Parliamone

 

"Trattare" per reinserire qualcuno riesce ancora a farlo?

 

Il trattamento rieducativo è individuale ed è teso al reinserimento sociale, dunque "trattare" una persona detenuta dovrebbe voler dire seguirla in un percorso graduale da dentro a fuori, carcere-misure alternative-libertà. Eppure è difficile credere al trattamento, in un paese in cui ci sono 56.000 detenuti e poco più di 500 educatori (ma speriamo che i recenti concorsi portino forze nuove all’interno delle carceri). Ed è difficile anche fare una discussione seria sul trattamento, perché una discussione seria dovrebbe partire da dati concreti, che sono però difficili da reperire: bisognerebbe sapere cioè se la recidiva riguarda di più le persone che se ne sono state tutto il tempo del carcere "in branda", senza essere coinvolte in attività trattamentali di qualche tipo, o se invece non c’è differenza tra i non "trattati" e le persone che hanno seguito un percorso graduale di reinserimento, prima dentro e poi con l’accesso ai benefici.

Abbiamo provato a parlarne in redazione.

 

"Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti". (Articolo 1 dell’ordinamento penitenziario)

 

Paolo: Il problema è anche capire l’utilità reale delle attività formative e "trattamentali": il mio compagno di cella ha frequentato un corso di… e io scherzando gli ho chiesto: ma cosa te ne fai? E lui mi risponde che quando "andrà in una banca" porterà il diplomino. È paradossale, però questo tipo di formazione non ha una concretezza e un’attinenza con quella che è la storia di una persona, per cui probabilmente è difficile che possa recargli un dato positivo fuori dal carcere.

Ornella (volontaria): Prima di entrare a fare la volontaria avevo un’altra idea della parola "trattamento". Questo termine di solito si usa nelle concerie con il pellame, nelle tintorie, c’è il trattamento dei rifiuti tossici. Trattamento di una persona… questo termine lo trovo abbastanza strano, mi ricorda l’idea di manipolare, di adattare, di plasmare un materiale.

 

La recidiva al 70% penso sia la testimonianza che il trattamento così com’è serva a poco

 

Marino: Nella teoria il trattamento dovrebbe servire a chi è in carcere per essere rieducato (anche se il termine non mi piace molto), ma vorrei chiedere a tutti i presenti, a chi commetteva reati a scopo di lucro, se il carcere gli ha insegnato dei principi solidi, sani e di onestà tali, da convincersi che quando uscirà dal carcere non andrà più a fare reati. Secondo me pochi si salvano dalla recidiva: chi lo può fare è perché ha raggiunto in tanti anni di carcere la convinzione che il periodo di vita che gli resta da vivere lo vuole trascorrere cercando il più possibile di fare tutte le cose che stando in carcere non ha potuto fare; oppure chi si è fatto un’attenta analisi ed ha capito personalmente che non vale la pena continuare o chi in carcere c’è entrato per un "incidente" senza aver mai avuto frequentazioni di ambienti criminali. Le persone che appunto si salvano dalla recidiva lo fanno per scelta personale, o perché sono cambiate col passare degli anni, e non perché il carcere ha insegnato loro qualcosa o perché le ha rieducate.

Mi dispiace essere pessimista, ma la recidiva al 70% penso sia la testimonianza che il trattamento così com’è serva a poco. Secondo me le attività invece sono una sfida, cioè, io ti dimostro che saresti stato in grado di fare anche ben altro da quello che hai fatto.

Credo quindi nelle attività perché possono diventare un momento di riflessione, posso credere nel carcere perché a volte forse è necessario per far fermare le persone, ma non credo che due-tre o quattro colloqui all’anno con l’educatore e con lo psicologo possano improvvisamente far capire che bisogna cambiare vita. Chi invece è capitato in carcere per una disgrazia o per un singolo reato, ma prima che questo accadesse aveva dei principi saldi, probabilmente li avrà anche dopo, dico probabilmente, perché dal carcere così come è adesso è molto più facile uscire peggiorati.

Graziano: A me sembra che la questione del trattamento e della rieducazione sia di ottimo principio ma estremamente velleitaria, nel senso che pensare a un’attività di trattamento e rieducazione generalizzata è assurdo, il trattamento, e lo dice anche l’ordinamento, deve essere individuale e questo non accade (vedi mancanza di educatori, di psicologi ecc.). Cioè, continua ad esserci una dicotomia tra un principio che vuole il reinserimento sociale delle persone e il sistema di pene che invece scaraventa quelle stesse persone fuori dalla società. Faccio un esempio: prendi una persona di trent’anni che per un reato prende trent’anni di condanna, poi esce a sessant’anni o poco meno, per lui reinserimento sociale cosa vuol dire? Allora, o c’è un sistema dove puoi valutare che questo singolo detenuto, dopo aver scontato una parte di pena, ha rimesso in discussione il suo passato, che si è "rieducato" e che quindi può essere reinserito, e continuare a farlo stare in carcere non ha più senso, oppure, come succede ora, non resta che fargli scontare dieci anni, valutare la sua condizione, e poi constatare che l’individuo può essere reinserito ma che purtroppo, mancando ancora vent’anni al fine pena, non c’è niente da fare.

Ornella: Tu hai posto un altro problema, strettamente legato al trattamento, che è quello delle pene lunghe.

Nicola: Io comunque ritengo che dal 1975 il trattamento è la cosa più importante che sia stata fatta per i detenuti e dico anche che andrebbe sostenuto, rafforzato, difeso, perché è l’unica alternativa al carcere custodiale, ad un carcere dove non ci sarebbero più possibilità di crescere in qualche modo, rimarrebbero solo l’aria e la cella.

Marino: Se io faccio una critica non voglio dire di abolire il trattamento, voglio solo dire che così com’è non funziona. E poi non confondiamo il trattamento con i corsi e le attività, perché sono due cose diverse. E troppi corsi spesso sono solo intrattenimento, qualcosa che se si vuole ti dà la possibilità di trascorrere qualche ora della giornata fuori dalla cella, e basta.

Quanto alla revisione critica del passato, per il 99% dei casi, quando esci dal carcere esci con buoni propositi, ma poi la realtà è ben diversa da come te la aspettavi.

Annamaria (stagista, laureanda in Scienze dell’educazione): Io sono d’accordo che il trattamento dovrebbe essere fatto in maniera individuale, fatto sulla persona e sulle possibilità che ha la persona dopo. Ma come sapete sono pochi giorni che ho messo piede in un carcere e quello che so in questo momento è quello che ho letto sui libri.

Marino: Comunque tieni presente che quello che vedi qui non è la realtà di tutte le carceri, questa è un’isola felice rispetto ad altri istituti, immagina quindi come possono essere gli altri. Io dico questo non perché voglio essere critico, ma perché se uno, come tanti di noi, ha girato qualche carcere si è reso conto di come stanno le cose.

Graziano: Qui stiamo facendo un discorso non tanto puntato su Padova quanto su una realtà generale. La media di noi ha girato 3-4 carceri, ha visto le differenze. In gran parte delle carceri d’Italia, togli la scuola, per il resto ti riduci a trascorrere 20 ore chiuso in cella. Quella alla prova dei fatti è la rieducazione.

Nicola: Penso che il trattamento andrebbe suddiviso per fasi. Nel primo periodo di carcerazione mi sta anche bene che il tempo venga impegnato tra i vari corsi, ma quando si avvicina il momento di poter accedere alla semilibertà, il trattamento allora sì che dovrebbe essere personalizzato. Se si hanno delle attitudini vanno individuate e la persona va indirizzata in quel senso per una prospettiva di lavoro esterno, basata appunto sulle capacità del singolo, perché fuori se non hai una specializzazione fai ben poco. Quindi lo sforzo, l’impegno di energie e risorse andrebbero fatti soprattutto nella fase finale della detenzione. All’inizio invece ci vuole l’attenzione, perché, soprattutto per chi non ha mai avuto a che fare con questo universo qui, il carcere è una realtà scioccante, mentre è un po’ diverso per chi come noi è entrato e uscito più volte, e ormai ci ha fatto il callo.

Luigi: A volte capita, come a me, di non avere mai avuto problemi con la giustizia e di trovarsi di colpo catapultati in questo mondo per 30 anni. È tutto l’ambiente carcerario che andrebbe cambiato, per fare dei percorsi adatti a persone diverse, perché solo così si può dare, forse, una possibilità di rientro nella società, più che di rieducazione. Molti di noi sanno come ci si deve comportare fuori, piuttosto abbiamo dovuto imparare a comportarci all’interno di questi posti. Personalmente avevo 30 anni quando sono entrato in carcere, e prima avevo sempre lavorato e condotto una vita più che regolare. Avevo una mia famiglia. Di punto in bianco mi sono ritrovato in un ambiente che non era il mio e mi sono dovuto adattare, rendendomi subito conto, in questi dieci anni di carcere, che da questi posti non esci migliorato, anzi, a volte sembra facciano tutto il possibile per farti peggiorare, incattivire, anche se prima come indole non avevi queste abitudini.

Aggiungo inoltre che un trattamento dovrebbe iniziare già nelle aule dei tribunali, perché la prima persona che ci giudica è quella che in fin dei conti ha in mano tutta la nostra vita, e non è di primaria importanza l’entità della condanna, è come ti viene imposto di scontare la pena che dovrebbe far riflettere, perché moltissime persone potrebbero essere reinserite senza il timore di reiterazione del reato.

Ornella (volontaria): L’ultima circolare del DAP dice che il trattamento è "finalizzato alla rieducazione ed alla reintegrazione sociale del reo". Allora, vorrei fare alcune considerazioni sul concetto di rieducazione e reintegrazione sociale.

Rieducazione per una persona di 30, 40 o 50 anni non so esattamente cosa voglia dire, io penso che in questi posti si possa solo fare un’operazione di riduzione del danno, ridurre i danni da carcere.

E, anche ammettendo che sia possibile la rieducazione di un adulto, ci sono cose, come la deresponsabilizzazione totale delle persone in carcere, che vanno esattamente in senso opposto. Qui dentro le persone le vedi ridotte a bambini, non c’è quasi nessun margine di adesione volontaria a un percorso, di scelta. Quindi come fa una struttura che toglie qualsiasi responsabilità alle persone improvvisamente a rieducare? Qualche giorno fa la direttrice della Giudecca, parlando del libro delle donne detenute, e di dove si racconta come il carcere infantilizzi, faccia diventare bambini insicuri, ha raccontato un episodio significativo che le è capitato. Era in coda a un ambulatorio per fare delle analisi, quando si è accorta che ad aspettare c’era anche una semilibera, agitatissima perché evidentemente le cose andavano a rilento e lei rischiava di rientrare in carcere in ritardo. A quel punto, la direttrice si è fatta avanti e, per rassicurarla, ha chiamato il carcere avvisando del possibile ritardo, ma neppure la sua telefonata è riuscita a tranquillizzare la detenuta. Ecco, si torna bambini, in ansia perché le regole da rispettare sono tante e non ci sono margini di scelta, ma solo obbedienza.

Luigi: Anche perché molto spesso accade che quello che porta alla revoca di un beneficio nella maggior parte dei casi non è un reato, ma più semplicemente una trasgressione a delle regole imposte non sempre facendo un’attenta valutazione della persona. L’esempio più classico è una persona che prima di essere detenuta non ha mai avuto problemi di alcol, poi magari sei in semilibertà, bevi un bicchiere di troppo, ti ubriachi e quindi rischi la chiusura dal beneficio e per anni non puoi chiedere di essere riammesso.

Stefano: Io ripartirei dal discorso su come uno viene "trattato". Per cui il trattamento non sono i corsi di formazione per avere magari un lavoro fuori e altro, al contrario è un po’ tutto, o meglio, è di più. Quello che intendo io per trattamento è un insieme di attività che sono ricreative, culturali, formative, lavorative, relazionali e personali. Se mi fanno fare un colloquio in condizioni poco umane, se la persona che mi viene a trovare è trattata male dal personale, è umiliata, il mio colloquio cosa diventa? Uno schifo, solo uno schifo. E anche questo deve rientrare nel trattamento.

Le situazioni nelle quali il detenuto si trova a vivere quotidianamente contano, perché dovrebbero permettere alla persona di non regredire, di non sentirsi esclusa dal mondo esterno, di non isolarsi in cella o mentalmente. Quindi di consentirle delle relazioni decenti. Per cui vedo malissimo un carcere dove dal primo giorno ti mettono a lavorare o ti impegnano in altre attività, ma senza un’ora di socialità umana, un carcere così personalmente non lo vorrei mai provare.

 

Il balordo che c’è in me è ancora vivo, ma l’ho mandato in pensione e lo sto facendo morire di morte naturale

 

Nicola: Io ho fatto 25 anni di carcere, sono entrato a 19 anni ed ho trascorso fuori solo due anni, da latitante, più sei mesi in semilibertà. Il balordo che c’è in me è ancora vivo, ma in qualche modo l’ho mandato in pensione e lo sto facendo morire di morte naturale. Non perché qualche simpatica persona a cui mi sono anche affezionato mi abbia rieducato, semplicemente per una mia scelta, perché voglio riappropriarmi di quella fetta di vita che mi rimane, accontentandomi di quello che la vita mi vorrà ancora offrire. Non puoi dire a certe persone che magari hanno già 45-50 anni: io ti modello come voglio, ti cambio, "ti raddrizzo". Non c’è più niente da cambiare. Quello che non faccio è perché io non voglio più farlo. È importante però che non ti rendano incapace di affrontare il mondo esterno quando ti verrà data la possibilità di farlo, ma al contrario ti diano la capacità di far fronte ai disagi che immancabilmente ti si presenteranno, altrimenti in un attimo si rischia di perdere tutto quello, per ottenere il quale si sono fatti sacrifici enormi.

Graziano: Ma rieducare chi? Quando lo Stato è il primo a non rispettare le regole, a chiuderti in una cella con altre 7-8 persone, a non applicare il regolamento del 2000. Il carcere in questa situazione non è molto rieducativo, e questo è quello che accade nella stragrande maggioranza delle carceri.

Ahmet: In tutti gli anni trascorsi in carcere ho fatto tutto quello che era possibile fare. Buon comportamento, lavoro, rieducazione ecc. Tanto che sono uscito in art. 21 e poi sono stato ammesso alla semilibertà. Dopo aver fatto tutto questo percorso mi sono sentito dire che, a causa della mia immaturità sociale, e della mia personalità che non è quella che loro pensavano, dovevo essere chiuso da tutto, e ora sono qui con voi.

Elton: Io vorrei sottolineare la situazione degli extracomunitari, perché se il trattamento è così irto di difficoltà per i detenuti italiani, figuriamoci come deve essere per noi che non abbiamo nessuna tutela. Se gli italiani si lamentano dei colloqui, cosa dovremmo dire noi che per la stragrande maggioranza non ne possiamo fare e che l’unica possibilità che abbiamo per contattare i nostri famigliari sono i 10 minuti di telefonata settimanale?

Luigi: Sul reinserimento sociale mi sono fatto anch’io un’idea negativa, perché la mia esperienza mi ha insegnato che già nelle aule di Tribunale decidono di eliminarti dalla società e poi quando inizi a frequentare questi posti per tanti anni ti rendi conto di quanto poco conti ora per la società, e non importa a nessuno chi eri, cosa facevi, perché l’hai fatto o altro. Hai sbagliato e ora paghi. Punto e basta. Sono convinto che se ci fosse veramente l’intenzione di reinserire le persone nella società i modi si troverebbero e non sarebbe così difficile come vogliono farci credere.

Graziano: Dopo aver sparato a zero, secondo me qualcosa da salvare comunque c’è. Vedi anche questa realtà di Padova, cioè la redazione e le varie attività con cui si collabora. Il fatto non da poco di poter trascorrere una parte della giornata qui in redazione e senza un controllo assillante da parte degli agenti è già qualcosa di positivo, si riesce a ritagliarsi un po’ di autonomia e comunque è proprio grazie a questa autonomia che ci responsabilizziamo. Secondo me questo dare fiducia, questo dare autonomia maggiore, funziona nel trattamento. Ma in questa forma però, che non è infantilizzante. Dove ho visto concedere queste aree di autonomia alle persone vedo che c’è un cambiamento di atteggiamento, una presa di responsabilità.

Luigi: Personalmente penso che attività come queste sono strutturate molto bene, ma purtroppo ancora per un numero limitato di persone. Creano o rischiano di creare delle discriminazioni. Innanzi tutto prendere come esempio Padova e le attività come la nostra è sbagliato per tutto quello che può o possono pensare gli altri detenuti che restano nelle sezioni. Qui si hanno più possibilità di incontrare persone come educatori o altri, qui gira più gente che conta e quindi ottenere qualsiasi cosa diventa più facile di come sarebbe se restassi in sezione.

Stefano: È fondamentale comunque che ci sia uno spazio che si basa sul senso di responsabilità e autocontrollo, cosa che invece non viene praticata da nessuna parte tranne in quelle poche realtà come la redazione, la Rassegna Stampa, il TG. Cioè, ci sono degli spazi dove effettivamente si può lavorare sulla persona, però non in senso rieducativo (che ti cambia la testa), ma nel senso di darti la possibilità di sperimentare degli spazi tuoi, mentre per altre attività (faccio un esempio: imparare a dipingere o a fare le pizze) a parte la formazione tecnica non c’è nient’altro. Allora io sono più interessato per la mia persona ad avere spazi che mi garantiscano questo tipo di cose, perché non mi serve a niente imparare ad usare un pennello o qualsiasi altra cosa se non riesco ad imparare a gestirmi uno spazio di autonomia e responsabilità nella società. Rischio di continuare ad essere quello che ero prima.

Ornella: Allora il discorso di Luigi andrebbe capovolto. Dovrebbero essere ampliate le aree in cui le persone abbiano un minimo di autonomia.

Luigi: Sono d’accordo ed è questo quello che volevo dire in effetti. Chiedo solo di immaginare questo istituto con 350 detenuti (che è la sua reale capienza) anziché 750. Come si vivrebbe? Quante possibilità in più ci sarebbero? Come verrebbero seguiti i detenuti?

Ernesto: Io farei un trattamento del genere: se metti dieci persone a fare gli imbianchini, devi dargli la possibilità di continuare anche dopo a fare quello che hanno imparato. Se poi ci sono dei corsi di formazione professionale ben vengano, ma devono avere delle finalità e dare a chi ha imparato qualcosa la possibilità di lavorare.

Ornella: Questo sembra un discorso ragionevole, ma io ci credo solo in parte. Ieri ero alla Giudecca e una donna mi ha fatto l’esempio della Germania, dove in carcere il lavoro è obbligatorio. Ma se uno entra in carcere e svita e avvita bulloni, o impara a fare le pizze, fa un corso stupendo e dopo ha un lavoro assicurato, secondo me non basta. Perché io ho visto tanta gente fare un buon lavoro… ma poi siccome il vicino di casa spacciando guadagna dieci volte di più la tentazione è forte… se tu non cominci a ragionare in modo diverso, non basta. In Olanda vige un altro sistema, quattro ore di lavoro e quattro di attività culturali, lì è già più intelligente la cosa.

Ernesto: Allora bisogna essere sinceri nella vita, a me non mi salva più nessuno, Nicola ha già fatto 25 anni di galera… noi siamo nati ai tempi delle rapine, noi siamo un capitolo a parte, ma oggi l’80% dei detenuti è dentro per droga, tra questi ce ne sono molti che prima facevano i pizzaioli, i parrucchieri, comunque avevano un’attività, hanno iniziato a usare un po’ di roba e poi per continuare ad usarla hanno cominciato a venderla. Io dico che sono questi che si dovrebbe recuperare, perché non è possibile condannare a 10-15 anni un ragazzo che ne ha solo 20 per aver spacciato 100 grammi di cocaina. È lì che non si recupera la persona. Queste persone non sono criminali, ma vengono giudicate come tali.

Nicola: Probabilmente con quei ragazzi è più facile lavorare sul trattamento.

Ornella: Ma perché sono arrivati a quel punto? Si vede che già prima qualcosa non funzionava, per cui non basta dare a queste persone una buona formazione e mandarle fuori, così, allo sbaraglio…

Luigi: Allora trattamento deve essere quello di dare ai detenuti la possibilità di essere seguiti per quelli che sono stati i reali motivi che li hanno fatti finire in questi posti, mentre invece tutto questo non avviene perché i detenuti sono diventati sempre più come gli ingredienti di un minestrone.

Marino: Il trattamento secondo me parte molto anche dalle relazioni con gli operatori, che non sono solo gli educatori. Gli stessi agenti devono avere un ruolo fondamentale… soprattutto gli agenti. Sono loro che stanno a contatto con noi 24 ore al giorno e ci conoscono meglio di chiunque altro. Se un agente ti tratta come una pezza da piedi non ti sta insegnando niente. Mentre, se ti tratta con un po’ di considerazione e ti fa sentire ancora un uomo, ti è certamente di maggior aiuto. A mio avviso questo è un altro aspetto fondamentale, basilare affinché si possa parlare di vero trattamento, e invece troppo spesso l’idea di trattamento si limita a qualche attività, qualche buon corso, qualche colloquio con gli operatori e nient’altro.

 

 

 

La forza delle idee

Sono le idee di Alessandro Margara, considerato uno dei padri della legge Gozzini, che ha messo a punto un progetto di revisione dell’Ordinamento Penitenziario. Alla base sta la considerazione che il carcere deve essere davvero l’ultima ratio, in particolare per l’area della detenzione sociale, di quella parte della popolazione detenuta, cioè, nella cui esperienza di vita è centrale un problema sociale, non affrontato affatto o non affrontato in modo adeguato

 

Idee per un Progetto di revisione dell’ordinamento penitenziario

 

di Alessandro Margara

Intervento alla Giornata di studi "Carcere: L’alternativa che non c’è"

 

Il mio intervento riguarda un’ampia materia, che comprende anche le misure alternative ma non solo quelle. Ho tuttavia una forte preoccupazione, quella cioè di risultare noioso e addirittura nocivo. La preoccupazione di essere noioso nasce dall’estensione del campo di attenzione che io ho posto come tema, e che consiste nella rivisitazione dell’intero sistema dell’Ordinamento Penitenziario. Quanto alla mia preoccupazione di risultare nocivo, essa nasce invece dal timore che le mie proposte possano accendere incaute illusioni, avendo una prospettiva e un’ampiezza troppo significative e importanti per poter concretamente essere prese in considerazione. Quindi non voglio dare illusioni, soprattutto ai detenuti. Questo, voglio chiarirlo subito.

Questo progetto di revisione della legge 26.7.1975 n. 354 (sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle pene e delle altre misure privative o limitative della libertà) è piuttosto complesso ed è condotto in parte con il metodo della novellazione della normativa esistente e in parte con una articolazione del tutto nuova: l’innovazione riguarda anche la distribuzione in parti, titoli e capi.

Per quel che riguarda il trattamento penitenziario, viene proposta una modifica diciamo pure "formale", anche se concettualmente di un certo rilievo: nella legge esistente sono fissati degli obblighi riguardanti l’organizzazione dello Stato che deve seguire gli Istituti di pena, in questo nuovo testo, invece, tali obblighi dello Stato sono trasformati in diritti di coloro che ne usufruiscono, cioè in diritti dei detenuti. Va detto, in proposito, che di diritti dei detenuti si è in effetti sempre parlato, e con una certa insistenza; in questo testo si cerca però di dare ad essi concretezza. In tema di diritti, per esempio, c’è la parte che riguarda le condizioni di vita all’interno del carcere, condizioni di vita che – lo dice esplicitamente l’Ordinamento Penitenziario – devono essere "aperte". C’è, poi, la presa in carico di ogni singolo caso, perché questo è essenziale per conoscere veramente le situazioni ed avviarle nella direzione migliore.

Su questo terreno seguono poi tutti i diritti che riguardano la qualità di vita. A partire dalla camera di pernottamento e dai servizi (che devono essere pienamente conformi alle norme igieniche) per passare a un’alimentazione adeguata e alla possibilità di accedere in misura sufficiente agli spazi esterni, essendo evidenti i danni prodotti da una vita quasi per intero rinchiusa negli ambienti interni del carcere. Perché il problema non è solo potersi effettivamente recare all’ora d’aria o al passeggio, ma anche disporre di un ambiente in cui sia possibile praticare del movimento fisico adeguato, che compensi la staticità della vita di cella. C’è poi tutta la parte che riguarda la sanità, in cui vengono rilanciati tutti gli obiettivi indicati dalla legge delega del 1998, che in pratica prevede che il trattamento sanitario del detenuto sia corrispondente, e sostanzialmente identico, a quello destinato alle persone libere.

 

Pericolosità sociale: va modificata accertandone davvero il carattere attuale

 

Segue poi il diritto all’osservazione e al trattamento, anche questo "pacifico" in quanto già previsto dall’articolo 13 della legge attuale. In questo nuovo testo, tuttavia, tale diritto si riconfigura come un preciso diritto del detenuto, non più come un dovere dell’Amministrazione. Dall’articolo 15 della legge sono delineati inoltre come diritti anche altri aspetti che riguardano il trattamento: come quelli allo studio e al lavoro (che invece, allo stato attuale, proprio un diritto non è, e nemmeno un dovere, essendo di fatto accessibile a una percentuale molto bassa di detenuti). Altro diritto - e qui si recupera la proposta fatta dagli onorevoli Boato e Ruggeri (ndr: proposta elaborata nel 2002 a Padova, all’interno della Giornata di Studi sull’affettività) – è quello all’affettività, che concerne anche, in parte, alcune disposizioni riguardanti i permessi (altra materia su cui abbiamo cercato di intervenire) e la pericolosità sociale (che viene modificata richiamando la necessità di un accertamento che riguardi il carattere attuale di tale pericolosità).

Per quel che riguarda le misure alternative, la proposta parte da un richiamo letterale alle sentenze della Corte Costituzionale in merito allo spazio che queste devono avere all’interno dell’esecuzione penale. C’è un articolo, infatti, in cui vengono elencate parti delle sentenze Costituzionali e viene chiarita e ribadita la centralità che deve essere riconosciuta alle misure alternative. In questa prima parte si svolgono anche alcune considerazioni sulla materia e si toccano alcuni punti delicati, uno dei quali riguarda la limitazione che è stabilita per alcuni gravi reati. La nostra proposta, in proposito, è che la legislazione affronti organicamente questo tema, assicurando da un lato una permanenza in regime detentivo di idonea lunghezza ma determinato nel tempo, e – dall’altro – modalità più chiare per dare accesso, poi, alle misure alternative.

Dopo queste indicazioni generali, si parla poi dei singoli articoli. Si propongono alcuni modesti ritocchi sull’articolo 47 dell’affidamento in prova al servizio sociale e si modifica un comma che riguarda la giustizia riparativa (cercando di ridimensionare il discorso, e soprattutto di limitare certe interpretazioni un po’ eccessive che sono emerse nella pratica dei Tribunali di Sorveglianza). Inoltre, si ribadisce il ruolo centrale della gestione delle misure alternative, particolarmente dell’affidamento in prova, da parte dei Centri di servizio sociale adulti. E qui si pone l’accento sull’inopportunità di una commistione fra gestione di Polizia e gestione di Servizio sociale.

Dopo l’affidamento in prova si parla della semilibertà. L’articolo 50 bis - in cui si affronta questo argomento e a cui non a caso abbiamo dato il titolo di "Progressione nel trattamento" - prevede che il trattamento in semilibertà possa articolarsi in momenti in cui il rientro in carcere non debba essere necessario e possa pertanto essere sostituito da forme diverse, come la detenzione domiciliare o la libertà vigilata. Si tratterà di vedere in che modo, poi, si possa effettivamente concretizzare questa proposta, anche se personalmente dubito che possa concretizzarsi davvero.

In ogni caso il discorso della progressione riguarda particolari situazioni, per esempio la malattia, o le ferie della persona che lavora all’esterno. Situazioni per le quali, insomma, oggi si trovano arrangiamenti di vario tipo e che, invece, potrebbero trovare una risposta più esauriente, come quella di stare presso la propria abitazione, oppure presso un ente di cura, ma con modalità diverse da quelle della semilibertà, magari con un sistema momentaneo di detenzione domiciliare o di libertà vigilata. E la stessa cosa può valere nel progredire della semilibertà, prevedendo fine settimana a casa, in un regime comunque controllato. La progressione della semilibertà si conclude, alla fine, con la constatazione che le situazioni semilibere eccessivamente protratte nel tempo diventano non solo difficilmente sostenibili per le persone che ne sono soggette, ma anche sostanzialmente improduttive, perché abituano ad un sistema di vita tutt’altro che naturale. Sotto questo profilo – con riferimento particolarmente alle semilibertà di lungo periodo - si prevede quindi che venga favorito il passaggio alla liberazione condizionale. In questo testo viene previsto infatti un nuovo regime per la liberazione condizionale, la quale diventa più che mai misura alternativa. Lo era già, certamente; ma ora si tratta di darle sostanza rendendola giuridicamente una misura alternativa più corretta.

 

Soluzioni nuove per coloro che entrano in carcere con molto ritardo rispetto alla commissione del reato

 

Infine, nella parte che riguarda appunto le misure alternative, si tocca un altro tema cruciale, quello del decorso del tempo, cioè dell’incidenza del tempo sulle varie situazioni. Quando dico tempo intendo, evidentemente, tempo trascorso dalla commissione del reato, ed è un problema nel senso che nel momento in cui noi diamo alla pena questo valore rieducativo, risocializzativo, riabilitativo, che senso ha, questa pena, se poi viene eseguita dieci, venti anni dopo il momento in cui il reato è stato commesso? Nella prospettiva di trovare una soluzione per questo grave problema, il testo prevede due interventi sulla normativa. Uno consiste nel cassare le norme del diritto penale che riguardano il fatto che non vi è prescrizione nei confronti dei recidivi e dei delinquenti abituali professionali o per tendenza. Si prende atto che questa norma non funziona più, perché sono tutte situazioni che non sono più definitive come erano nel codice penale originariamente, e quindi la prescrizione deve maturare anche per i reati commessi dai recidivi e dai delinquenti abituali professionali o per tendenza. Il secondo aspetto è che le revoche dei benefici vari, sospensioni condizionali e condoni non devono seguire i tempi dettati dall’inefficienza degli uffici di esecuzione penale: deve essere stabilito un tempo ragionevole entro il quale queste misure devono diventare effettive.

Per quel che riguarda l’argomento-tempo, nella proposta ci si sofferma anche sulla situazione di coloro che entrano in carcere con molto ritardo rispetto alla commissione del reato, e che quindi vedono la fine della propria pena lontanissima nel tempo. Ecco, su questo punto si ipotizza un intervento da attuarsi mediante l’applicazione delle misure alternative; un intervento anticipato, rispetto alle condizioni fissate dall’attuale normativa, e modulato attraverso un numero di anni variabile in ragione del reato commesso e della pena da espiare. Qui c’è da fare peraltro una distinzione fra la detenzione comune e la detenzione politica, perché un intervento di questo tipo potrebbe anche avviare a soluzione l’antica e vessata questione della detenzione politica, che perdura nel tempo e sembra non concludersi mai.

 

Quel dopo pena che è una corsa a ostacoli fra pene pecuniarie, misure di sicurezza e pene accessorie

 

Dopo questa parte, ce n’è un’altra, che riguarda i trattamenti sanzionatori diversi dalla pena detentiva. Si tratta di una materia complessa, di cui in questa sede mi limito a illustrare il succo. In buona sostanza, anzitutto va detto che questi trattamenti sono rimasti come erano quando la pena non aveva le finalità rieducative, risocializzative e riabilitative che le si riconoscono oggi. E ciò comporta che la fase finale, quella successiva all’estinzione della pena detentiva, diventa una specie di corsa ad ostacoli fra le pene pecuniarie, le misure di sicurezza e le pene accessorie. Diciamo, sinteticamente, che in questa proposta si prevedono modalità d’intervento tali da evitare che si perpetui questa corsa ad ostacoli e da fare in modo che le diverse situazioni siano avviate a soluzione tenendo conto della finalità che le pene (tutte le pene, non solo quelle detentive) devono porsi.

Sulla Magistratura di Sorveglianza si afferma anche la necessità e l’importanza che ci sia una proporzione fra le dimensioni organizzative della Magistratura di Sorveglianza e l’entità del lavoro che essa deve concretamente svolgere, aspetto questo che normalmente viene alquanto ignorato. Si prende anche atto del fatto che, attraverso la legge Simeone, si crea un numero notevole di esecuzioni pena sospese, che stanno lì in attesa che il Tribunale di Sorveglianza riesca a prenderle in considerazione e a decidere in merito. Il volume di queste procedure in attesa allo stato attuale è spropositato, quindi occorre individuare un sistema che consenta di smaltire in tempi rapidi questo massiccio arretrato. L’unico modo di porre rimedio a questo problema consiste, come s’è pensato di fare per altre materie, nella creazione presso i Tribunali di Sorveglianza di sezioni stralcio incaricate di provvedere all’eliminazione di questo pesante arretrato. Sezioni stralcio che devono essere concepite in maniera tale da alleggerire il cumulo di lavoro del Magistrato di Sorveglianza professionale, facendo cioè ricorso all’opera dei "laici", che sono più facilmente reperibili.

 

Deve esserci, nei confronti delle persone in situazione "critica", una presa in carico del tutto particolare

 

Ed eccomi ora al Titolo Terzo, relativo all’organizzazione penitenziaria. Per quel che riguarda gli Istituti, si tratta di articolare di più e meglio la differenziazione già esistente negli stessi: alta sicurezza, media sicurezza, sicurezza attenuata sono realtà di tutti i giorni, ma pare opportuno riconfigurarle sotto il profilo normativo, e infatti nella proposta esiste un intero capo relativo a questo delicato argomento. Vi si parla delle sezioni protette, altra situazione ben nota negli Istituti, e anche in questo caso occorre che la legge richiami sul fatto che queste non sono dei freezer nei quali si accantonano persone destinate poi ad essere recuperate chissà quando… No, quelle sezioni devono essere dei luoghi in cui si lavora perché le persone non ci restino a tempo indeterminato. Vorrei ricordare poi l’ultimo articolo, nella sua parte in cui espressamente si parla delle situazioni di criticità, dalle quali deriva purtroppo il grave problema dei suicidi in carcere. Queste situazioni non devono finire, anch’esse, nel freezer, ma devono essere seguite con particolare attenzione: deve esserci, nei confronti delle persone "critiche", una presa in carico del tutto particolare.

Un accenno credo vada fatto al Titolo Quarto della nostra proposta, che riguarda il reinserimento sociale. Questo discorso abbiamo cercato di articolarlo sia sul piano dell’intervento sul singolo, sia sul piano di una progettazione complessiva del percorso di reinserimento sociale. Per affrontare seriamente questo tema occorre però una riflessione su che cos’è il carcere, oggi. Di cosa sia costituito nella realtà questo carcere, sono consapevoli anche – per loro stessa ammissione – coloro che sostengono una politica di maggiore carcerizzazione: il carcere di oggi è fatto essenzialmente di detenzione sociale, cioè di persone che appartengono a ben determinati gruppi nei quali i problemi sociali sono esattamente quelli da cui poi sbocciano il momento antigiuridico e il momento criminale. Non si può non riconoscere che su queste situazioni l’intervento sociale è stato o insufficiente o del tutto assente: su di esse dobbiamo essere più centrati, più presenti, e soprattutto devono esserlo particolarmente quegli enti locali a cui l’intervento sociale è delegato. Sotto questo aspetto, vanno previsti interventi collettivi attraverso i quali fette considerevoli di questa detenzione sociale possano essere portate all’esterno, almeno in parte, con lavori da svolgersi o in regime di semilibertà, o con misure alternative per la realizzazione di progetti definiti e seguiti sul campo dagli stessi enti locali. A questo riguardo si prevede – e non mi pare un’idea tanto peregrina – che in definitiva possano ancora servire delle strutture penitenziarie, delle strutture detentive con una gestione territoriale che le faccia però assomigliare ai vecchi carceri mandamentali. Questo è un discorso complessivo sul quale effettivamente bisognerà soffermarsi con particolare attenzione e cautela, perché si possono fare molti sbagli su questo terreno.

 

 

 

Rinvigorire il sistema delle misure alternative

Ma per farlo bisogna renderle effettivamente alternative, e non circuito parallelo a quello della detenzione

 

di Sergio Segio

 

Non si può discutere del carcere, della necessità di una sua riforma, umanizzazione (e magari superamento) e neppure di misure alternative se, assieme e prima, non ci si pone la questione di liberare la società da una visione carcero-centrica, secondo la quale è il carcere - pur essendo la più costosa in termini economici e umani - la risposta non solo immediata ma preferibile di fronte alle contraddizioni e lacerazioni sociali.

In questi anni si è assistito a un processo solo in apparenza contraddittorio.

Da un lato, la logica del carcere si è progressivamente spostata all’esterno, colonizzando il territorio, permeandolo con un insieme di apparati di controllo e con quell’economia della paura, che tanto sviluppo ha visto attorno alle politiche della cosiddetta tolleranza zero.

Dall’altro, la società, una serie di problematiche sociali, è entrata in carcere, il quale è progressivamente diventato il sostituto autoritario delle politiche di welfare. Basti vedere qual è la composizione della popolazione detenuta: in quasi totalità si tratta di immigrati, tossicodipendenti, malati psichici, esclusi.

Lungi dall’essere soluzione, il carcere aggrava in realtà i problemi che pretende di voler risolvere. Tanto è vero che continua a espandersi e a riprodurre se stesso. Il numero delle persone sottoposte a misure penali è lievitato enormemente e silenziosamente in questi anni: non sono solo i 56.000 presenti in carcere in un qualsiasi giorno dell’anno o gli 85.000 ingressi annuali. Son ben di più: 56.000 detenuti più 30.000 in affidamento, più quasi 14.000 in detenzione domiciliare, più 75.000 in attesa di misura alternativa, ai sensi della legge Simeone-Saraceni: totale quasi 175.000 persone!

Anche queste cifre ci dicono che il carcere non è una medicina, bensì la malattia. Un male da alcuni considerato inevitabile in determinate circostanze, ma che in ogni caso va ridotto al minimo e utilizzato solo per il tempo strettamente necessario.

Le misure alternative costituiscono sicuramente un male minore, ma troppo spesso risentono di una medesima logica, che è quella dell’esclusione anziché quella del passaggio pur graduale in un percorso di reinserimento. Il sistema di prescrizioni, fatto spesso di divieti irragionevoli, controlli senza senso, intralci alla vita e al lavoro, che accompagna consuetamente la fruizione della misura alternativa, è testimonianza di questa logica, che bisogna porsi il problema di ribaltare e modificare. Ad esempio nella direzione suggerita dal cardinal Martini: occorre pensare a un’alternativa alla pena, non solo a pene alternative.

Il carcere è male e anche fabbrica di malattia: produce sofferenza psicofisica, infezioni, morti evitabili, suicidi e gesti di autolesionismo. Il carcere, infatti, continua a essere ed è principalmente una pena corporale.

Il carcere è diventato niente più che un deposito di vuoti a perdere, di quelli che Nils Chistie ha efficacemente definito "nemici perfetti", vale a dire di quei soggetti e gruppi sociali facilmente stigmatizzabili e da sempre oggetto di processi di esclusione: tossicodipendenti, immigrati, senza dimora, giovani delle periferie urbane.

Il carcere aggiunge emarginazione a emarginazione. Secondo l’Osservatorio europeo sulle droghe, mediamente il 50% dei reclusi europei consuma droghe; fino al 21% dei detenuti tossicodipendenti che assumono droghe per via iniettiva ha cominciato a farlo nel carcere stesso.

Il carcere è la risposta più costosa al crimine, anche in termini economici. In Italia, circa 4.000 euro al mese per detenuto, e sono cifre sicuramente sottostimate. Anche qui, basti dire che nel bilancio dell’Amministrazione penitenziaria solo l’1,4% va sotto la voce rieducazione.

Ma il carcere è anche un business che naturalmente tende a incrementare se stesso. Anche per questo, pur aumentando il numero di coloro che beneficiano di misure alternative, non decresce il numero dei detenuti. Anzi. E si vedano le cifre sopra indicate.

Di fronte al fallimento evidente delle politiche di massima penalizzazione, del carcere inteso come scorciatoia preferita per rispondere a ogni tipo di devianza, occorrerebbe il coraggio di cambiare rotta, proprio come ha fatto la Finlandia 30 anni fa: allora aveva il tasso di detenzione più alto d’Europa, oggi ha il più basso.

 

Cercare un’alternativa a questa giustizia e a questo carcere

 

Una riattivazione delle misure alternative deve servire a fare uscire più persone dal carcere (e oggi non è così: delle 16.679 misure di affidamento sociale che sono state concesse nel 2003, solo 2.765 hanno riguardano persone detenute) e contribuire a farlo diventare, per davvero, l’extrema ratio. Invece, lo vediamo di nuovo in questi mesi che, come sempre, a ridosso di scadenze elettorali, cresce la demagogia e le proposte sciagurate che tendono ad ampliare ancora di più la risposta carcerizzante (vedi legge Fini sulle droghe o la proposta Cirielli in materia di recidive e attenuanti generiche. Lo stesso Cirielli e altri di An hanno presentato anche una proposta per modificare l’articolo 27 della Costituzione, al fine di rafforzare la funzione esemplare, simbolica e retributiva della pena a discapito di quella risocializzante e rieducativa).

Contrastare queste logiche di tolleranza zero (peraltro a senso unico), rinvigorire il sistema delle misure alternative, rendendole effettivamente alternative e non circuito parallelo a quello della detenzione, non deve farci dimenticare che altrettanto importante è mantenere alta l’attenzione per migliorare le condizioni di vita nelle prigioni, per chi comunque è costretto a rimanervi. E abbiamo visto che sono tanti.

Perché c’è anche questo rischio: da anni parliamo di indulto, di misure alternative ma intanto la situazione nei penitenziari è peggiorata sempre di più e c’è sempre meno informazione al riguardo, perché c’è un’opacità crescente fatta da violenze, autolesionismo, negazione di diritti, rotta solo dagli sforzi delle associazioni e dei volontari.

Non se n’è accorto quasi nessuno, ma dal 18 aprile 2004 è in vigore una nuova legge (approvata in quattro e quattr’otto, in sede legislativa) voluta dal governo sulla censura: ora non solo l’autorità giudiziaria, ma anche il direttore di un carcere o un semplice agente di polizia penitenziaria potranno in certi casi controllare, limitare e trattenere la corrispondenza di tutti i detenuti per un periodo massimo di sei mesi, prorogabile di tre mesi in tre mesi.

È uno dei tanti indizi del degrado della situazione e della quasi totale assenza di attenzioni e di informazioni su ciò che succede nelle carceri.

Se è necessario e doveroso umanizzare la galera e modernizzare la pena, altrettanto lo è cercare di immaginare qualcosa di profondamente diverso, provare a immaginare che sia possibile una prospettiva in cui il carcere non sia il punto centrale di ogni lacerazione sociale. Liberarsi della necessità del carcere, si è detto e provato a fare anni fa.

Prospettiva che, specie in Italia e specie di questi tempi, può spaventare, apparire sovversiva. Eppure, a ben guardare non è particolarmente diversa dalle sollecitazioni sui temi della pena venute ad esempio dal cardinal Martini ("La carcerazione deve essere un intervento funzionale e di emergenza, quale estremo rimedio temporaneo ma necessario per arginare una violenza gratuita e ingiusta") o dal pensiero del gesuita Eugen Wiesnet, un teologo austriaco morto 20 anni fa, sul superamento della visione retributiva della sanzione penale per una "giustizia del primo passo" che, seguendo il solco profondo della Sacra Scrittura, rimetta saldamente al centro il recupero della relazione con il reo in una prospettiva di riconciliazione. Il suo libro Pena e retribuzione – La riconciliazione tradita è dedicato a un ragazzo di 19 anni che, dopo tre anni di carcere, tornato al suo villaggio si impiccò per la disperazione.

Abolire la disperazione e la disumanità della reclusione vuol dire superare la distrattamente feroce pigrizia con la quale le società non sanno immaginare un modo diverso per difendersi dal crimine.

Prima o poi, sono convinto, ci si arriverà. Forse, solo allora la parola giustizia cesserà di essere una parola terribile, come l’ha definita Saveria Antiochia, madre di un poliziotto ucciso dalla mafia. Una parola e un sistema che sanno essere estremamente inflessibili con gli esclusi, i poveri, gli immigrati, i tossicodipendenti, quanto comprensivi e compiacenti con i più forti e garantiti. Parlare di misure alternative dovrebbe anche significare parlare di un’alternativa a questa giustizia e a questo carcere.

 

 

 

Una riflessione sulla giustizia riparativa

Ma può un percorso interiore, quale è la maturazione della scelta di riparare ad un danno, restare sincero quando in gioco c’è la qualità della pena da espiare?

 

di Stefano Bentivogli

 

La normativa vigente sull’affidamento sociale include, tra le varie prescrizioni, l’obbligo per il condannato ammesso alla misura alternativa di svolgere un’attività in favore delle vittime del reato. Allo stesso obbligo soggiace il detenuto "beneficiato" dalla sospensione condizionata della pena (il cosiddetto indultino). Questa prescrizione rientra in quella che viene definita attività riparatoria e tende a portare chi ha commesso un reato a completare il suo percorso di riabilitazione mediante un’attività diretta a riparare il danno arrecato.

Nella gran parte dei casi, non essendo possibile per vari motivi interagire con la vittima, tutto si risolve con la prestazione di un’attività, spesso definita di volontariato, di utilità sociale. Tutta la questione potrebbe sembrare densa di significato e lineare. Se tuttavia la si cala nella realtà penale, non possono non sorgere alcune perplessità.

Una prima - se vogliamo "banale", ma che rispecchia il comune sentire dei detenuti - è che una pena, comunque, la si sta già scontando; e secondo logica o più modesto buon senso dovrebbe provvedere già quella, a risarcire il danno (non per nulla si usa comunemente dire: "… scontata la pena, ho saldato il mio debito"). Parrebbe del resto confermare quest’impostazione il fatto che, se una pena viene scontata totalmente in carcere, nessuno si preoccupa di condurre la persona che ha commesso un reato a svolgere attività riparatorie nei confronti delle sue vittime.

L’obbligo a svolgere questo genere di attività, ormai definite nell’uso comune "di volontariato" (ma che senso ha, un volontariato per sua natura coattivo?), sembra quindi, in buona sostanza, più che altro un prezzo da pagare in cambio di un notevole miglioramento della qualità della pena da espiare. Ma anche vedendola in questo modo, non tutto è poi così lineare: l’affidamento per i tossicodipendenti, infatti, quasi mai include l’obbligo ad attività riparatorie e, sicuramente, chi è ammesso alla detenzione domiciliare ne è sempre esentato.

Viene anche da chiedersi quale dovrà essere la posizione di chi continua a dichiararsi innocente pur essendo in esecuzione della pena. Proviamo ad immaginare - e qui parliamo di code statistiche, d’accordo, ma in linea di principio non c’è "coda" che tenga - il caso in cui in cambio di un affidamento in prova si chieda di risarcire una vittima che il condannato non riconosce tale, in quanto si dichiara innocente e libero quindi di ogni responsabilità e colpa nei suoi confronti. Nell’ipotesi che il processo venga sottoposto a revisione, e si accerti poi una verità diversa dalla colpevolezza del condannato, la situazione di quest’ultimo si capovolgerà, trasformandolo da reo a vittima di un giudizio errato, tant’è che lo Stato sarà chiamato a risarcirlo. Ebbene, a un detenuto in questo tipo di situazione si può onestamente chiedere - come conditio sine qua non per essere ammesso all’affidamento in prova - di assumersi una colpa che non riconosce per propria e di compiere un’azione riparatoria nei confronti di una persona che pertanto non può riconoscere come "sua" vittima?

Ma forse la perplessità maggiore è un’altra: può un percorso interiore, quale la maturazione della scelta di riparare ad un danno, restare sincero quando in gioco c’è la qualità della pena da espiare? Sulla scia di questo quesito, occorre estendere la riflessione anche a quanto è previsto nell’art. 27 del Regolamento Penitenziario dove - ed è ribadito anche in una recente circolare del D.A.P. sulle attività trattamentali - diventa centrale nell’osservazione della personalità del detenuto la revisione critica dei comportamenti illegali. La stessa revisione che è, poi, parte integrante e decisiva del documento di sintesi sul detenuto, al punto che spesso - se non dichiarata esplicitamente - diventa un ostacolo insormontabile alla concessione dei benefici e delle misure alternative.

In questi termini quello che dovrebbe essere un percorso di maturazione del detenuto, condotto in maniera educativa e consapevole, rischia di tramutarsi in un atto strumentale, dove la sincerità - data la posta in palio - viene facilmente meno. I tempi per una revisione critica, che resta comunque un percorso interiore, non coincidono inoltre necessariamente con i termini di legge per l’accesso a benefici e misure alternative. Quindi si ritorna, imponendo obblighi e tempi, al rischio di banalizzazione, alla possibilità di trasformare un momento educativo in una piccola commedia che poco serve ai magistrati, meno agli operatori penitenziari e sicuramente niente a chi ha commesso un reato.

Forse al condannato, più che compiere atti pubblici di redenzione, serve espiare la pena in condizioni che facilitino il suo percorso interiore di maturazione, in un ambiente dove è seguito ed aiutato a stare meglio. Quindi in un carcere ben lontano da quello odierno; o meglio ancora, dove possibile, con misure alternative alla detenzione che forse andrebbero sostenute ed incoraggiate comunque, come scelta di civiltà e di crescita culturale.

 

 

 

Misure alternative quanto sono efficaci?

L’"altro carcere", in Italia, sovrasta nei numeri il "vecchio carcere". Eppure non esistono ricerche sui risultati che i benefici producono in termini di sicurezza sociale

 

Intervista a cura di Marino Occhipinti

 

Le misure alternative alla detenzione servono davvero a reinserire i detenuti nel tessuto sociale, oppure sono soltanto una scorciatoia per arginare il sovraffollamento delle nostre carceri? Lo abbiamo chiesto al professor Massimo Pavarini, docente di Diritto penitenziario all’Università di Bologna.

 

Professore, può farci una panoramica delle misure alternative alla detenzione in Italia, in termini numerici?

Tra misure alternative dallo stato detentivo e misure alternative dallo stato di libertà, e limitandoci ai soli affidamenti in prova, alle detenzioni domiciliari e alla semilibertà, dovremmo avvicinarci alle 25mila unità. Teniamo poi conto che per effetto perverso della legge Simeone - Saraceni, oggi le esecuzioni sospese superano il numero di 80mila. E se vogliamo aggiungere le sospensioni condizionali della pena, arriviamo a contare circa 180mila pene sospese. Insomma: l’"altro carcere" ha ormai dimensioni più ampie del "vecchio carcere".

 

Qual è l’efficacia e la funzione sociale di queste misure?

L’interrogativo sull’efficacia dell’"altro carcere" rispetto alla funzione rieducativa non trova una risposta pronta ed esauriente. Posso solo dire: purtroppo non lo so. Per rispondere scientificamente a questa domanda dovrei avvalermi di ricerche a livello nazionale in cui siano messi a confronto i tassi di recidività di coloro che godono di benefici penitenziari rispetto a chi non ne gode, a parità di ogni altra variabile statisticamente significativa. E in Italia ricerche di questo tipo – in effetti difficili e costose – semplicemente non esistono. In altri paesi invece, come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, studi del genere sono stati fatti. Certo, non tutti convincenti e del medesimo livello, ma esistono. Posso però dire che le ricerche migliori pervengono a conclusioni che inducono al pessimismo: non esistono prove scientifiche che il fatto di aver goduto di una qualche misura alternativa riduca il rischio di recidività rispetto a un campione di detenuti comparabile che non ne abbia invece fruito.

 

Le persone ammesse alle misure alternative alla detenzione sono sufficientemente supportate dai Servizi sociali e dagli altri organi preposti al buon funzionamento delle misure applicate?

Qui la risposta è scontata e secca: no, assolutamente no.

 

Secondo lei, quali rimedi giuridici, culturali e sociali potrebbero essere adottati per migliorare la situazione?

In astratto potrei indicare mille soluzioni. In concreto invece – cioè politicamente – non ci sono rimedi, per la semplice ragione che il sistema politico non è interessato, se non appunto a parole, a perseguire lo scopo del recupero sociale dei detenuti. Piaccia o non piaccia, questa è la verità. Oggi, in Italia, i percorsi di alternatività operano solo al fine di ridurre il sovraffollamento carcerario. Tutt’altra questione, invece, è domandarsi se lo scopo dell’inclusione sociale dei detenuti e dei condannati attraverso le pratiche trattamentali – laddove questo scopo sia realmente perseguito – sarebbe oggi in grado di raggiungere obiettivi di efficienza. Io, personalmente, ne dubito. Ma so che altri la pensano diversamente. Ritengo che oggi il governo delle eccedenze, all’interno delle necessità strutturali imposte dalla globalizzazione, non consenta di implementare politiche di inclusione sociale, ma solo di produrre ulteriore esclusione. Questo, se vogliamo essere realisti. Se poi vogliamo sognare… Certo, un domani le cose potrebbero anche cambiare. Ma nei tempi brevi ne dubito. Dei tempi lunghi, come diceva un famoso economista inglese, non sono particolarmente interessato, perché saremo già tutti passati nel mondo dei più.

 

Ci sono parti del nuovo regolamento dell’Ordinamento Penitenziario, modificato nel 2000, che dovrebbero essere ulteriormente riviste? E poi, pensa che nelle cosiddette attività trattamentali ci sia qualcosa che andrebbe modificato?

Certo, riforme cosmetiche o di sola ortopedia tecnico-giuridica si possono sempre avanzare. Io stesso non mi sono mai sottratto a questo esercizio per mettere a posto la coscienza cattiva di chi, sulla pelle dei carcerati, ha finito per garantirsi una qualità di vita non proprio disprezzabile. Lo diceva anche Marx, che nella ricchezza prodotta dalla criminalità bisognava includere gli stipendi dei professori universitari di diritto penale e i diritti d’autore dei manuali di diritto penitenziario. Ma appunto: riforme cosmetiche e nulla di più. E di buone intenzioni è lastricata la strada, come quella che porta all’Inferno.

 

Legge Simeone - Saraceni, numero 165/1998

Varata nel 1998, al termine di un lungo iter parlamentare, consente ai condannati che si trovano a "piede libero" (e hanno una pena inferiore ai tre anni) di poter essere ammessi all’affidamento in prova ai Servizi sociali senza dover entrare in carcere, sempre se sono in possesso di determinati requisiti: una casa, un lavoro, etc. Per i condannati tossicodipendenti il limite di pena per poter essere ammessi, come del resto succede per l’affidamento "normale", è di quattro anni.

 

 

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