Lavoro: formazione

 

Può esistere la qualità in carcere?

Un’iniziativa coraggiosa, che ha messo insieme detenuti e operatori a parlare di qualità

 

di Nicola Sansonna

 

Uso tranquillamente il termine "coraggiosa" perché il corso che è appena terminato qui nel carcere di Padova è stato "controcorrente", contro i pregiudizi di chi ragiona attraverso stereotipi.

Ecco la novità: al corso hanno partecipato, "vicini di banco", tutti i rappresentanti dei diversi settori della Casa di Reclusione: educatrici, assistenti volontarie, detenuti inseriti in attività come il TG2 Palazzi, il gruppo Rassegna Stampa, ed io come rappresentante della nostra rivista Ristretti Orizzonti. Ma la novità è che con noi ci sono stati anche alcuni agenti di Polizia Penitenziaria. Personalmente ritengo questo un importante passo avanti verso un’inversione di quegli atteggiamenti basati in larga parte sulla diffidenza reciproca. Naturalmente i ruoli restano ben marcati, ma questo non impedisce di vedere il vicino come persona.

Il corso è stato voluto per ottimizzare i processi lavorativi, e formare persone in grado di individuare, nell’ambito dei rispettivi ruoli e lavori che svolgono quotidianamente, il concetto di qualità, che nasce da una precisa metodologia di lavoro. Si tratta di aiutare a fare delle scelte appropriate dal punto di vista organizzativo, usare al meglio le risorse a disposizione, riuscire a creare un prodotto che risponda ai bisogni di chi lo utilizza (nel nostro caso, di chi lo legge), che sia capace di soddisfare le esigenze espresse dal "cliente".

Quello che viene definito "cliente" va rapportato alla specifica attività che il singolo svolge: nel nostro caso sono i lettori, nel caso della Rassegna Stampa i committenti, per il TG2 Palazzi chi vede i filmati, per gli agenti e per le educatrici siamo noi detenuti i "clienti", e migliorare il servizio significa migliorare il lavoro nei nostri confronti. Significa anche andare oltre ai bisogni espliciti, per individuare quelli latenti, quelli futuri, e da lì progettare una ottimizzazione del "sistema lavoro".

Sono certo che a molti la "mescolanza" delle diverse componenti all’interno del corso non è piaciuta. Qualcuno avrà detto: "Io con gli agenti non avrei frequentato nessun corso", così come qualcuno avrà detto invece: "Io con i detenuti non avrei frequentato nessun corso". E allora? Pensate che sia più utile lasciare che il clima di reciproca indifferenza continui all’infinito? Noi pensiamo di aver fatto una cosa giusta, sicuramente innovativa, pur restando ben consci del luogo in cui ci troviamo. Forse è questo il modo migliore per guardarci come persone anche qui dentro, perché comunque siamo destinati a "rientrare" nella società anche noi.

Si lavora in carcere, ma i clienti stanno fuori 

e si aspettano prodotti di qualità

Il punto di vista di Rossella Favero, "stimolatrice" del Progetto Qualità in carcere

 

Rossella Favero, responsabile del gruppo Rassegna Stampa al Due Palazzi, è stata in un certo senso la "stimolatrice" del Progetto Qualità in carcere. Le abbiamo chiesto come questo concetto possa convivere con il carcere.

 

Rossella Favero: Il concetto e le metodologie della Qualità sono, con l’adeguamento alle normative europee, divenuti da una parte una sorta di obbligo per le aziende, dall’altra un’occasione per rivedere e migliorare l’organizzazione del lavoro. Nel settore pubblico ci sono molte resistenze all’applicazione di queste metodologie, perché questo comporta mettere in discussione abitudini ormai sedimentate.

Introdurre in carcere i processi della Qualità significa "vessare" i detenuti? No, semplicemente significa riflettere, in modo analitico, su ciò che insieme si sta facendo.

Per me l’esigenza è nata in Rassegna Stampa, attività che è culturale, di formazione e di produzione di un servizio. I detenuti, salvo qualche piccola borsa lavoro o sussidio, partecipano a titolo di volontariato, per socializzare, imparare… Però si "produce un servizio", ci sono convenzioni con enti. Nasce allora la necessità di metterci nei panni del "cliente", di pensare che ciò che fai è un servizio per qualcuno e quindi deve corrispondere a certi requisiti, di cercare di mandar fuori un’immagine che sia positiva. Ecco quindi la riflessione sull’organizzazione del lavoro, anche sulle singole e minute cose, che sono lo specchio della qualità del nostro lavoro.

Avevo all’inizio la preoccupazione che potesse sembrare una "fissa", di me insegnante ed esterna, mentre invece lo scopo era appassionare tutti alla comprensione ed elaborazione dei processi di Qualità. Come insegnante ovviamente so che la riflessione sul proprio lavoro è terribilmente difficile, che si tratti di spolverare un mobile o di scrivere un testo o qualsiasi altra cosa, però penso anche che abbia un valore "educativo", se si può dare un senso positivo a questa parola, che aiuta a crescere.

L’andamento del corso ha rinforzato questa convinzione, perché ha significato proprio riflettere sul procedimento del nostro "lavoro", sui punti critici, su quello che stiamo facendo. Quindi è stato un momento di riflessione collettiva per la Redazione, per il TG e per la Rassegna Stampa.

Chi ha partecipato al corso? Tutte le componenti del carcere, questa è stata la scommessa. Io ci ho creduto molto, perché l’attività del Centro di Documentazione, che è un punto di forza di Padova, è stata possibile in questi anni solo perché c’è stata una collaborazione fra le diverse componenti.

Dico francamente che poi alcuni agenti hanno criticato l’iniziativa e qualche detenuto dopo i primi incontri ci ha detto che non se la sentiva di venire con gli agenti presenti, ma questo penso sia fisiologico, ed è importante che alla fine la maggioranza abbia accettato, anche se poi gli agenti a causa dei turni hanno potuto frequentare solo in modo irregolare.

Il corso ha fotografato la realtà di collaborazione esistente ed è stato un punto di partenza per uno sviluppo della possibilità di collaborare tra componenti solitamente "antagoniste". In questi anni ci si è resi conto che solo da coloro cui compete la sicurezza, cioè gli agenti, possono venire alcune soluzioni logistiche e alcuni suggerimenti essenziali per l’attività. In questo rapporto ognuno si modifica, noi esterni (che abbandoniamo ogni ideologico o romantico modo di porci rispetto alla popolazione detenuta), gli agenti (che partecipano al trattamento), i detenuti (credo sia "rivoluzionario" che accettino di dialogare con gli agenti).

E veniamo all’applicazione pratica: Come sempre accade tra la teoria e l’applicazione c’è un passaggio faticoso. In Rassegna Stampa, anche se piano piano, ma in modo molto produttivo, stiamo facendo le procedure, le famose procedure, settore per settore, del cosiddetto ciclo della produzione. Insomma, stiamo applicando il metodo, e ci piace, anche se si va avanti passo dopo passo. Personalmente ho imparato ad avere uno sguardo diverso sul lavoro mio e degli altri.

Parlano i docenti del corso

 parlateci brevemente di voi, chi siete, di cosa vi occupate...

 

Paolo Piva: Sono laureato in Lettere Moderne e sia durante gli studi universitari che dopo ho fatto vari lavori: il contabile, il libraio, l’assistente domiciliare, l’informatico.

Quando sono arrivato nella scuola ho cercato di non dimenticare completamente le esperienze precedenti, ho tentato e tento di mantenermi curioso.

Da una decina d’anni mi occupo di formazione, prevalentemente rivolta ad insegnanti, in particolare sull’applicazione alla scuola del metodo della Qualità Totale.

Rosanna Chinaglia: Sono laureata in Materie letterarie, precisamente in Letteratura contemporanea presso la facoltà di Magistero dell’Università di Padova. Insegno da diversi anni, sono stata impegnata a vari livelli nelle innovazioni scolastiche, nelle sperimentazioni e nella formazione di altri docenti.

Voglio aggiungere che provengo da una famiglia di commercianti, e probabilmente questo mi ha dato un senso pratico e una attenzione particolare al mondo dell’impresa.

 

Ma come nasce questa vostra specializzazione sulla Qualità?

Paolo Piva: All’inizio degli anni 90 il Ministero della Pubblica Istruzione e Confindustria stipularono una convenzione che li impegnava a collaborare su alcuni fronti tra i quali c’era anche la diffusione del metodo della Qualità nella scuola. A Padova, il Gruppo Giovani di Confindustria organizzò una serie di incontri con le scuole proponendo un percorso sul miglioramento continuo. La mia scuola aderì all’iniziativa e poiché l’argomento mi interessava ed avevo già esperienza come formatore, finii col far parte del gruppo di docenti cui fu affidata la diffusione del Metodo della Qualità.

 

Rosanna Chinaglia: Attualmente insegno lettere al liceo scientifico Einstein di Piove di Sacco, ma insegnavo in una scuola media quando a Padova partì il "Progetto Qualità nella Scuola". Ho seguito per anni i lavori del gruppo Class di Milano come referente della mia scuola, poi ho frequentato per alcuni anni il corso di formazione per formatori e in seguito ho cominciato a fare docenza assieme ad altre persone, tra le quali Paolo Piva, presso le scuole che intendevano avviare il percorso Qualità.

 

Come pensavate fosse il carcere e com’è la parte che avete potuto conoscere in confronto a quello che viene mostrato dai mass media?

Paolo Piva: Uno non sa mai realmente cosa pensare del carcere. Sui mass media se ne parla quando si arriva a condizioni estreme e sfugge la "normalità" del vivere. Avevo cercato di non avere idee preconcette su quanto avrei trovato. Ho ricevuto impressioni positive e negative. Le positive riguardano soprattutto l’incontro con le persone, che ho trovato, a prescindere dalla loro condizione o ruolo (detenuti, agenti, educatrici) motivate e competenti oltre ogni aspettativa. Le negative riguardano il fatto che il funzionamento del carcere è comunque determinato da una struttura burocratica. E che a volte le cose accadono e tu non sai capire perché.

 

Rosanna Chinaglia: Non avevo avuto opportunità di riflettere in modo particolare sulla realtà carceraria prima di questa esperienza. C’è stato un impatto piuttosto duro con la "struttura architettonica": vederla nei film è una cosa, percorrerla dentro è un’altra. Sono stata invece colpita positivamente dalle attività che ho visto svolgersi, dal clima che c’è nelle aule, dalle persone che ho conosciuto.

 

Potete definire in una frase la materia che insegnate?

Paolo Piva: Insegno come, attraverso l’applicazione alla propria struttura di lavoro di una serie di norme internazionali, le ISO 9000, sia possibile garantire la qualità del proprio prodotto, soddisfare il proprio cliente, lavorare in condizioni migliori.

 

Rosanna Chinaglia: E’ l’apprendimento di un metodo per lavorare con più efficienza, con risultati migliori, con più soddisfazione.

 

Qual era la finalità, l’obiettivo formativo?

Paolo Piva: In realtà erano due, da un lato allargare le competenze di un gruppo di adulti, dall’altro offrire indicazioni e stimoli per supportare scelte organizzative rese inevitabili dalla crescita di esperienze quali la Rassegna Stampa, il Centro di Documentazione e le altre attività.

 

Rosanna Chinaglia: Fornire delle conoscenze e dare degli strumenti ad alcuni gruppi impegnati in attività all’interno del carcere per condurre il loro lavoro secondo i criteri della Qualità.

Far conoscere il percorso per la certificazione di Qualità secondo la normativa vigente.

 

Ritenete sia stato raggiunto?

(Risposta congiunta): Quello scolastico senz’altro, perché la partecipazione è stata interessata e i prodotti delle esercitazioni si sono dimostrati di buon livello, superiori alle aspettative. In quanto all’altro, l’organizzazione aziendale, è troppo presto per dirlo, noi speriamo di sì.

 

Quali sono le difficoltà incontrate da parte vostra per svolgere al meglio il vostro compito?

Paolo Piva: Le uniche difficoltà sono state dovute, in realtà, all’essenza del carcere e alla rigidità organizzativa che gli è insita. Devo dire invece che non ho riscontrato una difficoltà che mi aspettavo di trovare, legata alla diversità di preparazione culturale tra il pubblico.

Rosanna Chinaglia: La difficoltà di concludere il lavoro intrapreso e le limitazioni dei tempi.

 

Quali motivazioni pensate abbiano mosso i vostri allievi?

Paolo Piva: Prima di cominciare avevo cercato di "carpire" a Rossella Favero quante più informazioni possibile sulla realtà carceraria e in particolare sulle esperienze di formazione in questa realtà. Ne avevo tratto l’impressione che le motivazioni fossero di vario genere, in parte legate al rapporto tra detenuto e istituzione carceraria, in parte al desiderio di crescita personale.

Quando il corso è partito queste motivazioni sono come passate in secondo piano, anche se non so se effettivamente fosse così oppure se questa sia stata solo una mia percezione. In primo piano è venuto il lavoro che ciascuno svolgeva, e la spinta a migliorarlo.

 

Rosanna Chinaglia: Penso che le varie componenti abbiano avuto motivazioni diverse. Spero che la maggior parte desiderasse migliorare la gestione del proprio lavoro, alcuni forse erano incuriositi da questa certificazione di Qualità di cui tanto si parla, qualcuno potrebbe essere stato interessato da un‘occasione in più di conoscere e avere contatti con la realtà esterna.

Forse sarebbe meglio che ciascuno di voi rispondesse a questa domanda. Io sarei contenta di conoscere le vostre risposte.

 

All’inizio del corso erano presenti in aula educatrici, insegnanti, volontari, personale amministrativo, agenti in servizio interno, detenuti particolarmente impegnati nelle rispettive attività. Qual era la vostra impressione, nel trovarvi di fronte degli studenti così agli antipodi, ma mossi dallo stesso desiderio, migliorare il proprio lavoro, per una crescita complessiva?

Paolo Piva: Si è trattato di un’esperienza coinvolgente oltre le mie aspettative. Confesso che ho faticato a tenere il corretto distacco professionale.

 

Rosanna Chinaglia: Voglio dire subito una cosa: io in aula mi sono sempre trovata bene. Quando facevo lezione con voi dimenticavo il luogo dove mi trovavo ed emergevano soltanto le persone, non nei loro ruoli ma nella loro umanità e nella voglia di sapere. Vi sentivo motivati, ciascuno dal suo punto di vista, interessati a quanto vi proponevo, aperti alla discussione.

Il profumo delle pizze calde al posto degli odori della "casanza"

Ed ora i pizzaioli-detenuti sono già pronti ad avviare una pizzeria in carcere

 

di Elton Kalica

 

Mangeremo presto pizze fragranti, appena sfornate da detenuti-pizzaioli e distribuite nelle sezioni, invase finalmente da profumi "non della casanza"? Pare di sì, e alcuni passi importanti comunque sono già stati fatti, visto che si è appena conclusa con grande successo la prima fase del progetto "Pizza Connection", gestito all’interno della Casa di Reclusione di Padova (ma anche alla Casa Circondariale) dalle associazioni "Art Rock Cafè" e "Margherita 2000". Oltre alla consegna dei diplomi, per l’occasione è stata organizzata una competizione tra gli 11 corsisti detenuti, che si sono superati sfornando ognuno la propria pizza.

La giuria chiamata a decidere era composta da soci dell’Art Rock Cafè, tra cui il vice presidente Stefano Broch, da rappresentanti delle ACLI, da Ornella Favero, caporedattore di "Ristretti Orizzonti", da operatori del carcere, da giornalisti e da un rappresentante dei detenuti stessi (che dovrebbero diventare i primi clienti dei pizzaioli diplomati). Il pubblico comprendeva, oltre ai detenuti e agli agenti, anche educatori, professori e operatori volontari e qualche timida studentessa, tutti coinvolti in una gran quantità di assaggi. In funzione di accompagnamento alla gara si è esibito il gruppo musicale della Casa di Reclusione, la "Extra&Communitarian Orchestra".

La giuria ha eletto vincitore della competizione Gianni Dall’Agnese, che ha conquistato il palato della maggioranza con la sua specialità Viva Mexico, una pizza gigante a forma di sombrero. La medaglia gli è stata consegnata alla fine dal Direttore della Casa di Reclusione, altri premi sono stati assegnati per "La pizza più gustosa", "La pizza con la miglior presentazione", "La pizza meglio cotta". In conclusione una foto di gruppo con decine di sorrisi.

Alla fine, tante sono le impressioni raccolte al volo tra i presenti: Stefano Broch, il vice presidente dell’associazione organizzatrice, soddisfatto del risultato, ci ha detto di aver visto un ordine e una pulizia sorprendenti all’interno dei laboratori: Isabella Polloni delle ACLI, dopo essere stata presente anche alla premiazione del corso organizzato presso il Circondariale, ha sostenuto che ora spera di avere l’opportunità di mangiare "fuori" queste pizze, magari fatte dalle stesse persone di oggi. Un giornalista ha ammesso che, oltre ad aver trovato molto impegno e inventiva da parte dei ragazzi, si è anche divertito un sacco in loro compagnia. Per finire, Cristina, una ragazza che dopo aver fatto un corso di fund-rising è rimasta a fare lo stage con l’Art Rock Cafè, ha spiegato bene le sensazioni che ha ricavato da questa esperienza: "Ho sentito soprattutto quest’atmosfera di contrapposizione, da un lato il freddo del cemento, dei corridoi e dei cancelli, dall’altro, tutte queste persone piene di energie e di voglia di vivere". Entrava per la prima volta in carcere ma confessa che ci ritornerebbe volentieri… come operatore si intende.

Con questo progetto di formazione l’associazione Art Rock Cafè vuole preparare e inserire nel mondo del lavoro i detenuti che sono nei termini per usufruire dei benefici di legge. Ma la prospettiva forse più interessante è quella dell’apertura di una pizzeria, gestita direttamente dai detenuti, all’interno dell’istituto, per offrire le pizze appena sfornate ai detenuti e agli agenti penitenziari. La pizzeria potrebbe diventare così un mezzo per migliorare un po’ il livello della vita (e dell’alimentazione) dentro al carcere.

Riccardo Broch è l’anima del progetto "Pizza Connection", ci lavora da anni, ci crede, crede soprattutto a questa idea della pizzeria in carcere, che è ormai in dirittura di arrivo, dopo i due corsi per pizzaioli appena conclusi. Lo abbiamo intervistato alla fine del concorso tra i detenuti pizzaioli, che ha permesso a parecchi di noi di assaggiare le creazioni dei neo-diplomati.

Come vi è venuta l’idea di creare una scuola di pizzaioli in carcere?

E’ ormai noto come la categoria del pizzaiolo è ben retribuita, quindi abbiamo deciso di insegnare ai ragazzi questo mestiere. Quando abbiamo visto che funzionava, abbiamo pensato di entrare in carcere e insegnare a far le pizze anche ai detenuti che vogliono imparare un mestiere.

 

Parlaci un po’ del vostro progetto

 

Il progetto consiste nel creare una cooperativa di detenuti, gestita dai detenuti stessi e finalizzata a migliorare la loro condizione di vita in tutti i sensi. I detenuti produrranno pizze su ordinazione e le distribuiranno calde ai loro compagni. Man mano che i "vecchi" pizzaioli termineranno la loro carcerazione, noi attraverso i nostri corsi ne prepareremo di nuovi. Contiamo di cominciare l’attività, vale a dire la produzione e la distribuzione delle pizze all’interno dell’istituto, per settembre.

 

Quali prospettive di collocamento lavorativo ci sono per i detenuti da voi formati?

All’esterno ci sono enormi difficoltà a trovare abili pizzaioli: i dati della Camera di Commercio lo confermano, mancano più di 12.000 pizzaioli in Italia, di conseguenza il mercato è veramente recettivo e quindi il pizzaiolo è la professione più ricercata nell’ambito della ristorazione.

Essendo noi un ente di formazione convenzionato con la Confesercenti, abbiamo la certezza di trovare collocamento per tutti - come pizzaioli full-time, part-time, oppure chi vuole può cominciare un’attività in proprio, attraverso la rete di ditte che hanno sostenuto questa scuola di formazione.

 

Allora, i detenuti che oggi hanno finito questo corso potrebbero uscire e lavorare tra poco?

Sicuramente. A tutti quelli che saranno nei termini per uscire, noi cercheremo di trovargli subito una sistemazione lavorativa. In passato abbiamo già dato delle borse di studio ad alcuni detenuti, per proseguire con il corso esterno. Se il magistrato decide che i nostri studenti possono uscire, noi saremo ben felici di aiutarli. Sarebbe una grande soddisfazione per noi vederli lavorare fuori, in fondo è quello lo scopo finale della nostra attività.

 

Un neo-pizzaiolo entusiasta e fantasioso

 

E’ Gianni Dall’Agnese il vincitore del primo premio con la pizza "Viva Mexico", piccante nel gusto e curiosa nella forma, a imitazione di un sombrero. Ecco le sue impressioni a fine corso e da "trionfatore".

 

Come ti è venuta l’idea di partecipare a questo corso?

Ho sentito parlare di questo corso e mi sono entusiasmato. La voglia di apprendere qualcosa di utile mi ha spinto a fare subito la domanda d’iscrizione. Poi hanno fatto una selezione e per mia fortuna sono stato ammesso al corso. Sinceramente mi considero fortunato, perché so che le domande erano tante. Personalmente spero che questa esperienza si ripeta, così altre persone possono avere la mia stessa opportunità.

 

Il laboratorio era abbastanza efficiente?

In cucina abbiamo trovato un ambiente molto attrezzato, pulito e spazioso. I maestri poi sono stati bravissimi, ci hanno insegnato molto e in realtà ci hanno dato davvero un mestiere. Perciò tutto è andato alla perfezione e ora siamo dei veri pizzaioli.

 

Nel vostro gruppo c’erano anche degli stranieri: come è stato lavorare insieme?

Sì, c’erano stranieri e tutti si sono comportati correttamente. E’ stato un bel gruppo, tra tutti noi c’era sempre una forte sintonia, anzi questa è stata anche un’occasione per socializzare. Il corso sarà molto utile anche agli stranieri che avranno la sfortuna di essere espulsi: innanzi tutto perché lavoreranno prima di finire la pena e così guadagneranno un po’ di soldi, e poi perché una volta nel loro paese potranno trovare lavoro come pizzaioli.

 

Molte speranze e aspettative quindi?

Le speranze sono quelle di poter uscire di qui e trovare un lavoro. Stiamo tutto il giorno in branda a fare niente e a guadagnare niente. Adesso ci aspettiamo che ci diano la possibilità di uscire a lavorare in semilibertà oppure in articolo 21, così possiamo mandare anche qualche soldo a casa.

 

Le pizze vincitrici del concorso

 

1- Dall’Agnese Gianni - vincitore assoluto del concorso con la Pizza Viva Mexico: pomodoro, mozzarella, filetto di maiale, peperoncino messicano, salamino piccante (con bordo ripieno)

 

2- Ezeokafor Wilfred Zuby (Nigeria) - vincitore del premio per la miglior cottura con la Pizza Emiliana: pomodoro, mozzarella, funghi misti, salamino, piccante, olive nere, prosciutto crudo

 

3- Sryer Abdelkader (Algeria) - vincitore del premio per la pizza più gustosa con la Pizza Bontà: pomodoro, mozzarella di bufala, pomodorini, porchetta romana a fine cottura

 

4- Boschetti Giorgio - vincitore del premio per la miglior presentazione con la Pizza Tropicana: sciroppo di zucchero di canna, ananas, kiwi, banana, mela, zucchero a velo

 

Gli altri detenuti diplomati sono: Iurlaro Maurizio, El Ghazi Mohammed (Marocco), Cecchinato Alessandro, Toninato Stefano, Bousa Radek (Repubblica Ceca), Elbarhmi Abdelghani (Marocco), Zabeo Michele.

 

 

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