Controinformazione

 

La vita di un essere umano vale meno dei beni che può rubare?

Riflessioni sulla legittima difesa e sulla sospensione della pena

per i detenuti tossicodipendenti, a partire dalla rapina di Abano

 

di Stefano Bentivogli

 

È morto un uomo difendendo, armato di una pistola, la gioielleria di sua proprietà. Quattro rapinatori l’avevano presa d’assalto armati di kalashnikov, armi da guerra che hanno una potenza di fuoco tale da essere le preferite da tutti i guerriglieri del pianeta. Il gioielliere aveva già subito un’altra rapina ed era convinto che armandosi si sarebbe potuto difendere. E lo ha fatto, e così anche uno dei rapinatori è morto ed è stato scaricato davanti all’ospedale già privo di vita.

Questo il resoconto di una mattinata d’inferno ad Abano Terme, ricca località turistica del padovano famosa per i bagni termali e meta del turismo salutista di tutta Europa. Ma è anche il resoconto e la verifica di alcune questioni di cui da tempo si discute, e si chiamano “legittima difesa” e “certezza della pena”.

È legittimo che una persona la cui vita è a rischio immediato abbia il diritto di difendersi, anche, nel caso non vi siano altri sistemi, uccidendo chi la sta minacciando. Ma quello che si vuole far passare con la revisione della legge sulla legittima difesa – l’art. 52 del Codice penale – è ben altro: basterà che sia minacciata la proprietà per poter far fuoco ed uccidere. Ma veramente la vita di un criminale, uno della peggior specie, recidivo ed irrecuperabile, vale di meno del bottino di cui si sta impossessando? Certo per gli strilloni della certezza della pena i vantaggi sono molteplici: niente spese per il processo, niente benefici, niente spese per il carcere. Un colpo in fronte e via. Ma siamo veramente a questi livelli? È comprensibile l’esasperazione di tanti commercianti che vivono col terrore di vedersi portar via l’incasso di una giornata di lavoro e anche di più, ma che questi riescano solo ad immaginare l’eliminazione fisica del malvivente non ci credo proprio.

C’è un caso più noto e recente, dove un commerciante si è difeso con le armi e ha provocato la morte di uno dei rapinatori. Ed è andata proprio così: il ragazzo tentava di fuggire dopo che non era riuscito a spaccare la vetrina, il proprietario è uscito e lo ha inseguito e freddato con un colpo alla testa: era disarmato. Possibile che l’esasperazione abbia portato il gioielliere a non essere più in grado di riconoscere le fattezze di un suo simile, la sua umanità spaventata? Starà ai giudici valutare la sussistenza del reato di omicidio volontario, ma ad ogni modo è assurdo che si sia tentata da più parti una giustificazione a priori di un comportamento del genere, che resta comunque la sconfitta del valore della vita, che dovrebbe invece rimanere sopra ogni altra cosa.

A prescindere da fatto che la legge sulla legittima difesa vada o meno cambiata, resta però un bivio che impone di fare delle scelte: spetta allo Stato difendere il cittadino e la sua proprietà o è lecito, senza limiti, arrangiarsi ognuno da sé? Il diritto a togliere la vita, che anche per le forze dell’ordine dovrebbe essere l’ultima ratio, può invece diventare un fatto così privato ed arbitrario?

A queste considerazioni fa eco semplicemente la realtà di tutti i giorni con i frequenti morti tra chi, nell’illusione che basti farsi trovare armati per proteggersi, reagisce alle rapine perdendo drammaticamente la vita, e con le frotte di cinici che esaltano storie di questo genere, ed invece la sempre minor preoccupazione di affrontare il crimine nei luoghi del disagio là dove nasce e prima che diventi azione reale.

Il tentativo invece in corso è quello di rendere sempre più accettata la cultura dell’autodifesa armata che, al di là della demagogia, è l’esaltazione della violenza nelle relazioni umane. La sicurezza sociale non sta più nel rendere il sociale più sicuro, sta nel controllarlo con la forza e con la repressione: non quindi il tentativo di costruire la pace ma quello di fare della guerra una modalità di relazione sociale. Armiamoci tutti e con armi sempre più sofisticate, come fanno negli Stati Uniti e come fanno i nostri criminali locali.

E il resoconto è quello di cui sopra, due uomini morti, tre in fuga che, visto come si stanno mettendo le cose, rischiano di essere abbattuti senza tanti scrupoli. Ma la gioielleria è salva, la proprietà è stata salvaguardata. Forse però si può fare qualcosa prima che succedano fatti di questa gravità, pur sapendo che comunque un certo tasso di criminalità è fisiologico ed in qualche modo bisognerà sempre conviverci.

 

Liberi, ma per curarsi davvero

 

Ormai sono sempre più frequenti rapine e furti compiuti da persone che con i racconti dei rapinatori che ho conosciuto io in carcere non hanno niente a che vedere: quei “vecchi” rapinatori che mi spiegavano che le armi non devono servire mai per sparare, che prima di entrare in azione occorre sapere bene come uscirne, che ci sono delle regole. A vedere quello che succede oggi sembrano leggende, perfino quest’ultima rapina di Abano sembrava organizzata cinque minuti prima, tutto era esasperato e il sapore della cocaina a livelli pesanti sembrava la regia dell’intera operazione.

Si viene a sapere poi che il rapinatore morto era uscito cinque giorni prima del carcere utilizzando la sospensione della pena prevista dall’ art. 90 del Testo Unico sugli stupefacenti (aveva, dicono, problemi di cocaina, quella che “non dà astinenza”, non fa male e fa trendy) che consente a chi ha una pena inferiore a 4 anni e vuole curarsi di essere scarcerato. Questa legge è stata usata ed abusata ormai in tutti i modi, tanto che per un caso come questo, dove il condannato, invece di andare a curarsi, corre a dissotterrare il mitra, ce ne sono svariati altri, di mia personale conoscenza, dove la sospensione non è stata concessa e con motivi a volte discutibili. Personalmente in passato ho usufruito anch’io della sospensione della pena per tossicodipendenti ed ancora non capisco come sia stato possibile per quel ragazzo avere il tempo di andare a fare il colpo. Quando toccò a me uscire dal carcere, nella notifica della scarcerazione c’era scritto chiaro e tondo che avrei dovuto presentarmi direttamente in comunità terapeutica e che il direttore di detta comunità era tenuto a comunicare immediatamente al magistrato di sorveglianza qualsiasi mia eventuale inadempienza, per la quale c’era il rientro immediato in galera.

Non accetto personalmente quello che sostiene il P.M. firmatario della scarcerazione, quando dice che la legge è così e che va applicata senza discutere, perché ci sono casi come il mio dove un minimo di cautele venivano prese, e ce ne sono altri dove la sospensione è stata negata. E insisto nel non accettarlo perché, dopo aver scaricato ogni responsabilità su quanto è successo, il P.M. aggiunge anche che a lui quella legge non piace e che proprio non la condivide.

La sospensione della pena per i tossicodipendenti è per molti detenuti una delle poche possibilità per provare a curarsi e non stare mesi – io ho aspettato otto mesi per una camera di consiglio sull’affidamento in prova, il cui esito è stato tra l’altro un rigetto – a marcire in un ambiente dove ci si ammala, ci si abbrutisce, si muore. Perché si deve per forza arrivare a mettere in discussione l’unico appiglio per la riduzione del danno da carcere per i tossicodipendenti? Non si è proprio in grado invece di costruire delle modalità di scarcerazione che non consentano al detenuto di eludere il trattamento terapeutico? A me sembra un errore parlare di “una legge da rifare”, soprattutto pensando ai tanti ragazzi che per pochi mesi di carcere si sono trovati fagocitati dal pozzo penitenziario o hanno preferito una corda al collo.

L’istituto della sospensione della pena è serio ed efficace però solo a patto che venga certificato realmente lo stato di tossicodipendenza e che avvenga una presa in carico seria della comunità accogliente, perché per molti di noi, non tutti, una volta fuori dell’idea di curarsi resta poco ed è lì che il patto va stretto più chiaramente, piuttosto che distruggere una legge che ha un senso comunque, soprattutto per quelli che hanno veramente al centro della loro carriera criminale solo ed esclusivamente problemi di dipendenza.

Spesso invece dietro “programma terapeutico” e “dichiarazione di idoneità” in realtà non c’è nemmeno un barlume di conoscenza della persona condannata, ed ognuno da questa situazione si chiama salvo perché gli organici, il sovraffollamento, i finanziamenti sono tali da giustificare qualsiasi leggerezza. Il risultato è che episodi di questo genere, già gravi per la perdita di due vite umane, vengono subito usati e strumentalizzati. Purtroppo sono in pochi che, invece di chiamarsi fuori, urlano chiaramente che il sistema delle pene è ormai una bolgia che rischia di penalizzare sempre i più deboli e magari quelli che hanno seriamente intenzione di uscire dall’illegalità.

 

Se una nuova legge sosterrà che esiste un uomo la cui vita può valere meno delle proprietà che può sottrarti, saremo di fronte ad un nuovo genere di legge: altro che il Far West

 

La mia impressione è che tutti devono fare lo sforzo di guardare avanti, e che i cittadini non si devono illudere di poter competere con la criminalità a livello militare perché è una follia, fanno già abbastanza fatica la Polizia ed i Carabinieri che un po’ di più se ne intendono. Che, se una nuova legge sulla legittima difesa sosterrà che esiste un uomo la cui vita può valere meno delle proprietà che può sottrarti, saremo di fronte ad un nuovo genere di legge: altro che il far west, si rischia di tornare a molto prima, all’equiparazione delle persone con il loro valore monetario, e forse, in certi casi alcune vite si scopriranno non sufficienti a retribuire la proprietà sottratta, occorrerà rifarsi anche sui familiari e parenti.

Infine a me il Testo Unico sugli stupefacenti non ha mai convinto, è proibizionista e tutto concentrato a farla pagare, in un modo o nell’altro, ai consumatori per comportamenti, discutibili o meno, ma che niente hanno a che vedere con i reati. Purtroppo ci dobbiamo tenere questo ed anzi difenderlo dalle dichiarazioni di certi magistrati e dal disegno di legge Fini-Mantovano.

Se non vogliamo che facciano piazza pulita di tutto, perché sono capaci di farlo, occorre chiedere che di qui in avanti le Procure verifichino bene i requisiti e le modalità con cui si concede una scarcerazione di questo genere, perché per uno che “la fa franca” e torna a sparare, mille restano blindati e magari con la voglia vera di curarsi. E poi per i Tribunali di sorveglianza occorrono linee chiare di applicazione delle leggi, ma soprattutto tempi celeri perché altrimenti per pene di tre/quattro anni, una volta recuperata la documentazione di rito, il certificato di tossicodipendenza, l’idoneità del Ser.T. al programma terapeutico, il programma della comunità con la disponibilità all’accoglienza, una disponibilità all’assunzione lavorativa, la redazione dell’istanza, e soprattutto la sintesi di osservazione della personalità, in tanti rischiano di arrivare a fine pena avendo attivato tutto l’attivabile per nulla, in quanto il condannato è libero e, spesso, senza cura.

Sono anni che si sente parlare di crisi della giustizia in Italia, e dopo tutti questi anni siamo oggi ad “acclamare” una riforma dell’ordinamento giudiziario che niente ha a che vedere coi problemi della gente comune, detenuta e non, con la sicurezza, con la lunghezza dei processi, con la certezza della pena per tutti, eppure viene sbandierata come una grande vittoria, non si sa più su di chi e per cosa.

 

 

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