Donne dentro

 

Piccole storie di donne straniere, detenute eppure 

ammesse alle misure alternative

Succede, e anche spesso, a Venezia

mentre in molte altre città si dice: per loro non c’è speranza

 

A cura di Gabriella Brugliera

 

Per gli stranieri in carcere non c’è speranza, pare. Ad "arrendersi" sono, prima di tutto, i volontari e gli operatori stessi, che ormai sono rassegnati al fatto che la legge Bossi-Fini abbia chiuso qualsiasi possibilità. Ma a Venezia, per lo meno, gli stranieri detenuti accedono alle misure alternative, guadagnano, possono mandare qualcosa a casa. Le donne che ci hanno raccontato la loro storia lavorano per la Cooperativa Il Cerchio, nella gestione dei bagni di Venezia. Non sarà una vita come l’hanno sognata, ma almeno i famigliari, nei paesi di origine, ricevono da loro un sostegno, e non è poco.

 

Eva, polacca lavora in regime di semilibertà

 

Da quanto sei in Italia e per quale motivo hai deciso di emigrare nel nostro paese?

Sono in Italia da dieci anni. Ho deciso di venire dopo che avevo trovato, su un giornale polacco, un’offerta di lavoro proveniente dall’Italia. Io avevo bisogno di soldi per pagare la casa in Polonia e, anche se non parlavo italiano, risposi a quell’offerta: si trattava di fare la cameriera in un albergo dell’Alto Adige. Però per entrare in Italia ci voleva il visto e impiegai diversi mesi per procurarmelo: così arrivai solo ad agosto, quando la stagione turistica stava per finire e non c’era più bisogno di me. Io ero arrivata con una valigia e un biglietto di sola andata, senza soldi.

Per fortuna la proprietaria dell’albergo mi diede ospitalità e mi aiutò anche a trovare qualche piccola occupazione, perché potessi tirare avanti fino all’inizio della stagione turistica successiva, quando cominciai a lavorare, in regola, alle sue dipendenze.

 

Quindi, tu eri in regola, con il lavoro, con il permesso di soggiorno. Cosa ti è successo, che ti ha portato in carcere?

Stavo assieme ad un uomo che beveva ed era molto violento, prometteva sempre di cambiare però le cose peggioravano, invece di migliorare, tanto che un po’ alla volta perdevo il mio equilibrio psicologico e, un giorno… io sono in carcere per omicidio.

 

Dopo quanti anni di carcere sei riuscita ad ottenere la semilibertà?

Ho passato in carcere sei anni e mezzo, effettivi, che con lo sconto di pena per la buona condotta diventano otto, su un totale di dieci anni di condanna.

 

Questi anni di detenzione li hai trascorsi tutti a Venezia o anche in altre carceri?

Prima mi hanno portato a Rovereto, poi a Trento, infine a Tolmezzo, dove sono rimasta finché ho terminato il processo, quindi ho chiesto di essere trasferita in un carcere adatto a scontare una pena lunga e sono arrivata alla Giudecca, quattro anni e mezzo fa.

 

Come avrei potuto presentarmi in una fabbrica,per chiedere di essere assunta?

Sappiamo che non è facile ottenere la semilibertà, in particolare per gli stranieri. Tu come sei riuscita ad averla?

A Venezia c’è una pratica molto buona, con due cooperative sociali che danno lavoro ai detenuti, sia dentro il carcere, sia fuori, in articolo 21 e in semilibertà. Altrimenti, non avrei saputo come trovare un lavoro: qui non conoscevo nessuno, come avrei potuto presentarmi in una fabbrica, dicendo pure che stavo in carcere, per chiedere di essere assunta?

 

Ho paura che con la legge Bossi-Fini mi siano chiuse tutte le possibilità

 

Quando termini la pena, cosa pensi di fare: vorresti rimanere in Italia o tornare in Polonia?

Mi piacerebbe anche fermarmi in Italia, ma vedo questa prospettiva difficile, perché non è sicuro che mi rinnovino il permesso di soggiorno, quando torno libera. Terminassi la pena domani, dovrei tornare subito in Polonia: non rischio di rimanere qui come clandestina, per andare incontro ad altri guai con la giustizia…

Magari non avrei problemi con il lavoro e la casa, la mia preoccupazione è che, essendo pregiudicata, con la legge Bossi–Fini mi siano chiuse tutte le possibilità di rimanere in Italia come immigrata regolare.

In Polonia ho la casa che, per fortuna, sono riuscita a non vendere in questi anni, mentre credo che sarebbe un problema trovare lavoro, perché sono via da dieci anni e ormai ho perso tutti i contatti che avevo. Senza contare che vengo da una piccola città, dove sanno che sono in carcere.

 

Quindi anche la tua famiglia sa che sei detenuta?

Lo sa da un anno, perché quando ho avuto la semilibertà ho trovato la forza di dirglielo. Prima ero come shockata per quello che mi era capitato e non volevo si preoccupassero per me, così dicevo loro che ero bloccata in Italia per motivi di lavoro e per cinque anni non potevo tornare in Polonia. Magari pensavano che io stessi così bene da non aver più voglia di tornare da loro… non immaginavano la tragedia che mi era capitata.

 

Non penso a comprare dei vestiti… vorrei solo ritornare a sentirmi un po’ normale

 

Pensi che i soldi che guadagnerai in questi due anni di semilibertà ti potranno essere utili per ricominciare la tua vita in Polonia?

Non ho ancora preso il primo stipendio, perché lavoro soltanto da due settimane, però dai prezzi che ho visto fuori e anche da quello che mi raccontano le altre ragazze, semilibere da più tempo, ho paura che non potrò mettere da parte chissà quanti soldi. Non so quanto prenderò, forse 6-700 euro mensili e, dopo questi anni passati in carcere, devo ricominciare da zero, non ho più niente. Non penso a comprare dei vestiti… vorrei solo ritornare a sentirmi un po’ normale.

 

Maria, ecuadoregna, lavora in articolo 21

 

Cosa ti ha spinto a venire in Italia?

Mi hanno proposto di portare della "roba" e, in cambio, mi avrebbero dato un lavoro regolare in Italia, come impiegata in una fabbrica di elettrodomestici, oltre che l’alloggio. È chiaro che ho accettato quest’offerta perché avevo molto bisogno, altrimenti sarei rimasta al mio paese.

 

La tua famiglia è rimasta in Ecuador?

Sì, in Ecuador ho tre figli e anche due nipoti, di nove anni l’uno e di pochi mesi l’altra. Vivono tutti nella casa della mia figlia maggiore, che ha 29 anni. Il marito invece non l’ho più, perché ho divorziato tanti anni fa.

 

Quindi intendevi stabilirti in Italia, anche se qui saresti stata da sola?

In Ecuador ero disoccupata e mi servivano molti soldi per curare mia madre, che è malata e ha bisogno di terapie a pagamento: nel mio paese non esiste la sanità pubblica, soltanto chi può pagare viene curato e, chi non può pagarsi le cure, lo lasciano morire.

 

Adesso i tuoi famigliari sanno che sei in carcere?

No, loro pensano che io sono in Italia a lavorare. Ed è meglio così, perché già soffrono per la mia assenza e sarebbe molto peggio se sapessero che sono in carcere.

 

Come hai vissuto in questi anni, trascorsi alla Giudecca?

Quando mi arrestarono pensai che la mia vita fosse finita, anche perché credevo che le carceri italiane fossero simili a quelle del mio paese… invece devo ringraziare il cielo di essere finita alla Giudecca, dove ho fatto la scuola, il corso di orto-floricoltura, ho potuto lavorare nell’orto e mandare dei soldi alla famiglia, anche se ero in carcere.

 

Quanto tempo hai passato in carcere, prima di essere ammessa al lavoro esterno, e quanta è, complessivamente, la tua condanna?

Ho trascorso in carcere tre anni e mezzo, su una pena totale di cinque anni. Con i "giorni" (lo sconto di pena per la buona condotta) dovrei terminare a dicembre di quest’anno.

 

Avere il lavoro esterno ha cambiato, in qualche modo, la tua vita?

Il primo giorno ero tanto emozionata, ma anche preoccupata, perché non sapevo cosa avrei dovuto fare. Poi io ho anche qualche problema di salute, che mi crea difficoltà, comunque finora è andato tutto bene.

 

Che cosa vorresti fare, quando terminerai la pena?

Ho una sorella che vive e lavora in Spagna e vorrei andare da lei, però non so se sarà possibile, perché normalmente per chi viene arrestato per un reato come il mio a fine pena c’è l’espulsione. Se dovessi ritornare in Ecuador sarei soltanto un peso in più per mio genero, che già deve mantenere tutta la famiglia.

 

Susanna, ungherese, ex detenuta

 

Quanto tempo prima del termine della pena sei stata ammessa alla semilibertà?

L’ho avuta quando avevo ancora un anno e tre mesi di pena da scontare. Avevo già trascorso circa cinque anni in carcere, quindi in tutto ho scontato sei anni e mezzo.

 

Che significato ha, per te, questo periodo trascorso in semilibertà?

La semilibertà mi è servita perché, potendo trascorrere parte della giornata fuori del carcere, ho conosciuto della gente nuova e ho anche guadagnato un po’ di soldi, che sono stati importanti per aiutare me stessa e la mia famiglia.

 

Da quanti anni sei in Italia?

Sono arrivata nel 1995, poi nel 1996 ho avuto dei problemi con la giustizia e sono finita in carcere.

 

Partii pensando di poter trovare facilmente un lavoro

 

Come mai, dall’Ungheria, hai pensato di venire nel nostro paese?

Partii pensando di poter trovare facilmente un lavoro, per aiutare così mia figlia, che oggi ha nove anni (l’ho lasciata che ne aveva uno e mezzo) e vive con la nonna. Invece appena arrivata in Italia mi accorsi che era difficile lavorare, anche perché allora non parlavo l’italiano, e poi non avevo il permesso di soggiorno, quindi non potevo farmi assumere in regola.

 

Come vivevi, in quel periodo da clandestina?

Per qualche tempo ho vissuto assieme ad un’amica, poi nel 1996 ho accettato una cosa che, purtroppo, mi ha portato in carcere.

 

La tua famiglia, in Ungheria, sapeva che tu eri stata condannata?

Sapevano tutto, anche se certamente a me dispiaceva che loro sapessero. Però non ho potuto evitare che lo scoprissero perché, quando mi arrestarono, fu la polizia ungherese ad informarli.

 

Mia madre ha dato in affido mia figlia perché da sola non ce la faceva a crescerla

 

Negli anni in cui sei stata in carcere non hai mai potuto vedere tua figlia?

Il primo anno e mezzo di carcere l’ho trascorso a Verona e là ho conosciuto una coppia, entrambi medici, che volevano prendere mia figlia in affido, così che potessi vederla ai colloqui, oppure con qualche permesso speciale. Invece non si è potuto fare, perché gli assistenti sociali si sono opposti. Poi mia madre l’ha data in affido ad un’altra famiglia, in Ungheria, perché da sola non ce la faceva a crescerla.

 

Ma tu pensi di poterla riavere con te, o pensi che quest’affidamento sia definitivo?

Io vorrei riaverla, però mi hanno riferito che ci sono pochissime possibilità, perché lei vive dal ‘96 con questa famiglia e, per lei, quell’uomo e quella donna sono i suoi genitori. Loro glielo hanno detto che non sono i veri genitori, ma ugualmente è difficile che ora li lasci.

 

Quindi non hai più parlato, nemmeno al telefono, con tua figlia?

No, perché la famiglia che l’ha in affido è sempre stata contraria. Non so cosa hanno detto loro, al mio riguardo, ma certamente cose molto brutte. Ogni volta che cerco di chiamarla mi dicono che non c’è, oppure che dorme, o altre cose del genere.

 

Sto cercando di avere il permesso di soggiorno

 

Adesso, che progetti di vita hai?

Sto cercando di avere il permesso di soggiorno, poi vorrei tornare in Ungheria, per sistemare alcuni problemi che purtroppo non sono riuscita a risolvere finora, anche perché stando in carcere avevo le mani legate.

 

Con il tuo lavoro riesci a mettere da parte dei soldi?

Riesco a mettere da parte qualcosa quando faccio degli straordinari, che sono pagati bene.

 

Come ti sei organizzata la vita, dopo la scarcerazione?

Ho finito la pena da circa un anno e mezzo e ora vivo a Mestre, assieme ad una ragazza, in un monolocale che abbiamo preso in affitto.

La sarta rumena della Giudecca che veste le signore veneziane

Dal laboratorio di sartoria in carcere a un negozio nel cuore della città

 

A cura della Redazione della Giudecca

 

La sartoria è bella, luminosa, piena di donne: peccato solo che sia in un carcere! E Veronica, la "capo-sarta", è abile, fantasiosa, velocissima. Ha una pena lunga, per traffico di clandestini dalla Romania, e avrebbe potuto abbattersi e lasciarsi andare, con quei quattro figli lontani che crescono senza di lei. Ma Veronica ha grinta da vendere, e un piede l’ha già messo fuori dal carcere, con quel negozio, il Banco n° 10 di Campo S. Antonin, che vende le sue creazioni alle signore veneziane. E non è una soddisfazione da poco, in un mondo dove la moda che si vede nei negozi delle città è ormai standardizzata, piatta, uguale dappertutto. Veronica ci ha raccontato la sua storia.

 

Veronica e la sua boutique

 

Mi chiamo Veronica, sono di nazionalità rumena, ho 38 anni e due anni li ho già persi in carcere, sì sono anni persi che non ritroverò mai, e i miei 4 bambini di 14, 12, 9 e 5 anni, dopo 8 anni che devo passare qui, saranno già adolescenti.

Sono stata arrestata il 3 giugno 2001 al confine tra la Romania e l’Ungheria dalle autorità ungheresi, essendo ricercata dall’Interpol. Dopo avere scontato 39 giorni di detenzione in Ungheria, sono stata portata nelle carceri italiane, a Milano, poi a Torino, alla fine a Venezia.

Tutto è cominciato il 24 settembre del 1999, quando mio fratello è stato arrestato a Torino e condannato a 4 anni e 6 mesi per trasporto clandestino di rumeni sul territorio italiano. Mio fratello a quel tempo studiava all’Università, però, avendo bisogno di tanti soldi per potere terminare gli studi, a volte trasportava illegalmente i rumeni in Italia in cambio di una somma di denaro. Era un lavoro difficile e insicuro, dovendo passare dall’Ungheria all’Austria a piedi tra i boschi, e chi lo organizzava rischiava di restare senza soldi nel caso in cui i clandestini fossero scoperti durante il tragitto. Così mio fratello mi mandava i suoi clienti per farmi consegnare i soldi e lui li attendeva a Budapest. Dalla Romania via Ungheria si passava con regolarità, successivamente a Budapest incontravano lui e dopo io non ho mai saputo le esatte modalità di come avveniva il trasporto in Italia.

Il Tribunale di Torino mi ha inviato una richiesta di presentarmi al processo. Io ero da sola a casa con quattro bambini e non avrei potuto lasciarli soli e venire in Italia, e a quel tempo nemmeno potevo pensare che stessi commettendo un reato. Sono stata condannata a quattro anni in contumacia e dopo poco tempo mi è stato fatto un secondo processo, che si è basato sulla denuncia di un ragazzo venuto un anno prima in Italia, con un altro mio fratello, che prima di andarsene mi aveva consegnato 200 dollari (il costo del trasporto). Con questo secondo processo sono stata condannata a ulteriori quattro anni e tutto è terminato con una sentenza finale a otto anni di prigione e una multa di un miliardo e mezzo di lire.

Quello che ho fatto, l’ho fatto perché non avevo nessuna possibilità di mantenere i miei bambini (dal mio ex marito ricevevo gli alimenti per una cifra uguale a cinque euro per ogni bambino), ho cercato a quel tempo un modo per sopravvivere, ma si vede che ho sbagliato perché così sono finita "dentro".

In carcere non ho però perso il mio equilibrio e ho solo cercato di approfittare della situazione per non sentirmi abbandonata dai miei bambini. Ho cominciato a lavorare, prima come scopina, per pochi soldi ma che mi consentivano di fare la spesa per il mio sostegno, successivamente in cucina.

La mia fortuna è che al mio paese avevo lavorato come sarta, e così ho fatto la domandina per poter lavorare nel laboratorio di sartoria, che mi è stata accettata, e ho avuto l’opportunità di conoscere Annalisa (l’operatrice della Cooperativa Il Cerchio che coordina il lavoro nel laboratorio).

Abbiamo fatto presto amicizia, in quanto abbiamo gusti simili, e la nostra collaborazione è avvenuta quasi senza cercarla. Per un anno ho lavorato a tempo parziale e dal novembre 2002 sono stata assunta dalla Cooperativa.

Ora ho uno stipendio di oltre 800 euro che mi permette di mantenere i miei bambini, che tuttora vivono in Romania, ma ho anche tante soddisfazioni, pure se non posso viverle nella loro totalità. Il 25 febbraio abbiamo presentato una nostra mostra dei vestiti del ‘700 veneziano, e per me, che non conoscevo la moda italiana del passato, e che sono però riuscita a realizzarli, è stato un grande successo, anche se purtroppo la mia presenza all’inaugurazione della mostra è stata impossibile. I vestiti poi sono stati esposti al Caffè Pedrocchi di Padova: a "indossarli" erano i manichini prodotti dai detenuti del carcere Due Palazzi per la Cooperativa Giotto.

Da poco abbiamo una nostra boutique, dove si espongono e si vendono i nostri prodotti, e stiamo preparandoci per una sfilata in occasione della Mostra del Cinema, dove forse potrò essere presente finalmente anch’io. Un’altra soddisfazione che ho riguarda l’ambiente: lavoro con giovani ragazze, Carla, Barbara, Isabella, che hanno molta buona volontà nel diventare vere sarte e sono bravissime, in breve tempo hanno imparato a cucire e io cerco di aiutarle e insegnare loro il mestiere.

La prima telefonata che ho potuto fare ai miei figli è stata dopo 7 mesi di carcere. Attualmente posso parlare per 20 minuti al telefono con loro, ma non mi basta e desidero sempre qualcosa in più, vorrei magari poter passare una notte con loro, in particolare con il piccolino che ha 7 anni e che non può capire la mia ingiustificata assenza, e che quando gli parlo al telefono mi domanda: "Mamma, sei tu la mia mamma vera? Mamma sei viva? Parlami e spiegami perché te ne sei andata", e la mia risposta è un nodo alla gola. A quelli che mi hanno dato questa condanna vorrei dire che per quello che ho fatto è una condanna davvero esagerata, ma non gli chiederò nulla, penso che loro stessi saranno giudicati come hanno giudicato me.

Il mio stato di mamma vera me lo hanno rubato, per qualcuno io sono una delinquente, ma per i miei figli sarò sempre la loro mamma. E lavoro con passione soprattutto per loro.

 

 

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