Lavoro fuori

 

La Libera Bottega dell’Arte della "Soligraf"

Coop. sociale a r.l.

Nella Casa di Reclusione di Opera, un progetto di trasformazione del carcere-contenitore in carcere-laboratorio, con gli scalpellini che "rifanno" il Duomo di Milano

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Intervista a Lodovico Mariani, responsabile delle Unità produttive della Cooperativa Soligraf di Melegnano.

 

Ci parla della Cooperativa Soligraf, e cioè quando e come nasce e dove svolgete la vostra attività lavorativa?

La Cooperativa sociale Soligraf è una cooperativa di tipo B che ha sede a Melegnano ed è attiva all’interno del Carcere di Milano-Opera. La Cooperativa nasce nel 1995, ed è strettamente legata all’Associazione di volontariato "Il Bivacco", che si occupa, dal 1987, dell’accoglienza dei permessanti provenienti principalmente dalle carceri lombarde, che non hanno altra possibilità. Ovviamente, dall’esperienza dei permessanti, le stesse persone hanno pensato di dare vita ad una realtà produttiva, un qualcosa in più.

 

Con quali lavori avete iniziato?

Fondamentalmente e tradizionalmente l’attività era quella di stampa. Il nome Soligraf richiama appunto la stampa; il lavoro si sviluppava nella tipografia interna al carcere, un lavoro oramai andato perduto a causa di varie difficoltà: mancanza di commesse, macchinari obsoleti, la non competitività nelle gare di appalto vista l’impossibilità di ottenere prezzi concorrenziali sugli acquisti delle materie prime come la carta, e per ultimo la rigidità della struttura penitenziaria.

Attualmente nel laboratorio della stampa ci occupiamo dell’obliterazione delle ricette mediche della Regione Lombardia, su commessa del Consorzio CSC, attività oramai consolidata che costituisce uno dei capisaldi della Cooperativa.

 

Ma una volta che gli enti ed i privati che vi forniscono questo tipo di lavoro si saranno automatizzati, non sarà un’attività a rischio di estinzione?

No, perché si tratta di una questione legale. Le ricette devono obbligatoriamente essere cancellate per evitare che tornino in circolazione e vengano riutilizzate, vere e proprie truffe, quindi è un lavoro che, a meno che non scompaia la ricetta medica, di sicuro non verrà meno. Le ricette non si possono neppure distruggere perché vanno conservate come prova per cinque anni, e solamente dopo vanno distrutte, ma nel frattempo è necessario renderle immediatamente inutilizzabili. Per tale scopo abbiamo delle macchine da stampa degli anni ‘50, che si sono rivelate essere le più adatte a questa lavorazione, che effettuano una zigrinatura di colore verde sul fronte e sul retro della ricetta.

 

Di cosa si occupa all’interno della Cooperativa, qual è il suo incarico?

Attualmente sono il responsabile delle Unità produttive: come Soligraf abbiamo quattro lavorazioni diverse, io sono il collegamento e mi occupo di tutti i rifornimenti e di gestire i lavoratori. Un anno fa è partito un progetto con la legge 59/92, che è la legge sui finanziamenti delle cooperative, il fondo del 3% degli utili che viene poi utilizzato per finanziare lo sviluppo cooperativistico. Abbiamo presentato un progetto che si chiama "La Libera Bottega dell’Arte", indirizzato alla formazione di detenuti per la durata di 454 ore, così da arrivare alla creazione di una nuova cooperativa: Arti@Mestieri. La nuova cooperativa, formata prevalentemente da detenuti, ha da alcune settimane iniziato a gestire, con il sostegno di Soligraf che è socio sovventore, la produzione ed i laboratori della pietra e del legno. A tale risultato si è potuti arrivare grazie all’istituto di formazione Galdus, in collaborazione con il quale negli anni passati sono stati realizzati corsi di formazione, soprattutto nell’ambito della lavorazione della pietra.

 

Insomma avveniva la formazione ma di fatto i detenuti non lavoravano…

Esatto, però quelli che dimostravano migliori attitudini e che non venivano trasferiti venivano ripresi nell’edizione successiva, perché soprattutto per quanto riguarda la lavorazione della pietra il lavoro non è immediato da apprendere, ci vogliono anni di tirocinio. Attualmente le persone che lavorano alle dipendenze di Soligraf hanno delle buone competenze, ma in questo campo c’è comunque sempre da imparare.

 

Cosa fanno, materialmente, come lavoro?

Abbiamo una commessa che è il nostro fiore all’occhiello: la collaborazione con la Veneranda Fabbrica del Duomo, che ha creduto nel nostro progetto e che quindi ci sostiene passandoci questi lavori. Ci vengono consegnati pezzi del Duomo usurati, che sono ormai da sostituire, e pezzi di marmo di Candoglia - il marmo con cui tutto il Duomo è costruito -, che i nostri scalpellini devono riprodurre fedelmente, perché venga poi posizionato sul famoso monumento. Questa è la nostra certificazione di qualità, e quando ci proponiamo mettiamo subito avanti questo nostro biglietto da visita.

 

Quante persone sono impegnate in questa attività?

Dunque, attualmente nella lavorazione della pietra sono impegnate cinque persone, assunte dalla neonata Cooperativa Arti@Mestieri. Altre cinque, anch’esse assunte, lavorano nel laboratorio del legno.

 

Con quali tipi di contratto assumete i vostri dipendenti?

Sono tutti assunti con il Contratto Collettivo Nazionale delle Cooperative sociali, perché questa è la nostra politica, che viene applicato a partire dal presidente fino allo scalpellino, con tutti i diritti del lavoro a tempo indeterminato. Tre degli scalpellini sono assunti al terzo livello, in ragione della loro maggiore capacità, gli altri sette al secondo livello, con contratto a tempo indeterminato.

 

Insomma, almeno sotto questo aspetto, il fatto di essere in carcere e di lavorare in carcere non cambia la situazione rispetto a chi è fuori. Quante ore settimanali effettuano i detenuti, tenendo conto degli orari di "apertura" degli istituti di pena?

Hanno un contratto part-time di 20 ore settimanali, perché tra discesa, perquisizioni e quant’altro, più di quello non riescono a fare. Ferro e pietra sono materiali pesanti e le ovvie esigenze di sicurezza, abbinate alla burocrazia, ogni tanto complicano l’accesso in carcere, però poi rientra la normalità e si va avanti.

 

Gli sgravi e gli incentivi della legge Smuraglia vi aiutano in qualche modo?

Si, certamente, noi utilizziamo in pieno la legge Smuraglia, che è un bell’incentivo, visti i tempi e le complicazioni burocratiche che ci possono essere e che quindi rallentano per forza. Senza la legge Smuraglia avremmo dovuto rinunciare alle regolari assunzioni per utilizzare strumenti diversi come il lavoro a cottimo o il volontariato, penalizzando i rapporti di lavoro che così invece sono normali e rendono normali anche le motivazioni dei detenuti. In questo modo si instaura un reale rapporto lavorativo, che non ha nulla di caritatevole e non comporta le implicazioni del "noi siamo i bravi ragazzi che entrano in carcere", ma dà la possibilità di collaborare, lavorando assieme sullo stesso piano.

 

Parlava di quattro lavorazioni diverse. Quali sono le altre, oltre alla pietra? E da chi avete lavoro?

Abbiamo un laboratorio del legno, ed uno di stampa, di cui abbiamo già parlato. Il laboratorio del legno è stato attrezzato con tutti i macchinari necessari a realizzare una produzione artigianale di ottima qualità.

Per ora abbiamo piccole commesse che noi chiamiamo "parentali" ed "amicali", però ci stiamo inserendo e siamo alla ricerca di commesse più strutturate, come ad esempio dall’Amministrazione Penitenziaria e dalla Curia Arcivescovile. Non sono ancora concluse ma stiamo cercando di trovare possibilità di collaborazione in questo senso; sembra che le risposte siano buone e dovremmo avere buone possibilità di riuscita.

L’ultima attività è un laboratorio di lavorazione artistico artigianale del ferro che sta prendendo le mosse in questi giorni, con la parte formativa affidata ad un fabbro ferraio. Tale attività è stata avviata in convenzione con il Comune di Milano e coinvolge 6 persone detenute, che attualmente fruiscono di una borsa lavoro. Da una parte la lavorazione artistica e dall’altra una carpenteria di medie dimensioni. Per questa seconda attività abbiamo già un rapporto con un’azienda con la quale, entro poche settimane, cominceremo i primi test di lavorazione, quindi il laboratorio del ferro ha già un suo canale lavorativo e la sua autonomia, un buon futuro.

 

Ma il senso del vostro impegno e delle vostre iniziative è finalizzato esclusivamente ad offrire qualche opportunità lavorativa oppure avete anche intenti diversi e più profondi?

Il senso delle nostre iniziative fa parte di un progetto di trasformazione del carcere-contenitore in carcere-laboratorio che, con attività di progettazione, formazione, volontariato e cooperazione sociale, dia alla detenzione un valore di reale risarcimento e di concreta opportunità di vita. Tutto ciò che è costruzione di percorsi alternativi ad un carcere di puro isolamento e di pura dissuasione, contribuisce a costruire una vera prospettiva della pena. In qualche modo vogliamo attivare un "percorso formativo allargato", non finalizzato alla sola costruzione di specifiche prestazioni professionali, ma in senso generale a ricercare una cultura del lavoro e, in qualche modo, una cultura del sociale.

 

Percepisco tanto entusiasmo, ottimismo e voglia di fare. Ma lei come è arrivato in carcere, anche se da esterno?

Come ci si avvicina a questo mondo?

Ho conosciuto Soligraf lo scorso anno, e fino a pochi mesi fa stavo per intraprendere la carriera di commercialista nel mio paese. Un po’ di differenza, è vero, un bel salto, ma stavo cercando di lavorare nell’impresa per scelta, desiderio e precisa volontà. Sono arrivato tramite una mia amica che conosceva questa grande famiglia, la Soligraf e l’Associazione Il Bivacco che lavorano assieme e si sostengono. Difatti è nata anche una cooperativa di tipo A di servizi alla persona, che si chiama Il Bivacco Servizi, per meglio supportare e accompagnare la persona da un punto di vista psicologico ed educativo nel suo percorso di reinserimento lavorativo sociale e familiare. Si è sentita l’esigenza di dare una struttura migliore proprio per cercare di fare quei percorsi integrati, per offrire si il lavoro ma anche una casa, un sostegno alla persona che sia il più completo possibile, e in questo la sinergia tra Soligraf e Il Bivacco è massima.

 

Qual era la sua idea dei detenuti e del carcere prima di entrarci e come si è modificata, in meglio o in peggio, adesso che ha conosciuto direttamente le persone?

Mah, sinceramente conoscevo molto poco il carcere, era un mondo che forse sentivo anche molto lontano. Non mi ero mai molto interessato, e ovviamente avevo qualche pregiudizio, invece quando mi sono trovato a lavorarci, con i detenuti, ho trovato persone normali con a volte un po’ di entusiasmo in più, a volte con un po’ di depressione in più, ma come se ne incontrano tutti i giorni.

Sinceramente, rispetto alle persone che conoscevo e con cui collaboravo prima, mi trovo molto meglio e sono molto più contento. Preferisco sicuramente i detenuti ai piccoli commercianti di paese ai quali tenevo la contabilità, questo è garantito.

 

Speriamo che l’intervista non la leggano proprio loro…

Ma lo sanno, glielo ho anche detto nel momento in cui mi sono dedicato solamente alla Soligraf ed ho abbandonato la precedente carriera. E mi creda, non sono assolutamente pentito della scelta.

Il buon raccolto dei detenuti

 

Da un paio di anni alle porte di Roma è nata una piccola azienda agricola. È sorta al posto di alcune pietraie ed è gestita da alcuni detenuti, abilmente coordinati dall’agronomo Rodolfo Craia, il padre e l’anima del progetto. Quando nel 1998 venne chiuso il carcere di Pianosa, Craia, che lavorava come tecnico agrario nell’azienda di quella struttura, venne trasferito a Velletri.

Forte dell’esperienza con i detenuti dell’isola l’agronomo iniziò a guardarsi attorno, e quando gli dissero che lo Stato spendeva 20 milioni, naturalmente di vecchie lire, solamente per tagliare le erbacce che crescevano attorno alla struttura detentiva, presentò un progetto secondo il quale, con la stessa cifra, si sarebbe potuto piantare un frutteto.

L’allora direttore acconsentì e iniziò la scommessa di Craia e dei suoi "ragazzi".

La piccola azienda agricola segna una svolta con l’arrivo di un enologo finito nei guai, Marcello Bizzoni, proprio quando c’era bisogno di qualcuno che si prendesse cura dei vigneti e della cantina.

Prima delle disavventure giudiziarie Marcello gestiva un’azienda capace di fatturare fino a 12 miliardi di lire all’anno: senza pensarci due volte si getta a capofitto nel lavoro ed ora l’azienda, quella del carcere, produce 17 mila bottiglie all’anno di solo vino, oltre a tutto il resto e con la previsione di incrementare ulteriormente le varie produzioni.

La storia di Marcello e dell’azienda agricola ci hanno incuriosito, così gli abbiamo scritto per saperne di più: ecco la risposta.

 

Velletri, dove i detenuti hanno trasformato le pietraie dentro e fuori il carcere in giardini coltivati e producono olio e vini doc

 

A cura di Marcello Bizzoni

 

Storia di un industriale enologico, ora "Capo cantina" nel carcere di Velletri

 

Io, ex industriale enologico, alla soglia dei 40 anni ed all’apice della vita privata e professionale, sono stato costretto (12 anni fa) a fare i conti con "l’usura legalizzata" di alcune banche, tanto da essere erroneamente indotto a commettere reati amministrativi per cercare di uscirne.

I risultati li potete immaginare.

Ho cercato di avviare attività in Brasile ed in Africa, ma la fretta ed il desiderio delle mie figlie di avermi in Italia, mi hanno spinto a costituirmi prima del previsto.

Convinto che i buoni propositi sono portatori di positività, appena in carcere vengo chiamato dall’agronomo Rodolfo Craia, il quale mi spiega che è in costruzione una cantina e chiede la mia disponibilità ad avviarla ed insegnare ad altri detenuti il mestiere del lavorare.

Essendo io enologo, credo di avere ricevuto una mezza grazia; infatti, dopo otto mesi ero in piena vendemmia, usufruendo del beneficio dell’articolo 21.

C’era molto scetticismo attorno a me, a parte Craia, del resto subito svanito quando, alla presentazione del Novello ed all’inaugurazione della cantina, avvenuta il 30 novembre 2002, tutti stupiti, hanno potuto degustare alcuni vini, ancora acerbi ma che già facevano presagire la futura buona qualità, tanto da essere recensiti nella rivista "Il mio vino" di giugno 2003.

L’agronomo Craia, dopo aver dismesso l’azienda agricola di Pianosa, si è trasferito qui a Velletri e, con l’assenso dell’allora direttore dottor Luigi Magri, ha trasformato le pietraie dentro e fuori il carcere in giardini coltivati, con il solo intento di aiutare con il lavoro i detenuti, come del resto previsto dalle vigenti leggi e disposizioni, non senza suscitare delle contrarietà in quanti vogliono i reclusi relegati dietro una "grata" di ferro.

All’interno del muro di cinta ci sono due serre, di cui una produce ortaggi per il consumo dei dipendenti e l’altra è stata oggi trasformata per produzioni idroponiche, cioè in assenza del classico terreno.

Ci sono inoltre 1000 vitigni di uva da tavola, Merlot e Cabernet, ed un ettaro di ogni tipo di frutta: ciliegie, pesche, susine, albicocche, cachi, fichi, pere, mele, di diverse varietà per avere continuità nel raccolto. Poi abbiamo 30 arnie che producono un ottimo miele ed appezzamenti ad uliveto, dando lavoro a circa 10 detenuti.

All’esterno, lungo il muro di cinta, dove sono ubicate la cantina ed il frantoio, ci sono 2/3 ettari con molti ulivi e vigneti di Sangiovese, Merlot, Cabernet, Trebbiano e Malvasia bianca e rossa, con impianto di fertirrigazione. Gran parte di queste uve sono state impiantate questo inverno da me, Cesare e Luigi, tutti in articolo 21.

Praticamente io, con la qualifica di Capo cantina, coordino tutto il lavoro, anche in virtù del titolo di studio; Cesare è esperto in meccanica, quindi ripara tutto e di più!; Luigi, che forse ci lascerà presto, è il nostro trattorista e "zappatore", anche se naturalmente ci avvicendiamo nei lavori!

Attualmente produciamo dell’eccezionale olio, che più extravergine non si può!, e 6 ottimi vini: Novello IGT rosso, Velletri DOC bianco, rosso e Barricato (condizionato in Barrique di rovere francese), e vino da tavola bianco e rosso.

Dall’interno escono quindi olio, vini, frutta, ortaggi, olive in salamoia, fragole, pomodori freschi ed in barattolo, miele, e l’agronomo sta ora allestendo un opificio di confettura per trasformare la frutta invenduta.

Il mio stipendio è di circa 650 euro lordi al mese perché sono inquadrato nella categoria A, mentre per gli altri è leggermente inferiore.

Tra i miei compiti c’è anche quello di coordinatore alle vendite, visti i miei trascorsi, ma restrizioni in atto non mi consentono di avere contatti telefonici con il mondo imprenditoriale esterno, nonostante che precedentemente ci fosse concesso l’uso del telefono pubblico esterno e di fare i colloqui nell’area del parcheggio esterno.

Il nostro è uno strano articolo 21: a differenza degli altri lavoranti abbiamo solo il "privilegio" di non avere la sorveglianza diretta, per il resto è quasi tutto uguale agli altri detenuti, pur vivendo nella sezione dei semiliberi. Noi ora comunque vorremmo fare delle istanze affinché si applichino le normali disposizioni previste per l’articolo 21.

Poiché l’Amministrazione Penitenziaria non è in grado di provvedere alla fatturazione e quindi alla vendita dei prodotti ottenuti, ed in virtù dell’orientamento attuale di delegare strutture private (cooperative) a tale compito con l’onere di assumere e stipendiare i detenuti lavoranti, a fine marzo abbiamo costituito una piccola Cooperativa Onlus, quindi senza fini di lucro.

A breve (speriamo!) ci dovrebbe essere la firma della convenzione con l’Amministrazione del carcere di Velletri, con la quale la cooperativa gestirà la cantina, assumendosi l’obbligo di avviare al lavoro e stipendiare dei detenuti. La convenzione negli anni venturi si allargherà su tutta l’area agricola, comprendendo quindi tutte le produzioni.

È questa l’unica strada di speranza per tutti noi, o per quei pochi fortunati, per un futuro veramente rieducativo e apportatore di rinnovata autostima, di cui per forza di cose siamo tutti carenti.

Anche quando riuscirò ad usufruire dell’affidamento in prova ai Servizi sociali seguiterò a svolgere questo lavoro, cercando di dare massima solidarietà ed aiuto, puntando sull’educazione al lavoro e sulla qualificazione dell’individuo.

 

Marcello Bizzoni

Casa Circondariale di Velletri

Via Campoleone Km 8.600

00049 Velletri (RM)

Progetto Odòs, che in greco significa "viaggio",

inteso come percorso di cambiamento

Un progetto per il reinserimento lavorativo e sociale dei cittadini-detenuti di Bolzano

 

A cura di Francesco Morelli

 

Gli operatori del Progetto Odós li ho incontrati per la prima volta alla giornata di studi "Carcere: non lavorare stanca", organizzata qui nella Casa di Reclusione di Padova. A grandi linee mi descrissero l’attività che svolgono a Bolzano, che mi sembrò interessante, quindi ci lasciammo con la promessa di riprendere il discorso alla prima occasione.

Dopo un paio di settimane esco in permesso e così possiamo rivederci fuori. Il responsabile del Progetto, Michele Cangemi, non c’è, ma in compenso conosco due "volti nuovi" dell’Odós: Barbara, da poco laureata in legge (all’interno del Progetto cura un servizio di consulenza legale), e Jerry, un utente, ora in sospensione pena e in attesa dell’affidamento ai Servizi Sociali (ma è in attesa anche di qualche vecchia condanna "definitiva", che potrebbe complicare la sua situazione). Poi, naturalmente, c’è Caterina, che si occupa dei progetti educativi individuali in rete con i servizi territoriali.

 

La prima curiosità riguarda il nome del vostro progetto: "Odós". Cosa significa? Perché lo avete scelto?

Caterina: Odòs è un nome greco e significa "viaggio", inteso come cammino, come percorso di cambiamento. Abbiamo scelto di chiamarci così perché il nostro Progetto vuole essere una sorta di trampolino di lancio per restituire l’ex detenuto alla società come cittadino dotato delle risorse necessarie al normale reinserimento, lavorativo e sociale.

 

Ma che cosa siete, formalmente: una Casa di accoglienza, una Associazione, qualcosa d’altro?

Caterina: Non siamo un’Associazione di volontariato (anche se aderiamo alla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia), e l’accoglienza nella nostra struttura è solo uno dei servizi che forniamo, quindi non siamo nemmeno una Casa di accoglienza: noi siamo un’equipe di operatori del Progetto Carcere della Caritas diocesana, progetto finanziato - in piccola parte - con l’8 per mille che i contribuenti destinano alla Chiesa cattolica e, per la maggior parte, con i fondi della Provincia autonoma di Bolzano - Ripartizione Servizio sociale, Ufficio famiglia, donna e gioventù.

 

Com’è iniziata questa vostra esperienza?

Caterina: Il gruppo di lavoro, del quale faceva parte Michele, fin dal 1996 ha cominciato ad elaborare il progetto "Casa dell’ex detenuto", poi diventato "Progetto Odòs". Sempre nel 1996 questo gruppo di lavoro realizzò una ricerca sui bisogni della popolazione detenuta della Casa Circondariale di Bolzano, dalla quale emerse la necessità di un accompagnamento verso l’esterno, di aiuto nel trovare lavoro ma, prima di tutto, di una sistemazione abitativa, perché a Bolzano gli alloggi hanno prezzi proibitivi e spesso chi esce dal carcere ha una famiglia disgregata, non sa a chi rivolgersi per avere un tetto. Così all’inizio del 1999 siamo andati dal responsabile della Caritas di Bolzano e abbiamo ottenuto che ci pagasse l’affitto di un appartamento in città, dove abbiamo aperto la "Casa dell’ex detenuto", con quattro posti letto.

 

E la Provincia di Bolzano, come entra nei vostri progetti?

Caterina: Dopo che abbiamo iniziato ad alloggiare gli ex detenuti si sono presentati altri problemi, dalle richieste di accogliere persone in misura alternativa, alla necessità per tutti gli utenti di rendersi autonomi il prima possibile, quindi di avere un lavoro, un reddito regolare che poi consente anche di cercare un alloggio per conto proprio. Alla Provincia siamo andati assieme alla Caritas e lì abbiamo fatto un chiaro discorso sulla sicurezza sociale: se ci aiutavano a portare avanti il nostro progetto ci sarebbero stati meno disperati in giro per la città, quindi un minor rischio di avere furti nelle case, scippi, e così via. Si vede che siamo stati convincenti, perché questo è il quarto anno che la Provincia sostiene il progetto Odós ed ora abbiamo anche prospettive di crescita, infatti ci stanno ristrutturando uno stabile, dove avremo 15 posti letto.

 

In concreto, la Provincia di Bolzano cosa vi paga?

Caterina: Paga gli stipendi di 7 operatori (5 educatori e 2 operatori notturni), parte delle spese di gestione della struttura, l’attività ludico - ricreativa e, cosa molto importante, delle borse lavoro per agevolare l’inserimento degli ex detenuti nelle aziende della città (grazie alla Legislazione Sociale provinciale).

 

Quindi nel Progetto Odós non ci sono volontari?

C’è qualche volontario, che sporadicamente ci aiuta a organizzare delle attività.

 

Come funziona l’attribuzione di queste borse lavoro? E chi si occupa di mettere in contatto i detenuti con le aziende?

Barbara: Questo è un altro dei nostri servizi. Contattiamo gli imprenditori, soprattutto aziende profit, non le cooperative sociali, e proponiamo loro un incontro, con noi e con la persona che cerca lavoro. Diciamo subito che potranno "provare" questa persona per un po’ di mesi senza dover sostenere alcuna spesa e poi decideranno se assumerla, oppure no. Le borse - lavoro sono di 500 ore, ore che possono essere diluite anche nell’arco di sei mesi ma, addirittura, per gli utenti con difficoltà di inserimento più serie, possiamo arrivare a 1.500 ore, quindi ad un anno e mezzo di formazione professionale totalmente a carico dell’ente provinciale.

 

Aldilà dell’aspetto puramente economico, gli imprenditori si fidano a far entrare in azienda un detenuto, o un ex detenuto?

Caterina: Si fidano nel momento in cui noi facciamo da intermediari, presentiamo la persona, ci teniamo a disposizione nel caso nascano problemi. In questo modo siamo riusciti a sistemare diversi detenuti e, in genere, chi li ha assunti è contento di loro.

 

Quante persone avete "sistemato", fino ad oggi?

Barbara: Solo nel 2002 abbiamo avuto 10 utenti residenziali (in detenzione domiciliare, o ex detenuti) e 13 semiresidenziali (semiliberi, in affidamento). Inoltre ci occupiamo di 6 persone in misura alternativa, organizzando la loro prestazione di lavoro di pubblica utilità sociale, presso la mensa della Caritas di Bolzano. Infine abbiamo avuto contatti con 23 persone, detenute o anche libere, che ci hanno chiesto di poter usufruire dei servizi del Progetto Odós.

 

Ma questi "servizi" sono accessibili a tutti i detenuti?

Caterina: Il vincolo che abbiamo è che i nostri utenti devono essere residenti nella Provincia di Bolzano. Non importa se sono detenuti in altre carceri, andiamo a trovarli dovunque siano, per un primo colloquio. Poi non è detto che accettiamo tutti, perché chiediamo loro la seria disponibilità a fare un percorso con noi.

 

Ci sono mai stati dei detenuti stranieri, tra i vostri utenti?

Caterina: Finora non ce ne sono stati, appunto per il limite rappresentato dalla residenza. L’unica possibilità che vedo, al riguardo, è che qualche straniero si sposi con una donna di Bolzano. In quel caso potremmo accoglierlo.

 

Chi entra nella vostra struttura, deve sottoporsi a un qualche "programma di trattamento"?

Caterina: All’inizio c’è un periodo di osservazione, che di solito dura 15 giorni, e che serve per capire i bisogni e la motivazione della persona. Poi, se vediamo che questa persona è realmente motivata, facciamo, con lei e con i servizi territoriali un progetto individualizzato per il suo reinserimento.

 

Potrebbe anche darsi che questa persona non sia subito "motivatissima"… avrete avuto degli abbandoni, dei fallimenti nel progetto individualizzato che avevate predisposto…

Caterina: Certo, c’è chi non accetta le regole della struttura, chi non è motivato ad alcun percorso di cambiamento. Il fallimento avviene comunque sempre per il "non essere pronto" della persona alla condivisione del progetto, negli aspetti piacevoli e in quelli spiacevoli. Spesso dobbiamo confrontarci con persone che ci vedono in un’ottica, sbagliata, di puro assistenzialismo.

 

Quali altre difficoltà particolari ci sono, nella gestione della vostra struttura?

Caterina: Una delle difficoltà più evidenti è il coordinamento del lavoro in rete con i diversi Servizi territoriali (per il diverso approccio ai problemi delle persone, per linguaggi e mission differenti, etc.)

Alla fine, vorrei che Jerry ci raccontasse un po’ la sua storia, di come è arrivato agli operatori del Progetto Odós…

Jerry: Ho 30 anni e finora, tra vari arresti, sempre per problemi legati alla droga, ho fatto circa un anno di carcere. Sono stato anche in una comunità terapeutica, dove si faceva tanta elaborazione personale, però mancava del tutto in confronto con il mondo esterno. Così non ti puoi preparare davvero al reinserimento. All’Odós sono già entrato, una volta, poi me ne sono andato, perché non mi sembrava adatto a me, oppure ero io che non ero pronto…

Adesso voglio riprovare, anche perché ho visto che altrove faccio fatica a trovare un vero sostegno. Anche la mia famiglia ha preso le distanze... comunque per ora sto facendo il periodo di "osservazione", se va tutto bene vorrei chiedere l’affidamento nella struttura dell’Odós, la preferisco senz’altro alla comunità.

 

Progetto Odós

Avvio: marzo 1999

Responsabile progetto: prof. Michele Gangemi

Sede: Via Druso 76/a, Bolzano - (in preparazione) Viale Venezia 61, Bolzano

Orario: 24 ore su 24

Tel: 0471.203758

Fax: 0471.201093

 

 

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