Prospettiva: lavoro

 

Rio Terà dei Pensieri una cooperativa e tanti prodotti
realizzati dentro le carceri veneziane

 

E ora l’ultima nata: una linea di cosmetici a base di piante dell’orto della Giudecca Raffaele Levorato e Gabriella Pancamo li abbiamo incontrati alla festa del volontariato sull’isola di San Servolo, in mezzo a bagni schiuma, creme idratanti, latti detergenti, i nuovi prodotti della cooperativa Rio Terà dei pensieri, realizzati con le piante aromatiche e da essenza coltivate nell’orto della Giudecca, secondo un aggiornamento di antiche ricette degli speziali della Serenissima.

 

Ci potete raccontare quando e come vi è venuto in mente di creare la vostra cooperativa, e con quali obiettivi?

Raffaele: La Cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri nasce nel settembre ‘94 - in seguito ad un brutto incidente capitato a un amico, che lo ha portato in carcere - con due compiti istituzionali: la formazione professionale rivolta ai detenuti e, quindi, il loro impiego in attività produttive… perché, quando hai imparato un lavoro, dopo puoi anche realizzare dei prodotti.

Noi siamo essenzialmente dei volontari, quindi, di per sé, disorganizzati: non abbiamo un ufficio, non abbiamo una segretaria. Ci teniamo in contatto con un telefono cellulare e, dopo otto anni di lavoro, siamo ridotti a due, o poco più… all’impegno di Gabriella e al mio si aggiungono delle ore, saltuarie, che qualche altro volontario dedica alla cooperativa.

Poi io ho una "fissa" ed è quella di non ricercare la visibilità, ma piuttosto di fare bene ciò che devo, attraverso un lavoro quotidiano, sistematico, metodico. Forse è sbagliato, però preferisco continuare ad occuparmi di cose molto sostanziali.

 

Quali corsi di formazione professionale gestite? E poi riuscite a garantire un’occupazione ai detenuti che li hanno frequentati?

Raffaele: Oggi siamo riconosciuti dalla Regione come Ente formatore, ma abbiamo avuto parecchie difficoltà a trovare posto tra gli Istituti che fanno formazione, evidentemente perché la torta diventava più piccola per gli altri… la Regione ci assegna dei corsi "ufficiali" e, quest’anno, ne abbiamo tre: editoria-serigrafia, pelletteria e orto-cosmetica.

Gabriella: Gli ultimi due sono delle new entry, mentre il corso di editoria elettronica e serigrafia è "storico". È gradito anche all’Amministrazione penitenziaria, tanto che negli ultimi anni non abbiamo più dovuto fare nessuna richiesta… ci piove nel piatto, perché oramai è tradizione che lo facciamo.

Per gli altri due corsi, invece, non è stato così semplice. Il corso di pelletteria ha un secondo nome, "orlatura di tomaie", e l’abbiamo proposto perché nella zona della Riviera del Brenta c’è molta richiesta di orlatori di tomaie. Ci proponiamo di fornire manodopera per quest’attività artigianale di prestigio e, siccome non si trovano più operai italiani… nemmeno in carcere… abbiamo insegnato il lavoro a un colombiano e ora stiamo formando degli albanesi, che hanno dimostrato di saper imparare questo lavoro molto rapidamente (pare che, di solito, servano otto anni per impararlo bene e loro l’hanno imparato in un solo anno).

Il corso di orto-cosmetica l’abbiamo avuto probabilmente anche perché l’Amministrazione Penitenziaria ha investito 350 milioni per riattivare il laboratorio, ricavandolo da un edificio fatiscente. Oggi questo laboratorio è moderno e offre delle effettive possibilità di lavoro alle detenute, fornendo loro anche competenze professionali spendibili fuori.

 

Che cosa producono i laboratori che gestite all’interno delle carceri?

Raffaele: Al maschile (Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore - n.d.r.) abbiamo un laboratorio di serigrafia che produce magliette e borse con il marchio della Fenice. Anche l’editoria elettronica necessaria a questa produzione è fatta dai detenuti. Inoltre c’è un secondo laboratorio, di pelletteria e sartoria, nel quale, quando non c’è da lavorare con la pelle, si lavora con la stoffa…

Al femminile, alla Giudecca, abbiamo l’orto e, adesso, anche il laboratorio di cosmetica. Poi ci sarebbe un laboratorio di legatoria, già attrezzato, ma attualmente è chiuso perché non troviamo un volontario che si assuma la responsabilità della sua gestione.

Se ho capito bene, ci sono gli spazi e le attrezzature necessari ma non riuscite a far funzionare questo laboratorio perché manca un insegnante? Si potrebbe lanciare un appello… chi è disponibile si faccia avanti!

Gabriella: Per far funzionare il laboratorio di legatoria servirebbe una persona disponibile a entrare in carcere quasi tutti i giorni, esperta in questo tipo di produzione, che sappia indirizzare le detenute sugli articoli da fare, anche tenendo conto dell’andamento del mercato. Non puoi fare delle cose belle e non vendibili… le detenute devono lavorare, ma anche vendere il proprio prodotto e incassare i soldi del prodotto che hanno fatto.

 

A quante persone dà lavoro, complessivamente, la vostra cooperativa?

Raffaele: Tra formazione professionale e lavoro vero e proprio impegniamo, mediamente, otto - nove persone al maschile e otto - nove al femminile. In più abbiamo due commesse che lavorano nel negozio, che si trova davanti al teatro La Fenice. Va detto che, fin dall’inizio, la nostra cooperativa si è prefissa di non occuparsi delle misure alternative al carcere, delle quali si occupano già in tanti altri: noi vogliamo dare ai detenuti una "misura alternativa alla cella", perché non dimentichiamo che c’è gente che resta quasi tutto il suo tempo in cella, soprattutto al maschile.

Certo, sarebbe giusto portare più gente fuori, ma non tutti possono uscire subito e, quando siamo entrati al maschile, nel 1996, là non c’era nulla: noi non vogliamo fare rieducazione… sono parole difficili… forse non siamo capaci di applicare l’articolo 27 della Costituzione… ma volevamo far trascorrere ai detenuti delle ore in maniera diversa e l’abbiamo ottenuto. Alcune persone, che ritroviamo a distanza di tempo, ci ricordano perfino con nostalgia: per esempio, quest’anno alla Festa dell’orto c’erano sei ex detenute, una veniva da Milano ed era stata tra le prime a lavorarci, nel 1995.

 

Lavorando ogni giorno all’interno delle carceri dovete per forza fare i conti con le regole e i tempi dell’istituzione. Incontrate delle difficoltà particolari nella gestione dei laboratori?

Raffaele: È una sfida continua, anche logorante, quando uno si fa sei - sette - otto ore, tutti i giorni, dentro il carcere. L’istituzione in un certo senso "ci sopporta", perché rimaniamo pur sempre degli elementi estranei. Alle tre e mezzo del pomeriggio, per esempio, vogliono chiudere tutti in cella, per questa mania della "conta", e ogni giorno dobbiamo fare una lotta per riuscire a tenere aperto il laboratorio fino alle sei.

 

Come riuscite a vendere i prodotti dei vostri laboratori? Fate della pubblicità, delle ricerche di mercato?

Raffaele: La serigrafia produce più di 11.000 pezzi l’anno, tra magliette e borse di tela, e li vendiamo tutti. Al negozio della Fenice, dove la clientela è rappresentata dai turisti di passaggio, ne vendiamo 2 - 3.000. Il resto è acquistato da Parrocchie, Comuni, Enti vari, di solito attraverso ordini di centinaia di pezzi. Non facciamo assolutamente del marketing - cosa che dovrebbe fare una cooperativa - ma non abbiamo soldi da dare a chi potrebbe farci questo servizio.

Gabriella: Per quanto riguarda i prodotti di cosmetica abbiamo fatto un primo "lancio" alla Festa del Redentore, a fine luglio. Per la loro commercializzazione facciamo programmi diversi, secondo la gamma dei prodotti: c’è una linea che si chiama "Rio Terà dei Pensieri" e una seconda, "Veneziana coloniali & spezie", che dovremmo piazzare nelle erboristerie, nelle profumerie, nelle farmacie. Per la linea "Rio Terà dei Pensieri", invece, abbiamo un progetto che prevede la vendita all’interno dei circuiti carcerari del Triveneto, sia per i detenuti, sia per la Polizia penitenziaria. Riteniamo siano prodotti competitivi, nel rapporto qualità/prezzo, e questo giudizio è confortato dal fatto che delle persone che li avevano acquistati alla Festa del Redentore sono ritornate a comprarli, la settimana successiva e due settimane dopo, al banchetto allestito ogni giovedì alla Giudecca, dove vendiamo anche i prodotti dell’Orto.

 

Ma, alla fine, i conti tornano? Riuscite a gestire economicamente la fase della formazione e poi a garantire un reddito decente ai detenuti impegnati nelle varie lavorazioni?

Raffaele: Come cooperativa non abbiamo fini di lucro, quindi non mettiamo da parte i soldi, ma riusciamo a recuperare i costi ed a retribuire adeguatamente le persone che lavorano con noi. I formatori sono pagati con i soldi elargiti dalla Regione, secondo un criterio che prevede un 50% per gli insegnanti e un 50% destinato obbligatoriamente agli investimenti.

Il negozio alla Fenice sta in piedi da solo, dal punto di vista economico: vende i prodotti della serigrafia e del laboratorio di cosmetica e le due commesse che ci lavorano sono regolarmente assunte e stipendiate. I lavoratori dei laboratori interni vengono pagati a "pezzo", con la ritenuta d’acconto, inoltre alcuni di loro usufruiscono anche di borse-lavoro istituite dal Comune: 10 in tutto, di cui 7 al femminile e 3 al maschile. L’Orto, se considerato da solo, è in "profondo rosso", ma tutte le attività, messe assieme, permettono di raggiungere il pareggio, nel bilancio della cooperativa.

 

Se non sbaglio, adesso state pensando di "passare la mano"… vorreste che qualcun altro si occupasse di far funzionare la cooperativa?

Raffaele: Abbiamo una cooperativa impiantata solidamente, che sta andando bene, ma, al momento, non troviamo nessuno che la voglia prendere in mano. La verità è che non trovi persone disposte a fare del "volontariato puro". Capisco che serve un’organizzazione, però noi siamo riusciti ad andare avanti, per otto anni, senza un ufficio, senza un impiegato…

Io non voglio abbandonare l’attività di volontariato, però non voglio più avere tutta questa responsabilità operativa ed anche economica. È da pazzi continuare a guidare questa cooperativa da soli; meglio dire: "Io vi regalo tutti i laboratori, vi do una situazione economica in attivo, vi do un magazzino fornito, ma dovete avere gli stessi scopi che ho io"… perché il rischio che vedo è che l’attività di una cooperativa, che dovrebbe essere tutta a favore dei detenuti, diventi qualcosa di simile allo sfruttamento del lavoro nero… stiamo attenti, perché poi è facile che in mezzo ci sia dello "sporco". Adesso ci sono tre mesi di tempo per trovare dei nuovi responsabili per la cooperativa: se qualcuno si farà avanti, bene, sennò la cooperativa saremo costretti a chiuderla anche se abbiamo i conti in regola, tutto quello che ci hanno dato l’abbiamo investito…

 

Con Gabriella e Raffaele abbiamo incontrato, alla festa di San Servolo, anche Prince, nigeriano, detenuto a Santa Maria Maggiore.

 

Oggi sei uscito per la prima volta in permesso, per allestire il banco con i prodotti della cooperativa. Vuoi raccontarci come ti sei inserito in questo tipo di lavoro e come ti trovi?

Prince: Lavoro nel settore della pelletteria da quasi due anni. Prima ho seguito un corso ed ho capito che potevo farcela, ne ho parlato con la cooperativa ed anche loro mi hanno detto che potevamo provare. Così ho iniziato a fare la cucitura delle scarpe e altri articoli in pelle. Ogni giorno inizio il lavoro alle 8.30, a volte alle 9.00, e vado avanti fino alle 15.15, con un’interruzione da mezzogiorno alle 13.30. Se c’è l’insegnante possiamo rimanere fino alle 18 - 19, compreso il sabato, quindi sei giorni a settimana. Guadagno in base ai prodotti che riesco a produrre, borse ed altre cose, ed i soldi arrivano dopo due - tre mesi a causa di qualche lentezza burocratica. Inoltre ricevo una borsa lavoro dal Comune, che consiste in 130 euro, netti, al mese.

 

A cura di Francesco Morelli

Storia di una cooperativa che oggi, a Venezia,
dà lavoro a 50 tra detenuti ed ex detenuti

 

Ne abbiamo parlato con Gianni Trevisan, il suo presidente

 

Gianni Trevisan l’ho incontrato alla Giudecca nel suo "regno", la sede della Cooperativa "Il Cerchio", durante un permesso premio "lavorativo", nel quale dovevo preparare il sito della cooperativa stessa. Un’impresa non da poco, visti i tanti "fronti" nei quali la cooperativa è impegnata, le attività in continua espansione, le richieste di lavoro che piovono da tutte le parti, perché una cooperativa che dà lavoro a tanti detenuti è una fonte di speranza, e le notizie, in questi casi, viaggiano in fretta da carcere a carcere, in una specie di passaparola che fa rapidamente lievitare il numero delle lettere di chi chiede una offerta di assunzione.

 

Il nostro scopo principale è quello di favorire l’integrazione sociale dei detenuti ed ex detenuti.

 

Quando nasce la cooperativa "Il Cerchio" e quali obiettivi si propone?

La cooperativa è stata costituita nel settembre 1997, però l’attività operativa ha avuto inizio nel 1998, con l’assunzione di un socio lavoratore ex detenuto. Nel 1999, grazie ad una convenzione con il Consorzio Venezia Nuova e l’AMAV, la cooperativa raggiunge già un fatturato di 680 milioni, che sale a 1 miliardo e 30 milioni nel 2000 e a 2 miliardi e 75 milioni nel 2001. Il nostro scopo principale è quello di favorire l’integrazione sociale dei detenuti ed ex detenuti; in maniera più marginale ci occupiamo anche di persone con problemi di tossicodipendenza.

 

A quante persone date lavoro e che tipo di attività svolgete?

Finora in cooperativa sono transitate 140 persone, tra le quali 90 in misura alternativa alla detenzione (semiliberi, affidati, articolo 21, arresti domiciliari, sospensione pena). Oggi vi lavorano 35 persone in misura alternativa e 15 ex detenuti. Inoltre abbiamo 10 lavoratori "normali" (nel senso che non hanno avuto alcun disagio sociale), e 10 soci volontari, per un totale di 70 persone impegnate.

Le attività che svolgiamo sono piuttosto diversificate e vanno dalla pulizia e manutenzione dell’arenile dell’isola di Pellestrina, a vari servizi di igiene ambientale a Mestre, Lido, centro storico, a lavori di manutenzione ordinaria di edifici scolastici del centro, alla custodia e manutenzione dell’isola della Certosa, alla custodia e pulizia dei bagni pubblici di Venezia e Lido, e altro ancora.

Poi abbiamo due laboratori di sartoria, che impegnano 3 sarte. Uno è a Piazzale Roma, un posto centralissimo dove ogni giorno passano 25 – 30.000 persone, il secondo è a Sacca Fisola, dà lavoro a una sarta e pone in vendita i propri prodotti nel mercatino che si tiene ogni venerdì.

 

Quindi voi svolgete soprattutto delle commesse di lavoro per gli Enti pubblici. Come riuscite a farvi assegnare gli appalti, quando le ditte concorrenti potrebbero fornire dei lavoratori "normali" per svolgerli?

La nostra cooperativa è molto competitiva sia perché pratica prezzi bassi, sia perché offre un personale preparato, che garantisce efficienza sul lavoro. Questo, però, non vuole dire che trovi sempre committenti che ti dicono: "Ma come siete bravi a dare lavoro ai detenuti…". In quanto alla competizione con i lavoratori "normali" posso dire che i semiliberi e gli affidati creano pochi problemi dal punto di vista lavorativo, qualche problema in più nasce quando finiscono la pena, ma comunque spesso meno rispetto ai lavoratori "normali".

 

Quali sono le difficoltà maggiori che incontrate, nella gestione del personale?

Un problema che avvertiamo molto è il fatto che i nostri soci lavoratori non si assumono volentieri delle responsabilità e, quindi, facciamo fatica a costituire dei livelli gerarchici all’interno della cooperativa. Un’ulteriore difficoltà è che le persone provenienti da un’esperienza di carcere non accettano di essere comandate da chi si trova nelle loro stesse condizioni, lo accettano soltanto "dagli altri".

 

Nell’organizzazione generale della cooperativa, invece, dovete misurarvi con problemi particolari?

Un punto dolente è senz’altro la mancanza di liquidità, che frena di molto l’espansione della cooperativa: pur lavorando prevalentemente con Enti pubblici e, quindi, con sicurezza di pagamento, accade molto spesso che le fatture vengano liquidate con un certo ritardo, causando problemi per l’erogazione puntuale degli stipendi e per l’acquisto di materiale utile per l’espletamento di certi lavori e per la ricerca di altri… senza contare i costi di interesse delle banche per i fidi e gli anticipi fatture.

In tutti questi anni i finanziamenti ricevuti da enti (in quanto cooperativa sociale) sono stati esigui: la Regione ha stanziato 17 milioni per l’acquisto di un autocarro; la Provincia 8 milioni, per l’acquisto di macchine da cucire professionali per un laboratorio di sartoria all’interno del carcere; 7 milioni, sempre per l’acquisto di materiali, sono arrivati dalla Fondazione Carive.

Praticamente, l’attività, e quindi l’espansione della cooperativa è stata possibile grazie all’impegno del volontariato. Oggi però, pur rimanendo cooperativa sociale, i numeri evidenziano che siamo una piccola azienda in crescita, e serve un salto qualitativo che ci permetta di dimostrare la nostra professionalità e competenza in determinati settori.

Per fare questo ci servono dei coordinatori, ma dobbiamo anche fare dei progetti per la formazione e poi realizzarli direttamente, perché con i detenuti di Venezia raramente si fa la formazione che realmente serve. Servirebbero corsi nel settore dell’edilizia: muratori, idraulici, elettricisti, piastrellisti...

 

Quale tipo di formazione viene fatta, nelle carceri di Venezia, e quale servirebbe?

Al femminile (la Giudecca), ad esempio, si sono fatti cinque corsi di ceramica in 5 anni, corsi belli, piacevoli, ma che non danno uno sbocco occupazionale alle persone che li frequentano. Conosco una detenuta che ha preso cinque diplomi… Ma anche i corsi di orticoltura ogni anno vengono ripetuti quasi sempre uguali, ma poi il lavoro tarda ad arriva.

Invece ci accorgiamo che c’è una richiesta frequente per interventi di edilizia, richiesta che non può essere soddisfatta totalmente perché mancano figure professionali di riferimento. Quindi servirebbero corsi nel settore dell’edilizia (muratori, idraulici, elettricisti, piastrellisti), anche perché a Venezia ci sono 4.000 appartamenti di proprietà pubblica da ristrutturare e mettere a norma. C’è una forte richiesta di personale che sappia fare questi lavori e il compenso orario offerto è di 20 – 25 euro.

 

Per quanto riguarda il lavoro all’interno delle carceri, gli incentivi della legge Smuraglia aprono veramente nuove prospettive di sviluppo?

Con la legge Smuraglia il costo di un lavoratore detenuto è pari a un terzo di quello che costa un lavoratore fuori dal carcere e voglio spiegarlo con i numeri, per essere più chiaro:

Adesso il direttore di un carcere che ha le strutture adatte per avviarvi delle lavorazioni (ad esempio quello di Padova) non ha più alcun alibi, deve soltanto assumere (con un contratto di tipo privatistico) un procacciatore di lavoro, che riesca a trovare le commesse. Il Due Palazzi di Padova ha delle aree che potrebbero essere utilizzate per delle lavorazioni, con dei controlli minimi alle merci in entrata e in uscita e utilizzando dei lavoratori detenuti ammessi all’articolo 21 interno.

 

La vostra cooperativa dà lavoro anche all’interno delle carceri?

Al carcere maschile di Venezia, che è una Casa Circondariale, è difficile fare dei progetti a lungo termine, perché c’è troppa turnazione dei detenuti. Al femminile, anche grazie ai finanziamenti degli Enti locali, abbiamo un laboratorio dove sono impegnate tre sarte e dovrebbe partire un laboratorio di pelle antica veneziana.

 

Qual è la situazione complessiva del mercato del lavoro a Venezia e quali prospettive ci sono anche per la cooperativa "Il Cerchio"?

In 20 anni, a Venezia, sono stati espulsi dalle attività produttive 20.000 operai e questo è successo principalmente a causa dei maggiori costi per il trasporto delle materie prime in arrivo e dei prodotti lavorati in partenza. Oggi io credo che si possa puntare soltanto sull’artigianato, che realizzi prodotti per il mercato veneziano. Per quello che riguarda la cooperativa un possibile settore di espansione è l’apertura di punti vendita al porto, all’aeroporto e alla stazione ferroviaria, con bollettini informativi e vendita di prodotti artigianali come le borse.

 

Concludo con una domanda personale: tu, Gianni Trevisan, sei soddisfatto di aver messo in piedi questa cooperativa sociale?

Io ho fatto il sindacalista per 30 anni ed ho vissuto esperienze stupende, specialmente negli anni 70, quando grazie alle lotte dei lavoratori si è costruita la coscienza civile di questo paese, ma l’esperienza più gratificante è senza dubbio quella che sto vivendo adesso, con la cooperativa.

Devo solo aggiungere però che sono un po’ stanco e cerco qualcuno a cui poter passare in parte il testimone.

 

A cura di Francesco Morelli

 

Precedente Home Su Successiva