vuoi fare?”.

Naturalmente non avevamo più quindici anni e io dovevo immaginarmi che non mi stavo mettendo a disposizione per partecipare ad una bravata, punibile con un richiamo disciplinare, ma stavo andando dritto in galera. La vendetta che aveva in mente il mio amico era di un tenore molto più pericoloso, talmente che siamo finiti tutti e due in carcere con l’accusa di sequestro di persona. Negli occhi del maresciallo dei carabinieri che mi interrogava vedevo la stessa espressione arrabbiata del preside della scuola, mischiata con quella minacciosa di mio padre, e per questo tenni la bocca chiusa e mi rifiutai di collaborare. Al processo fummo condannati alla pena di diciassette anni.

 

In carcere

 

Sono passati quattordici anni da quel giorno piovoso di Tirana e dieci anni da quel giorno caldo di Milano, e mi trovo nel carcere di Padova, dove continuo a scontare quella condanna per sequestro di persona. Sono seduto sullo sgabello e sto guardando fuori, attraverso la grata della finestra, due rondini che stanno costruendo un nido enorme sotto la tettoia della palestra. Il loro impegno riflette la grande attenzione che intendono dedicare ai piccoli, per tirarli su sani e forti, per insegnargli a vivere a lungo e lontano dai pericoli. Mi sono fermato a guardare le due rondini mentre stavo pensando al preside della mia scuola superiore e a mio padre. I loro consigli e le loro raccomandazioni mi sono ritornati in mente con la velocità di un lampo subito dopo che ho parlato con Luli, un mio conterraneo che è in carcere perché condannato a dieci anni per spaccio.

Nel nostro reparto di detenzione i casini sono rari, ma immancabili. La vita di solito scorre lenta, pesante e senza scontri, poi all’improvviso qualche piccola banalità accende gli animi di qualcuno che si scatena contro qualcuno altro. Così anche Luli, che non aveva mai fatto problemi fino ad oggi, ha avuto una discussione un po’ aspra giocando a calcetto, e poi è stato picchiato da due persone, che l’aspettavano sotto le scale. E Luli non la manda giù.

Si vuole vendicare anche lui come Endrit e come Renzo, e dato che l’unico altro albanese in reparto sono io, è venuto a chiedermi una mano per aiutarlo a portare a termine il suo piano, per accompagnarlo negli inevitabili guai che seguiranno. Lui è lì che parla pieno di collera, la sua rabbia gesticolata è inarrestabile come un fiume in piena, mentre io continuo a guardare le rondini e mi chiedo se questa volta devo finalmente comportarmi secondo i consigli mai ascoltati di mio padre. Osservo le rondini mentre Luli è in corridoio che mi aspetta.

Mi piaceva la bella vita

 

La storia di Elvis Prifti

 

Ora so che devo imparare ad essere umile e trovarmi un lavoro regolare, perché ho visto che la bella vita da ladro dura poco e ti porta dritto in galera

 

Sono un ragazzo albanese di 21 anni. Sono nato e cresciuto in una città di mare che si chiama Durazzo e che d’estate è sempre affollata di turisti. La mia è una famiglia di operai, ho anche due fratelli più grandi di me, che ormai vivono in Italia. Essendo il più piccolo non mi hanno fatto mancare niente, ma il quartiere dove sono cresciuto è nella zona portuale di Durazzo e, sin dai tempi dell’asilo, poi durante le scuole elementari, medie e superiori ho sempre visto un via vai di emigrati. Vedevo scendere da macchine di lusso persone vestite bene, che poi entravano nei bar e nei ristoranti più costosi. Mentre io vestivo i vestiti che mi passavano i miei fratelli più grandi e alla sera mangiavo sempre la minestra di mia madre. Il mio sogno era diventato quello di emigrare. Andare in Italia e trovare anch’io una bella macchina e tanti soldi.

Rimasi in Albania fino al termine del secondo anno della scuola superiore e poi non ce l’ho fatta più, sono partito per l’Italia. All’epoca avevo 15 anni e dopo 8 mesi sono riuscito a regolarizzarmi  con il permesso di soggiorno. I miei fratelli mi avevano trovato e proposto qualche lavoro in regola, ad esempio fare lo stalliere in una scuderia, oppure il lavapiatti in una trattoria, ma ho rifiutato perché non mi è mai piaciuto lavorare e prendere ordini dagli altri. Ricordo che una volta ho provato a lavorare in una fabbrica di plastica, soltanto che la mia prima giornata di lavoro è durata quattro ore, cioè dalle 8:00 fino alle 12:00. Poi sono andato via e non ho fatto più ritorno.

Così dopo un po’ ho telefonato ai miei nuovi amici e ho deciso di andare a trovarli per qualche giorno. Dunque, piano piano, ho cominciato a fare qualche lavoro. Con loro “si lavorava” bene, si passavano delle belle serate a divertirsi in giro per i locali, avevo sempre tanti soldi in tasca, e soprattutto non prendevo ordini da nessuno. Ma questa fortuna dopo poco tempo mi ha girato le spalle e una sera ho commesso un reato grave. In uno dei locali che frequentavo, ho litigato con degli altri stranieri e sono finito per accoltellare uno di loro a morte. Avevo 17 anni e dato che ero minorenne mi hanno condannato a 9 anni e 4 mesi di carcere. Sono passati 4 anni ormai che sono in carcere, 20 mesi scontati nel carcere minorile, e ho deciso che quando esco devo imparare ad essere umile e trovarmi un lavoro regolare, perché ho visto che la bella vita da ladro dura poco e ti porta dritto in galera.

Il mio miglior amico di galera, il telefono

Tanti detenuti stranieri attraverso le telefonate vedono, o meglio “sentono” crescere i figli, nascere i nipoti, cambiare le loro famiglie

 

di Mohamed Madouri

 

Ricordo ancora la mia prima telefonata da detenuto. È stato solo dopo un anno e sei mesi di tentativi, tra richieste alla matricola, all’educatrice e al Consolato del mio Paese, che mi hanno autorizzato a telefonare. Era un venerdì del mese di ottobre del 1999, una giornata molto importante per me. La mattina mi sono fatto la barba e la doccia, e poi sono rimasto in cella a pensare a cosa dovevo dire alla mia famiglia. Alle due del pomeriggio mi sono presentato davanti al telefono mettendomi addosso un bel completo da festa e tutto profumato (mi mancava solo la cravatta, ma quella in carcere è vietata…).

L’agente che faceva servizio quel giorno al piano dove mi trovavo, nel carcere di Vicenza, era uno juventino come me, aveva la mia stessa età e con lui  parlavo spesso di calcio. Ricordo che si mise a ridere e mi disse: “Madouri, dove vai vestito così da matrimonio?”. “Vado a parlare con mia madre”, risposi io. “Da quanto tempo non parli con i tuoi?”. “Da un anno e mezzo”. “Accidenti!”, era meravigliato pure lui di questa attesa assurda che avevo dovuto sopportare.

Rimasi qualche minuto vicino al telefono ad aspettare, ero agitato e disorientato. Addirittura avevo paura di quell’apparecchio. Suona il telefono, in linea c’è mia madre, le dico solo: “Ciao mamma, sono io Mohamed”. Mia madre è come paralizzata, pure a me è venuto un nodo alla gola. Allontano per qualche attimo il telefono, e davanti al suo ufficio vedo l’agente che m’incoraggia con i gesti. Faccio un respiro profondo, avvicino l’apparecchio all’orecchio e finalmente mi metto a parlare con mia madre,  ci facciamo un sacco di domande, i minuti concessi per le telefonate allora erano solo sei e sono finiti subito.

Tornai in cella con una gioia immensa perché nelle mie orecchie risuonava ancora la voce di mia madre, ma anche con un gran dolore nel petto. Quel giorno capii la gravità della situazione nella quale mi sono cacciato  e il dolore che ho causato alla mia famiglia. Da quel giorno il telefono è diventato il mio miglior amico. Anche se più di una volta mi ha fatto brutte sorprese.

Poi, piano piano mi sono sciolto nel parlare con la mia famiglia, parlo con tutti senza difficoltà. Tranne che con mio padre: ogni venerdì quando suonava il telefono a casa mia c’era sempre mio padre, insieme a mia madre e ai miei fratelli, lui era ogni volta lì vicino. Appena parlavo con mia madre le chiedevo subito di farmi parlare con lui, e come ogni volta io gli dicevo: “Ciao papà” e lui mi rispondeva con un ciao e poi rimetteva il telefono nelle mani di mia madre o di mio fratello, s’emozionava e si metteva a piangere. Lui ora non c’è più.

A distanza di anni a casa mia mi sono nati quattro nipoti, io li ho conosciuti tramite il telefono. All’inizio, quando avevano pochi mesi, li sentivo piangere o gridare mentre io parlavo con mia madre, allora ero sempre più curioso e mi chiedevo: come sono fatti questi bambini? Sarà facile per me un giorno conoscerli e chiacchierare con loro tranquillamente? Mi pongo ancora spesso queste domande, anche perché qualche settimana fa, mentre parlavo con mio fratello, lui ha chiamato suo figlio, il più piccolo dei miei nipoti, e io sentivo che gli diceva: “Vieni a parlare con lo zio”. Ma lui ha risposto: “Quale zio, quello che non viene mai?”.    

Oggi, dopo anni e anni di telefonate, e l’ottimo rapporto di amicizia che ho costruito con il telefono, il giorno della telefonata è sempre un giorno speciale come il giorno della prima telefonata, ma dentro di me è rimasta la paura che il mio miglior amico mi dia un’altra brutta notizia.

In carcere ho coltivato nel mio cuore

un profondo amore per la libertà

 

L’emozione di un permesso premio

 

Gli spazi della Triennale di Milano, che ha dedicato di recente un mare di iniziative al carcere, assumono un significato totalmente nuovo ed emozionante se raccontati con gli occhi di un detenuto in permesso premio. Ci piace quindi tornare a parlare di una grande mostra, quella allestita di recente dalla Triennale con una ricostruzione minuziosa e spietata delle celle anguste e sovraffollate delle galere italiane, per vederla con gli occhi di un detenuto straniero, che vive le ansie e le emozioni di un permesso premio e misura i luoghi con il metro di un uomo, abituato da ben dodici anni a camminare solo nei pochi metri quadri di una vasca di cemento. Perché quelle che sono elegantemente chiamate “ore d’aria” altro non sono che ore nel cemento, gelido d’inverno e arroventato d’estate, ore davvero poco somiglianti all’aria  vera, libera, aperta.

 

Non sono più abituato ai luoghi aperti e liberi

Un permesso alla Triennale di Milano vissuto come una continua scoperta: l’impatto violento con spazi enormi dopo le ristrettezze della galera, il movimento frenetico di una grande città dopo l’immobilismo della detenzione, l’emozione di rivedere una “casa vera” dopo aver vissuto anni in una cella poco “umana”

 

di Altin Demiri

 

Ho deciso oggi di scrivere perché voglio raccontare il mio terzo permesso premio, che non assomiglia per niente ai primi due. Sono stato dodici anni senza mettere piede fuori dal carcere, e il primo permesso che ho fatto è stato caratterizzato da un mio totale disagio nel maneggiare i soldi. Avevo in tasca una banconota da 10 euro e un’altra da 20 e continuavo a tirar fuori e a guardare questi due pezzi di carta colorati per memorizzarne colore, valore, immagini riprodotte.  I soldi in carcere non li vedi mai, vedi soltanto il conto corrente dove ti vengono caricate e scaricate delle somme “virtuali”. Quindi, dato che io sono stato arrestato nel 1994, nei miei ricordi erano rimaste le lire. La situazione più difficile è stata quando sono entrato per la prima volta in un bar per prendere un caffè. Mentre pagavo alla cassa la cassiera mi ha dato il resto in tante monete che io non conoscevo. Non mi sono messo a contare non per fiducia, ma per il semplice motivo che non volevo passare per uno che veniva da un altro pianeta.

Il mio ultimo permesso, quello che voglio raccontare più dettagliatamente, l’ho trascorso insieme a degli operatori volontari, e riconoscere i soldi non era più un problema per me. Io e Graziano, un altro compagno detenuto, siamo usciti dal carcere alle sette del mattino. Fuori dal carcere ci aspettava la responsabile della redazione di Ristretti Orizzonti, Ornella Favero, che era incaricata della nostra “custodia” (accompagnamento, direbbe lei). Siamo saliti in macchina e dopo un po’ siamo entrati in autostrada. Il cuore ha cominciato a battermi a mille. Non so se ero più spaventato oppure più eccitato. L’effetto dell’adrenalina mi ha fatto pensare alla mia cella, al solito corridoio del carcere che mi porta nel piccolo cortile di cemento dove ho camminato con molta calma, avanti e indietro, per dodici anni. Non riuscivo neppure ad ammirare il panorama dalla nostra macchina volante perché la mia vista si fermava sulle auto che ci superavano o sui tanti camion che ci facevano compagnia. Quel permesso si stava rivelando molto emozionante, e poi c’era qualcosa di più, non stavamo a Padova ma continuavamo ad allontanarci sempre più dal carcere.

Quando siamo arrivati a Milano, ho cominciato a vedere, sempre più frastornato, migliaia di persone che si muovevano frenetiche in questa grande città. Noi con un po’ di difficoltà per l’enorme traffico siamo giunti a destinazione. La nostra meta era la Triennale di Milano, una struttura grande, ariosa, a due piani. Era piena di gente ed era bellissima, ma quello spazio enorme mi ha fatto subito venire la nausea. Ho dovuto smettere di alzare la testa, non ero più abituato a spazi così aperti, così liberi.

Il nostro programma era di visitare le mostre, che la Triennale ha dedicato per ben un mese al carcere, ricostruendo alcune celle per coinvolgere di più il pubblico su problemi come il sovraffollamento, e poi di partecipare al convegno dedicato all’informazione e organizzato anche dalla Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere, di cui facciamo parte con il nostro giornale. Siamo andati subito nella sala dove si svolgeva l’incontro, io attaccato agli altri perché da Ornella non mi dovevo allontanare, e per ogni cosa dovevo essere accompagnato sempre da lei. Queste sono disposizioni normali per noi detenuti da rispettare, vengono messe nel programma del nostro permesso premio per “scoraggiare” una evasione.

La questione “evasione” è sempre un punto dolente quando si parla di stranieri, perché a volte qualcuno scappa, e questo ha fatto sì che anch’io aspettassi molto a lungo prima di conquistare la fiducia del giudice e ottenere il primo permesso. Qui in Italia se uno straniero scappa da un permesso, le ripercussioni colpiscono in modo particolare gli altri stranieri per i quali diventa tutto ancora più difficile. Lo stesso meccanismo si crea nei confronti dei detenuti in generale quando un detenuto che beneficia di qualche misura alternativa al carcere commette un reato. Allora tutto si blocca, tutto peggiora, e spesso non si concedono più misure per un po’. Ma nessuno pensa mai alle migliaia di persone che grazie ai permessi e alle misure alternative hanno potuto cambiare, e cercare di costruirsi una vita onesta.

Tornando al convegno, ho incontrato altri compagni detenuti che si trovano in misura alternativa, e che avevano chiesto un permesso per venire lì. Eravamo tutti mischiati tra la gente, e anch’io per un momento mi sono sentito libero, una persona libera. Ma per sentirmi veramente libero avevo bisogno di muovermi da quella sedia. Di fronte a noi si trovava anche Ornella, seduta al tavolo dei relatori per rappresentare il nostro giornale, e io ogni tanto le facevo segno da lontano che andavo in bagno. Lei con la testa mi dava l’OK e io per andare e tornare dal bagno facevo un giro lunghissimo e con dei passi lentissimi, come in una moviola di Biscardi. Ero curioso di esplorare tutto quel posto pieno di gente e di belle mostre, ma sapevo benissimo che Ornella era nervosa, per cui cercavo di non esagerare con le mie pause. Leggevo la sua ansia quando mi vedeva che rientravo in sala e i suoi occhi si illuminavano, tradendo un certo sollievo che la rilassava.

 

Appena metto i piedi fuori dal carcere “evaporo”

 

Anche se io ho dato la mia parola d’onore che la mia intenzione non è quella di evadere, e quindi di scappare per il resto della mia vita, capisco la paura di chi ci accompagna perché so che forse altri avranno dato la loro parola e che poi non l’hanno mantenuta. Ma con questo non voglio dire che mi metto io a giudicare e a condannare chi scappa. Sono ben conscio che la ragione per cui qualche straniero evade da un permesso premio è la totale assenza di prospettive che il sistema carcerario oggi gli riserva. La certezza di essere espulsi a fine pena porta tanti stranieri a fare un elementare ragionamento, che “tanto sto anticipando l’espulsione, scappo e ritorno al mio paese perché ho davanti solo un futuro di galera”. È un ragionamento che si fa spesso senza riflettere sulle conseguenze, e sul fatto che così si rischia solo di rimanere un ricercato per il resto della vita.

Tanti non conoscono le leggi dell’Italia e del proprio Paese e ignorano che con i moderni sistemi elettronici, che sono stati studiati per contrastare il crimine, oggi un ricercato, almeno qui in Europa, ha i giorni contati. Anch’io durante quest’ultimo permesso mi sono trovato in molte occasioni a dover combattere con il mio istinto animale, che è quello di prendere e correre, scappare verso la libertà, ma poi penso: quale libertà, se poi dovrò nascondermi per tutta la vita? Tanti anni fa, quando facevo galera e basta, pensavo: appena metto i piedi fuori “evaporo”. Ma poi ho cominciato a studiare, a frequentare corsi e in fine a lavorare presso la redazione di Ristretti Orizzonti, dove i volontari si siedono intorno a un tavolo con noi e insieme discutiamo, ci confrontiamo, litighiamo. E devo dire che così sono cambiato. Queste discussioni mi hanno spinto a cercare di informarmi, leggendo giornali albanesi e italiani, a conoscere le leggi della vita “regolare,” e ora ho la presunzione di dire che sono veramente cresciuto, e ho capito che esistono altri modelli di vita oltre a quello del crimine, e che si può essere felici, o per lo meno stare in pace con se stessi e con il mondo, facendo una vita da “regolare”.

Tante persone libere non ci pensano, che un giorno potrà capitare anche a loro di commettere un atto di follia ed essere incarcerate e, come me, dopo anni di pena dovranno ricominciare da capo, prima con i permessi, poi qualche lavoretto in regime di semilibertà per continuare con tutte quelle misure che ti accompagnano fino alla riconquista della totale libertà. Io questa volta ho deciso che non voglio più ritrovarmi nelle condizioni in cui sono ora e, se riuscirò a farmi una famiglia, avere dei figli, un lavoro, me li vorrò tenere stretti. Ed è per questi motivi che ho preso la mia decisione di uscire dal carcere senza debiti con la giustizia italiana, voglio essere finalmente libero nel vero senso della parola. Non voglio essere più la preda del braccio della legge, che aspetta di vederti finire nella rete per tendere la sua pesante corda. Non voglio guardarmi per sempre alle spalle, braccato dalla polizia. I tanti anni di galera hanno modellato in me questa consapevolezza: ho coltivato nel mio cuore un profondo amore per la libertà, ed è quest’amore che mi ha accompagnato durante il permesso proteggendomi da ogni tentazione di evasione.

 

Volevo solo esplorare con gli occhi Milano le belle ragazze

 

Quando poi c’è stata la pausa pranzo, siamo usciti in gruppo dalla gigantesca struttura della Triennale e ci siamo incamminati sotto gli alti palazzi per raggiungere il posto dove abbiamo mangiato. Io non pensavo al mangiare, volevo solo camminare ed esplorare con gli occhi Milano e le belle ragazze, le macchine e le persone “normali” che si affrettavano ad andare in tutte le direzioni. Camminando in silenzio riflettevo tra me e me, avevo rabbia con me stesso per tutto ciò che ho perso in questi anni di galera.

Mi sono accorto di non aver perso solo gli affetti, ma tutto ciò che fa parte del desiderio di essere felice di un uomo, cose che sembrano non avere grande importanza, e si rischia così di perderle, senza neanche accorgersene, ogni volta che si decide di infrangere le regole. Ti rendi conto così che il mondo, la società sono andati avanti e che hanno fatto a meno di te. Che rabbia.

Ma nello stesso tempo ero felice di aver cominciato a “rilanciarmi” in questo mondo libero. Però c’è sempre in me una gran paura che mi stringe spesso nel cuore, poiché gli anni passano e io continuo a navigare tra carcere e libertà, anche se mi sentirei maturo per stare fuori e vivere nella legalità come fa la gente comune. Resisto così aggrappato a ogni più piccola speranza di ottenere la libertà totale, magari con un decreto che mi conceda quella Grazia, che ho inutilmente chiesto diverse volte.

Dopo che abbiamo pranzato siamo tornati alla riunione. Io non solo ero curioso di rifarmi gli occhi con i mille colori e forme che in carcere ti mancano, ma ero anche molto attento e concentrato sulla discussione e sulle proposte che riguardavano la voglia che abbiamo tutti noi che stiamo in carcere di informare chi sta fuori in modo più preciso ed efficace sulla realtà della detenzione e sulle battaglie che facciamo per avere diritto a un po’ di futuro. Anche il ritorno a Padova è stato bello per me, una nuova emozione. Niente più paure e ansie. Avvolti nel buio della notte, in mente mi tornavano i ricordi dei miei viaggi, lontani nel tempo.

Una volta tornati a Padova siamo andati a casa della nostra responsabile, Ornella, che ci ha preparato una squisita cena: ho vissuto per anni in una cella squallida sovraffollata, e ritrovarmi in una vera casa, sedermi intorno ad un tavolo vero, è stata un’altra circostanza che mi ha emozionato tantissimo. Ho chiesto il permesso di esplorare la casa, e gentilmente mi è stato concesso. All’inizio parlavo piano a tal punto che gli altri facevano fatica a sentirmi, ma, essendo già sera, il mio istinto mi portava ad abbassare la voce per un’abitudine presa in carcere, dove le celle sono attaccate, in fila, e se alzi la voce puoi disturbare quello che dorme, quello che legge o quell’altro che prega.

Ho cominciato ad aggirarmi per la casa liberamente. Aprivo le porte di ogni stanza da solo, sentivo la mancanza del piacere di stare in una vera casa da ben dodici anni. In questa giornata, anche se alla fine sapevo di dover tornare in carcere a fare la vita da detenuto, ho vissuto emozioni dimenticate e ho riflettuto anche sul ruolo che hanno per noi i volontari. Vedo in loro uno spiraglio di sincerità, un desiderio vero di darmi una mano per il mio futuro. Ho avuto da loro una lezione di coerenza, passione e lealtà che questi volontari hanno, ho capito che credono realmente in quello che fanno, cioè dare opportunità e fiducia al prossimo, senza nessun pregiudizio né senso di superiorità.

E poi voglio aggiungere una cosa: dal momento che si sono fidati di me e mi hanno anche fatto mangiare a casa loro come un loro simile, la mia lealtà verso di loro sarà ancora più sincera. Per molti fuori di qui quello di invitare qualcuno a casa può essere un comportamento scontato, ma per me, come detenuto straniero, è una cosa molto più grande di una semplice cena. Spero che i volontari non si stanchino di fronte alle delusioni che qualche singolo detenuto causa loro, ma continuino nel loro impegno con convinzione, perché regalare delle belle giornate a noi detenuti significa anche farci riflettere e spesso cambiare idea e modo di vedere la vita e il mondo libero.

Ho lasciato la casa di Ornella con rammarico, guardando l’orologio e dannandolo perché le sue lancette erano state così veloci e avevano raggiunto subito il triste momento del ritorno in carcere. Avrei voluto che quella giornata non finisse mai, ma le mie preghiere non hanno potuto convincere il tempo a fermarsi.

 

 

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