Capitolo settimo: Tra verità (delle cose) e dimensione simbolica (del diritto)

"il caso del regime di carcere duro del 41-bis"

 

Nell’immaginario collettivo, il regime cosiddetto di carcere duro (previsto all’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario) è assurto a simbolo della lotta alla criminalità organizzata. In ragione di ciò, è diventato qualcosa di indiscutibile, nel duplice senso che non se ne deve parlare e non lo si può mettere in discussione.

Questo è un problema, serio: perché gli istituti giuridici sono creazioni artificiali che - proprio per questo - non possono essere sottratti all’analisi razionale né a una verifica di coerenza con i principi della Costituzione e delle Carte internazionali dei diritti. Vale anche per il 41-bis: proveremo a farlo, attraverso testimonianze personali e aiutati da una non reticente analisi giuridica delle sue norme e della sua prassi applicativa, dei suoi fini dichiarati e di quelli nascosti.

 

 

 

 

Io, nonostante quello che ho passato in 41 bis, non ho odio per le istituzioni

Ma sono arrabbiato per il trauma che hanno avuto i miei figli, per le loro sofferenze

 

di Biagio Campailla, Ristretti Orizzonti

 

Io oggi vorrei raccontare un giorno di 41 bis, che cosa comporta nel detenuto, nella famiglia e nei figli. Voglio partire molto indietro, dal momento del mio arresto, io vengo arrestato nel 1998 in Belgio, ecco dal mio arresto, in attesa dell’estradizione, non mi vengono impediti i colloqui con la mia famiglia, ciò significa che io facevo tre colloqui settimanali con i figli, in più il mercoledì dalle 14.00 alle 18.00 potevo fare i compiti con loro fino al compimento dei diciotto anni, senza la presenza dell’agente penitenziario, ma con un educatore, in modo che potevo fare il papà, parlare dei loro problemi, delle difficoltà dell’adolescenza, in più in Belgio hai diritto a due colloqui di quattro ore mensili “affettivi”, che puoi fare con la moglie o con la compagna. E hai una scheda telefonica con un codice pin, e puoi telefonare tutti i giorni quando vuoi per due, tre, quattro, cinque telefonate, dalla mattina alle 08.00 fino alle 18.00 di sera, là ti permettono di avere un vero rapporto con la famiglia, ai miei figli durante quei cinque anni, sì, gli è mancata la presenza di un padre, ma non in modo così forte come è successo dopo. Ecco, quando poi sono stato estradato in Italia, sono andato subito in regime di 41 bis.

Nel regime di 41 bis, ogni giorno ti alzi alle sei di mattina, alle otto passa l’agente per la battitura delle finestre per vedere se tu durante la notte hai segato le sbarre, poi hai un’ora d’aria, prima del 2009 erano due ore d’aria, poi con una circolare del ministro Alfano è stato ridotto tutto ad un’ora, fino a che non sapevano come colpirci ancora e allora sono arrivati a toglierci anche i fornelli per il mangiare, questa è la punizione che abbiamo, dobbiamo solo subire. Io poi ho fatto un regime particolare, nel regime di tortura del 41 bis, che è l’area riservata, per dieci anni sono stato isolato totale, in una cella di un metro e cinquantadue di larghezza e due metri e cinquantadue di lunghezza compreso il letto e tutto, non mi arrivava nessun raggio di luce, perché era proprio come sotto terra. Ogni giorno arriva la perquisizione, e dopo vai a fare l’ora d’aria, quando poi rientri sei là con quell’ansia che aspetti una lettera dei figli, della famiglia, ma la posta è tutta censurata sia in arrivo che in uscita dal 41 bis, una parola messa male e ti viene bloccata la lettera, poi resti in attesa che il magistrato di Sorveglianza vada ad identificare quella parola, e se non è criptata come pensano loro, dopo due, tre, quattro mesi ti arriva la risposta della figlia. Poi a mezzogiorno ti mangi il pasto che ti passa l’amministrazione, all’una vai a farti quell’ora di saletta. Nel regime di 41 bis area riservata, tu vai al massimo con un’altra persona, ti assegnano un altro compagno e ci sono anche dei periodi che per mesi e mesi rimani da solo; invece nelle sezioni di 41 bis non area riservata, sei assegnato con tre persone, puoi andare per quelle ore d’aria con quelle tre persone, puoi svolgere tutto con quelle tre persone. Il pomeriggio al massimo alle 17.00 ti prepari per andare a letto, perché è finita la giornata, dopo che ti passano la cena alla sera consegni agli agenti gli oggetti che loro ti riconsegnano la mattina, tra cui rasoio, specchio, tagliaunghie, le cose personali, alle 19.00 gliele consegni tutte.

Cambia qualcosa nella tua vita solo quando sai che puoi avere un colloquio con la famiglia, ecco l’ansia arriva e cresce di minuto in minuto, vuoi dire tante cose ai figli, per sapere cosa è successo a scuola, come stanno, vorresti dire tante cose, come vorresti dire tante cose anche a tua moglie o a tua madre, ti metti tante cose in testa perché non ti puoi permettere di scrivere neanche un bigliettino altrimenti possono pensare che sia un codice che vorresti far vedere. Ecco quel giorno ti prepari per incontrare la famiglia, ma quando arrivi là, la prima cosa che succede è guardare il loro viso, nel momento che guardi il loro viso, tu vedi che sono affaticati e stanchi, e non ti viene di chiedere più nulla, cerchi di ragionare sulle cose che sono successe nell’immediato, ma c’è un vetro che ti separa, hai una telecamera puntata sulle labbra, che ti fa da video e da audio, dove anche il labiale ti viene tutto registrato, il colloquio è una volta al mese, quaranta minuti li fai dietro il vetro con la famiglia e gli ultimi dieci minuti ti viene consentito di farli con il figlio minore fino all’età di dodici anni, dopo i dodici anni passa a regime normale. Allora in quei quaranta minuti che tu fai con la famiglia dietro il vetro, incominci a gridare perché non ti sentono, il vetro è grosso. Intanto ti prepari gli ultimi dieci minuti per passarli con il figlio o la figlia più piccola, ecco là arriva il trauma, quando gli ultimi dieci minuti viene un agente penitenziario a prendere i bambini, là arriva il trauma perché devono lasciare la mamma, andare con una persona estranea, e là è dura, subiscono una perquisizione anche i bambini, la subisco anche io, vieni denudato e poi vai a fare quei dieci minuti di colloquio con la bambina, e c’è un bancone, non la puoi tenere, il tempo che le chiedi come va a scuola e lei ti sta a spiegare che magari va male qui, va meglio là, e finisce il colloquio e lei deve rientrare ed è finita là, vi lascio pensare come si può lasciare una figlia così, il trauma che vive. È dura, è dura perché ti domandi: sto pagando io che ho sbagliato, forse è giusto che meriti anche una condanna, ma che c’entrano i nostri figli? sto sbagliando io, ma ecco che anche per loro c’è un regime dentro il carcere a cui devono sottostare.

Non so, io l’ultima impressione che ho di mia figlia Veronica, io Veronica l’ho lasciata che aveva dodici anni, oggi me la ritrovo a ventotto, mamma di due figli, Veronica me la ricordo quando mi diceva dietro il vetro: papà fino a qualche mese fa mangiavamo assieme in Belgio, ora ti debbo toccare dietro un vetro.

Veronica è quella che ha subito di più. È dura, è dura, io penso che le ho fatto del male, arrivando ad un certo punto a domandarmi: ma cosa debbo fare, per sapere la vita dei miei figli, come vanno a scuola, devo fargli subire questa tortura, oppure inventarmi qualcosa e non farli venire più, in modo che non vivano più queste angosce?

Però devo dire grazie a loro, Veronica non mi ha abbandonato mai, con due dei miei figli è successo il contrario, che li ho persi, non li ho più visti. Poco fa con Veronica ragionavamo proprio su questo, non sapevo tante cose io, che una delle mie figlie è stata male, è stata in ospedale, è stata seguita da psichiatri e psicologi. Di recente ho ricevuto una lettera di un’amica dei miei figli che mi riferisce le parole di mia figlia: chiedo scusa a mio padre perché da tanti anni non ci sono andata, ma ho paura, timore, del rumore delle sbarre, e dei vetri, di tutto. Ecco questo ha causato a mia figlia il 41 bis.

Io nonostante tutto il tempo che ho passato in regime di 41 bis, credetemi, non ho nessun odio per le istituzioni, con nessuno, ma sono arrabbiato per il trauma che hanno avuto i miei figli, in Belgio, lo ripeto, non si toglie mai l’amore di un padre a un figlio, addirittura prima che tu sei condannato ti preparano, di modo che quando sei condannato ti danno un lavoro con uno stipendio normale e ti fanno partecipare alle spese della famiglia, così che quando rientri a casa non sei una persona estranea, non ti vivono come una persona intrusa, ecco là ti preparano anche su questo. In Italia anche le lettere arrivano poco, puoi comunicare poco con i figli, e poi per finire hai talmente paura che ripeti sempre le stesse parole, in modo che chi controlla le tue lettere non le interpreti male e non ti blocchi la lettera. Ecco, io ci ho rimesso due figli così.

Nel momento poi in cui esci dal 41 bis, vivi forse la più grande paura della vita, quando sei declassificato devi subito abbandonare la sezione e gli agenti ti prendono e ti mettono in una sezione di transito. Dopo dieci anni da solo, durante i quali quando esci ed entri nella cella sei controllato con il metal detector, e hai sempre quattro, cinque operatori attorno, anche se vai dal dottore non sei mai lasciato solo, ecco che succede che vengo declassificato e mi portano al braccio di transito, la mattina alle otto l’agente viene apre la cella e se ne va, ritorna e mi dice: “Campailla, si prepari che deve andare in visita medica”, beh, io mi preparo come al regime di 41 bis, mi denudo, aspetto la perquisizione. Addirittura quando vedo il cancello aperto, penso che se lo siano dimenticato, e rimango in cella in attesa, per troppi anni ero abituato in quel modo, ma dopo due minuti mi dicono: “Campailla, ma quando ci vai in visita medica?”, e io: “Ma guardi agente, se lei non viene a perquisirmi dove vado?”. Lui si è messo a ridere e mi ha ribattuto: “Campailla, non è più a regime di 41 bis, esca e se ne vada dal dottore”. Ma io non sono voluto uscire e gli ho detto: “Accompagnatemi finché mi abituo”.

Del primo colloquio visivo “normale” ricordo panico, sudore, tremore, paura, volevo scappare, dopo dieci minuti di colloquio visivo volevo scappare e rientrare in cella, perché il contatto umano lo avevo perso. È venuta mia figlia Rita al primo colloquio, e io le ho detto: “Non mi chiedere niente, fatti solo osservare, fammi riprendere la parola, poi ne riparleremo”.

Ci son voluti anni per riprendermi, il regalo che poi mi è stato fatto è di sbattermi nel carcere di Badu ‘e Carros in Sardegna, già era difficile fare i colloqui a Roma, quando arrivai a Badu ‘e Carros la famiglia che veniva dal Belgio l’ho persa completamente, cioè avevo finalmente il diritto ai colloqui visivi, ma per difficoltà dei miei famigliari non li potevo vedere.

Alla fine sono riuscito ad arrivare a Padova, ringraziando Dio, e il 19 Dicembre ho visto dopo tanti anni mia figlia Rita e mia figlia Veronica, oggi a Padova vedo più spesso i miei figli, ho molto più contatti, e spero di recuperare anche le altre due. Padova non è come tutte le carceri dell’Italia, quando sono arrivato il Direttore mi ha detto: “Guardi, lasciamo stare quello che lei ha fatto nelle altre carceri, qui cercheremo di darle delle opportunità”.

Io arrivavo da un regime in cui alla violenza rispondi con la violenza, era un’autodifesa, io prima che mi aggredissero partivo all’attacco, qui invece, grazie anche a Carmelo, che mi ha presentato alla Redazione, sono riuscito a fare un percorso e oggi sono qui, ho fatto tanti passi avanti soprattutto grazie al progetto con le scuole, e dovermi presentare e parlare con tanti studenti mi ha portato ad una riflessione, a capire che cosa significa “spezzare la catena del male”. Spezzare la catena del male significa anche non avere più quella rabbia di reagire ed essere violento, cercare invece di capire la persona che ti parla e di contenere l’aggressività, a questo mi ha portato il progetto con le scuole.

Lasciatemi dire alla fine che la vendetta, l’odio e la rabbia, sono i peggiori nemici di noi stessi. Io spero che almeno si salvino i figli del presente, i figli del passato hanno ricevuto tanto, troppo male. Ieri sera un famoso politico diceva “I miei figli son cresciuti nella pace”, tanti figli nel Sud non hanno avuto mai l’opportunità di crescere nella pace, quello stesso politico poi sostiene che bisogna inasprire ancora di più il 41 bis: ma l’unico modo per inasprire ancora il 41 bis credo che sia solo mettere di nuovo la pena di morte.

 

 

 

 

Un regime che porta con sé la riduzione dei diritti fondamentali del detenuto

 

di Adolfo Ceretti

 

Sulla brochure del nostro Convegno è stato scritto che l’articolo 41 bis è una questione della quale non si può parlare. Esattamente come non si può parlare dei Rom… In effetti è impossibile riflettere con lucidità su temi politicamente molto manipolabili. Lapidariamente: se non sei favorevole all’articolo 41bis significa che non vuoi combattere la mafia.

Per introdurre la relazione dell’amico e Collega, nonché brillantissimo studioso, Andrea Pugiotto, vorrei parteciparvi di alcune riflessioni di Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone, contenute in un libro pubblicato da poco, e intitolato Carceri. I confini della dignità.

Gonnella affronta, nel suo prezioso volumetto, anche il tema dell’articolo 41bis, il regime imposto a detenuti ritenuti pericolosi dal punto di vista sociale e criminale. Le modalità di assoggettamento a questi regimi penitenziari speciali sono differenti, così come i contenuti. Resta uguale, invece, il cuore della questione, ovvero come abbiamo sentito dall’ultima testimonianza, l’azzeramento o la riduzione del trattamento del detenuto, che porta con sé l’azzeramento o la riduzione dei suoi diritti fondamentali. Il trattamento – secondo Gonnella – va concettualmente subordinato alla protezione della dignità umana: è questo il principio che sembra volere esprimere l’art.1 dell’Ordinamento Penitenziario del 1975. Se tuttavia ci inoltriamo nei successivi articoli di questa legge scopriamo che alla rieducazione trattamentale vengono subordinati tutti gli aspetti della vita del detenuto, anche quelli che andrebbero qualificati in termini di diritti. Lasciamo direttamente la parola a Gonnella: “L’impianto profondo della legge, dunque, e inevitabilmente ancor più la sua traduzione nella pratica, rovesciano il rapporto tra trattamento e dignità umana, subordinando la seconda al primo.

Può allora capitare che i diritti siano negati a coloro per i quali è sospeso il trattamento per motivi di sicurezza ovvero nel nome della loro neutralizzazione, in quanto considerate persone pericolose dal punto di vista criminale o carcerario”.

Sono queste le considerazioni che reputo possano fungere da scivolo all’intervento di Andrea Pugiotto, che ci apprestiamo ad ascoltare con molto interesse.

 

 

 

 

Tra verità (delle cose) e dimensione simbolica (del diritto): il regime di carcere duro del 41-bis

 

di Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale

all’Università di Ferrara, autore tra l’altro con Franco Corleone

dei saggi Il delitto della pena e Volti e maschere della pena

 

41-bis: «Attenzione! Chi tocca, muore»

Se qualcuno dei presenti ancora dubitasse della condizione d’intangibilità di cui gode il cd. Carcere duro disciplinato dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, salga con me sulla macchina del tempo. Viaggeremo a ritroso.

 

2 luglio 2009. Il Parlamento approva la legge recante «Disposizioni in materia di pubblica sicurezza», alle cronache nota come “pacchetto Maroni”. E’ un testo legislativo che trabocca di norme dalla dubbia costituzionalità, come un vaso  malamente riempito fino all’orlo (e oltre).

 

Esemplifico.

Si inasprisce il trattamento degli stranieri irregolari introducendo la cd. aggravante di clandestinità, il reato di immigrazione clandestina e due nuovi provvedimenti di espulsione, quale misura di sicurezza e quale sanzione sostitutiva.

Si prolunga a 180 giorni (6 mesi) il trattenimento nei CIE, trasferendo la competenza in materia dal tribunale ordinario ai giudici di pace (che giudici non sono) ed inventando un procedimento ad hoc semplificato (e meno garantista) per irregolari e clandestini.

C’è dell’altro. Come Lazzaro, risorge il reato di oltraggio (che la Corte costituzionale, nel 1994, aveva dichiarato illegittimo per eccedenza sanzionatoria). Si prevede altresì l’istituzione delle c.d. ronde a tutela della sicurezza urbana, con tutti i conseguenti dubbi di una pericolosa deroga al monopolio statale della forza.

Agli occhi di chi studia la Costituzione, ciò che si vede dentro quella legge desta serie preoccupazioni. E induce a pensare che la promulgazione del Quirinale, primo custode della legalità costituzionale dell’ordinamento, sia tutt’altro che scontata. E invece... 15 luglio 2009. Il Presidente della Repubblica promulga la legge n. 94. Ma, irritualmente, ne motiva le ragioni con una lunga, articolata e puntigliosa lettera (indirizzata al Presidente del Consiglio Berlusconi e ai Ministri Alfano e Maroni) che, nel merito, fa sostanzialmente a pezzi la costituzionalità del testo legislativo. Domanda: ma allora perché non rinviarlo alle camere?

La risposta è nell’incipit della lettera del Quirinale: non ho esercitato il mio potere di rinvio perchè «ho ritenuto di non poter sospendere (…) la entrata in vigore di norme – ampiamente condivise in sede parlamentare – che rafforzano il contrasto alle varie forme di criminalità organizzata (…) intervenendo sul trattamento penitenziario da riservare ai detenuti più pericolosi». Il riferimento è all’art. 2, commi 25 e 26, della legge n. 94 del 2009, che inasprisce – più di quanto già non fosse – il regime del cd. Carcere duro, attraverso una (ennesima) modifica dell’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario.

Traduco con parole mie. Pur di non ostacolare l’entrata in vigore del nuovo 41-bis si accende il semaforo verde a tutto il resto: anche se molto di quel resto – successivamente – cadrà sotto la scure della Corte costituzionale. A dimostrazione che quei dubbi di legittimità erano più che fondati.

E’ come se, sopra al 41-bis,  fosse fosse acceso un display ad illuminare il seguente avvertimento: «Attenzione! Chi tocca, muore».

 

2. La dimensione simbolica del 41-bis

Il fatto è che l’art. 41-bis, nell’immaginario collettivo, è diventato il simbolo della lotta alla mafia. Già questa percezione fa problema. Ed è un problema serio.

L’area del simbolico, infatti, pone al giurista – e soprattutto al costituzionalista – non poche preoccupazioni, dati i suoi legami con l’emotivo e l’irrazionale.

Nella sua dimensione individuale – come insegna la psicologia analitica junghiana - il simbolico scavalca il suo significato immediato per collocarsi nel sottosuolo dell’inconscio. Perché, quando la mente esplora il simbolico, viene a contatto con pulsioni ed emozioni che stanno al di là delle capacità razionali.

Nella sua dimensione collettiva - pensate, ad esempio, alle icone religiose - il simbolico ha rivestito un ruolo essenziale nell’organizzazione del potere in tutta la storia dell’Europa cristiana («In hoc signo vinces» proclamavano i crociati).

La forza possente di un simbolo collettivo si misura, infatti, dal suo riconoscimento da parte dei soggetti cui si rivolge.

Proprio per questi aspetti controversi, nelle democrazie costituzionali (al contrario di quanto accade negli Stati autoritari e totalitari) l’uso del simbolico tende ad essere piuttosto ridotto, addirittura sobrio. Non a caso, la scelta dei simboli ufficiali dell’ordinamento non può che essere esercizio di potere costituente, come dimostra l’art. 12 Cost. sul tricolore e l’art. 87, 1° comma, Cost.. che eleva il solo Presidente della Repubblica – inteso come ufficio, non come persona – a rappresentante dell’unità nazionale.

Tutto ciò ha molto a che fare con il nostro argomento, come dimostra la lettura di alcune pagine del recente libro di Nicolò Amato, I giorni del dolore. La notte della ragione. Stragi di mafia e carcere duro (Armando editore, 2012). Nicolò Amato sa di cosa parla: già Capo del DAP per oltre un decennio (1983-1993), è stato tra i protagonisti della storia del 41-bis.

Con accenti preoccupati, è proprio Nicolò Amato ad avvertirci che tale articolo è diventato il simbolo dell’antimafia, segnando uno spartiacque tra chi è favorevole al carcere duro (e dunque, per ciò stesso, è contrario alla criminalità organizzata) e chi lo critica (e dunque, per ciò solo, è da considerarsi colluso o contiguo o non abbastanza ostile alla mafia).

Come sempre accade, «nell’uso del simbolo» - dice Amato - «vi è una sorta di implicita intimidazione: “Stai bene attento a come scegli”, il riflesso notturno di un sabba di streghe e demoni. Chi non è amico, è nemico. Chi non è con me, è contro di me».

In ragione di ciò, il carcere duro rappresenta qualcosa di indiscutibile, nel duplice senso che non se ne deve parlare e che non lo si può mettere in discussione (cfr. Maria Rita Prette, 41-bis. Il carcere di cui non si parla, Sensibili alle foglie, 2012).

Ebbene, in un incontro come quello odierno dedicato (anche) al concetto di “verità”, è doveroso restituire il 41-bis al piano discorsivo razionale, sottraendolo a questa sua altrimenti inattingibile dimensione simbolica. Per riuscirci, cercherò allora di sviluppare un ragionamento giuridico. Il quale si nutre di disposizioni normative gerarchicamente ordinate (dove la legge è subordinata alla Costituzione e alle Carte dei diritti sovranazionali) e dove le sacrosante esigenze collettive di difesa sociale non devono né possono, sempre e comunque, prevalere su quel nucleo di diritti fondamentali insopprimibili che spettano anche al più cattivo dei cattivi, in quanto essere umano.

Metterò sotto i riflettori cinque problemi, consegnando alcuni interrogativi a tutti voi, e invitandovi fin d’ora a risposte intellettualmente oneste (anche se impopolari).

 

3. Quando l’emergenza diventa quotidiana

Il primo problema attiene al carattere contagioso dell’art. 41-bis che, nato come misura emergenziale, ha finito per stabilizzarsi nell’ordinamento, trasformando la propria straordinarietà in emergenza quotidiana.

Emergenza quotidiana è un ossimoro, perché unisce due parole dal significato opposto: infatti, come ebbe a definirla la Corte costituzionale in una sua storica decisione, «l›emergenza, nella sua accezione più propria, é una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea. Ne consegue che essa legittima, sì, misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo» (sentenza n. 15/1982).È proprio questa la parabola del 41-bis. Storicamente, il carcere duro nasce negli anni a cavallo tra la fase finale dell’emergenza terroristica e l’emersione dell’emergenza mafiosa e della criminalità organizzata. Giuridicamente, il 1° comma del 41-bis si innesta sull’art. 90 dell’Ordinamento penitenziario, che prevedeva – con decreto ministeriale - la sospensione temporanea, in uno o più stabilimenti penitenziari, del trattamento «quando ricorrano gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza». E quando il 2° comma del 41-bis viene per la prima volta introdotto nell’ordinamento, ciò accade mediante decretazione d’urgenza (decreto legge n. 306 del 1992, convertito in legge n. 356 del 1992), fonte per sua natura straordinaria.

Soprattutto, il 41-bis nasce dichiaratamente come istituto provvisorio,la cui scadenza temporale – originariamente fissata alla data dell’8 agosto 1995 – verrà prorogata volta per volta, fino al 31 dicembre 2002. Da quel momento in poi, il 41-bis entra a regime nell’Ordinamento penitenziario, attraverso la legge n. 279 del 2002.

Questo passaggio da misura straordinaria a istituto ordinario, sorprendentemente, non ha segnato alcuna svolta all’interno della giurisprudenza costituzionale. Eppure il Giudice delle leggi, nelle  sue sentenze sul carcere duro, aveva ampiamente fatto riferimento alla natura eccezionale del 41-bis per offrire un salvacondotto solo transitorio alle sue incisive deroghe al trattamento penitenziario.

Eppure si sarebbe potuto sostenere che, proprio perché non più eccezionale e temporaneo, il carcere duro definitivamente introdotto dal legislatore nel 1992 era una cosa altra da prima. E che, quindi, la giurisprudenza costituzionale formatasi sul vecchio carcere duro non era di per sé sufficiente a sostenere le ragioni della legittimità delle nuove previsioni.

Eppure se già l’art. 41-bis presentava problemi di legittimità come strumento eccezionale e temporaneo (testimoniati dalle numerose eccezioni sollevate davanti alla Corte costituzionale ed alla Corte EDU), quegli stessi problemi uscivano amplificati con il suo definitivo innesto nell’Ordinamento penitenziario Così non è andata. Come se, passo dopo passo, l’ordinamento si fosse progressivamente abituato a convivere con un corpo prima estraneo, poi penetrato sottopelle, infine metabolizzato. Come quando si cicatrizza una ferita al volto, lasciandolo però sfregiato per sempre.

La morale della vicenda è preoccupante: l’istituzione carceraria «pensa a se stessa come a qualcosa che può in qualsiasi momento, ad opera per di più del potere esecutivo, sospendere le sue regole» (Prette, op. cit.,16).

 

4. Finalità dichiarate (e finalità inconfessabili)

Secondo problema. Il fine dichiarato del 41-bis è quello di impedire che i capi e i gregari delle associazioni criminali possano continuare a svolgere, benché in stato di detenzione, funzioni di comando e direzione in relazione ad attività criminali eseguite all’esterno del carcere, ad opera di altri criminali in libertà.

In una logica di bilanciamento tra diritti individuali del detenuto ed esigenze collettive di ordine e sicurezza, solo tale finalità dichiarata è in grado di giustificare costituzionalmente il regime differenziato del 41-bis.

Da qui un corollario necessitato: le limitazioni introdotte mediante il 41-bis che sfuggono alla ratio dell’istituto sono da considerarsi meramente afflittive, contrarie ai principi di umanità cui la pena è costituzionalmente vincolata. Sono, in altre parole, misure illegittime.

Guardiamo allora al ventaglio delle restrizioni eseguibili nei confronti del ristretto in carcere duro.

Mi (e vi) domando: che cosa hanno a che fare – con l’obiettivo di tagliare il cordone ombelicale con la realtà criminale esterna – le limitazioni concernenti le ore d’aria (non più di 2 al giorno, in gruppi non superiori a 4 persone, selezionate dall’amministrazione penitenziaria) nei cortili di passeggio, circondati dalle alte mura del carcere e sotto stretta sorveglianza della polizia penitenziaria? E le riduzioni, quanto a numero e peso, degli oggetti (alimenti, indumenti, libri, riviste, giornali e simili) che possono essere inviati ai ristretti in carcere duro? Tanto più che la polizia penitenziaria ha comunque il dovere di aprire i pacchi e di sottoporli ad accurato controllo?

E ancora. Quali fini di sicurezza soddisfa il divieto, per il ristretto in 41-bis, di acquistare presso il sopravvitto del carcere generi alimentari che richiedano cottura, trattandosi di oggetti posti alla vendita previo controllo diretto dell’autorità carceraria?

Se poi dal dato normativo passiamo alle prassi all’interno delle carceri dove sono reclusi i detenuti in 41-bis, gli interrogativi crescono. Sono prassi che conosciamo grazie a diverse fonti. I rapporti delle ispezioni compiute dal CPT del Consiglio d’Europa. Le risposte ministeriali (quando vengono date) ad atti di sindacato ispettivo parlamentare. Le visite di deputati e senatori (sempre troppo pochi e sempre i soliti noti) presso gli istituti penitenziari. Le testimonianze raccolte e pubblicate in volumi preziosi: dal primo della serie – Sergio D’Elia e Maurizio Turco, Tortura democratica. Inchiesta su “la comunità del 41-bis reale” (Marsilio, 2002) – all’ultimo pubblicato a cura di Francesca De Carolis, Urla a bassa voce. Dal buio del 41 bis e del fine pena mai (Stampa Alternativa, 2012).

 

Esemplifico.

Perché, per impedire il passaggio di oggetti durante l’unico colloquio mensile ammesso, vengono mantenute le mortificanti modalità del vetro divisorio e della comunicazione a mezzo di citofono, anche con i figli minori? Non è sufficiente il controllo a vista da parte del personale di custodia e la registrazione di ciò che familiari e detenuto si dicono?

Perché l’unico colloquio telefonico mensile con i familiari e i conviventi (peraltro registrato, della durata massima di 10 minuti, possibile non prima di un periodo di almeno 6 mesi in regime differenziato, concedibile solo a chi non ha avuto il colloquio mensile) va effettuato (non direttamente a casa, bensì) nel carcere più vicino al luogo di residenza della famiglia? Perché costringere così i parenti del detenuto, per poterne sentire la voce alcuni minuti, a recarsi in carcere, farsi identificare e, magari, obbligarli ad un’attesa di ore per il collegamento telefonico?

Non credete che simili limitazioni rivelino una finalità inconfessata e inconfessabile, solo mascherata da quella ufficiale? Immagino a cosa state pensando. La televisione ci mostra, periodicamente, filmati di capi mafia in 41-bis che, approfittando di un colloquio, trasmettono all’esterno ordini omicidiari. Lo fa, la televisione, per convincerci della necessità del regime di carcere duro. Facendolo, invece, ne ridicolizza il fine dichiarato, divulgando urbi et orbi quei comandi criminali: tenerli segreti sarebbe il minimo.

 

5. La finalità rieducativa esce dall’orizzonte del 41-bis

Terzo problema. Il carcere duro non può essere un aggravio di pena: perché questa è già stabilita dalla legge ed è già stata irrogata dal giudice. Il carcere duro va inteso semmai come una particolare modalità di esecuzione di quella pena, gestita dall’amministrazione penitenziaria esclusivamente per le finalità stabilite dalla legge.

Ciò significa – come la Cassazione prima, la Corte costituzionale poi hanno più volte affermato – che il carcere duro non può stravolgere della pena né la qualità, né la quantità, né la finalità, né la natura. E’ davvero così?

Puntiamo i riflettori sulla finalità della pena che - come impone l’art. 27, 3° comma, Cost. – deve tendere alla rieducazione del condannato. Neppure il carcere duro può cancellare dall’orizzonte questo vincolo di scopo. Ecco perché, coerentemente con tali premesse, la Corte costituzionale si è spinta fino ad affermare che non possono essere sospese o soppresse le «attività di osservazione e di trattamento individualizzato (…) né le attività culturali, ricreative, sportive o di altro genere volte alla realizzazione della personalità» (sentenza n. 376/1997). Ed ha riconosciuto anche ai detenuti in 41-bis la possibilità di beneficiare degli sconti di pena (45 giorni per ogni semestre di detenzione) a condizione che il detenuto partecipi all’opera di rieducazione. Qui, davvero, la forbice tra apparenza e sostanza normativa è larghissima.

Sostanziandosi proprio nella sospensione del trattamento penitenziario (introdotto con la riforma del 1975 per fare della detenzione un percorso di recupero del reo), è una contraddizione logica affermare che il 41-bis non ne ostacoli la finalità risocializzatrice. E’ come fare la guerra in nome della pace. O fare l’amore per la causa della verginità.

Non diversamente, rasenta la battuta (poco spiritosa) riconoscere la liberazione anticipata a chi, come gli ergastolani ostativi in regime di carcere duro, non usciranno mai di galera (salvo non decidano di mettere qualcun altro al loro posto): costoro finiscono così per subire «un fenomeno di triplice schiacciamento» (Nicola Valentino, L’ergastolo. Dall’inizio alla fine, Sensibili alle foglie, 2009), perché espropriati della propria vita in quanto ergastolani, privati di ogni residua speranza in quanto ostativi, stralciati dalle normali regole del trattamento penitenziario in quanto sottoposti al regime differenziato del 41-bis.

Del resto, è proprio la trama normativa del 41-bis a rivelarne l’estraneità alla funzione risocializzatrice della pena.

Una pena rieducativa passa attraverso una sua esecuzione dinamica, flessibile, individualizzata: il

regime differenziato si caratterizza, invece, per staticità e ripetitività ed è correlato al tipo di reato commesso, secondo una logica schiettamente retributiva. La circostanza che il decreto di messa in 41-bis sia emanabile a richiesta del Ministro dell’Interno, ne colloca i presupposti e la finalità del tutto fuori da ogni percorso di risocializzazione del reo: quella richiesta, infatti, farà leva su istanze collettive di difesa sociale.

Soprattutto, una pena rieducativa non può che comportare una sua esecuzione individualizzata, mentre i provvedimenti ministeriali appaiono seriali. Come tanti singoli prodotti di un’unica catena di montaggio. La loro formulazione è modulare (i relativi stampati sono tutti eguali). Le loro motivazioni sono standardizzate. Vengono applicati a blocchi ed a blocchi sono rinnovati, in automatico, alla loro scadenza.

Ma se così è, chi tra voi se la sente, credibilmente, di affermare che la finalità rieducativa rientra nell’orizzonte del 41-bis?

 

6. Tra paralogismi e paradossi: il 41-bis quale strumento per indurre alla collaborazione con la giustizia

Introduco ora un quarto problema, solo apparentemente processuale. Oggi la competenza a decidere sui ricorsi dei detenuti in 41-bis è stata accentrata nel Tribunale di sorveglianza di Roma, in deroga alle comuni regole sulla competenza territoriale. La scelta è stata fatta per assicurarsi un orientamento giurisprudenziale granitico, sbilanciato verso le ragioni dell’autorità rispetto a quelle della libertà individuale.

In passato, infatti, accadeva – di rado, ma accadeva - che un Tribunale di sorveglianza revocasse ad un detenuto il regime del 41-bis. La notizia non passava mai inosservata: la stampa amplificava l’inevitabile sconcerto di un’opinione pubblica scandalizzata, cui non mancava mai una sponda parlamentare (si sa, a molti politici piace vincere facile). Assistiamo così ad un paralogismo.

Se il magistrato di sorveglianza revoca il carcere duro è perché ha verificato, nel caso concreto, che non ricorrono più i presupposti per la sua applicazione. Cioè, che il cordone ombelicale tra quel detenuto e la realtà criminale esterna è stato definitamene reciso. Dunque, il 41-bis ha raggiunto il suo fine (dichiarato). Il magistrato si trova così nel tritacarne mediatico per aver semplicemente applicato la legge, per ciò che essa espressamente prevede.

Ecco perché gridare allo scandalo di fronte a simili decisioni, in realtà, rivela l’autentico fine del trattamento differenziato: quello di indurre alla collaborazione con la giustizia, attraverso un regime aspramente afflittivo solo mascherato da strumento di prevenzione. Che il 41-bis sia diretto anche a promuovere nuove collaborazioni è, peraltro, dimostrato per tabulas dal suo combinato disposto con l’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario.

Articolo che impedisce l’accesso a qualunque beneficio penitenziario agli ergastolani condannati per delitti gravissimi riconducibili alla criminalità organizzata, salvo che non collaborino con la giustizia, indicando terze persone quali autori o responsabili dei reati di cui si è stati condannati.

Se sei in 4-bis prima o poi vai in 41- bis. E il carcere duro, unitamente al carcere a vita ostativo, diventa così uno strumento di orientamento verso scelte di collaborazione con la giustizia – come dire?  Particolarmente convincente.

Questa finalità inconfessata emerge anche dalla difficoltà, per i detenuti in 41-bis, di ottenere la revoca del regime differenziato, in modo diverso dalla collaborazione. Il provvedimento sospensivo «ha durata pari a quattro anni, ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni» (art. 41-bis, comma 2-bis). A giustificarne la proroga è la circostanza che non sia venuta meno la capacità del detenuto di mantenere collegamenti con l’associazione criminale. Serve una prova negativa, dunque. Ma come produrla? Il mero decorso del tempo (id est: anni trascorsi, isolati, in carcere duro) «non costituisce, di per sé, elemento sufficiente» per escludere il sodalizio criminale, come espressamente dice oggi la legge.

Di più, l’amministrazione penitenziaria, nel disporre la proroga del 41-bis, può fare leva su alcuni elementi indiziari (il profilo criminale del soggetto, la sua posizione rivestita in seno all’associazione, la perdurante operatività di questa, le incriminazioni sopravvenute, il tenore di vita dei familiari) che la riforma del 2009 ha elevato a presunzioni legali. L’onere della prova finisce così per trasferirsi sul detenuto. Si tratta, però, di una probatio diabolica perché è praticamente impossibile per il soggetto dimostrare di non possedere più la capacità di mantenere i collegamenti predetti. Come si fa a offrire la prova di ciò che non sussiste?

So bene che la Corte costituzionale (ordinanza n. 417/2004) ha negato l’inversione dell’onere probatorio e ha affermato che Il provvedimento di proroga deve contenere una adeguata motivazione, basata su specifici ed autonomi elementi di fatto ed escludendo «motivazioni apparenti o stereotipe, inidonee a giustificare in termini di attualità le misure disposte». Ma è sentenza precedente alla riforma del carcere duro introdotta dalla legge n. 94 del 2009. E mi resta la curiosità di svolgere, se potessi, un’indagine a tappeto sulle motivazioni dei provvedimenti di proroga di volta in volta emanati, «per vedere di nascosto l’effetto che fa» (come avrebbe detto Enzo Jannacci).

Per uscire dal regime di carcere duro, alla fine, è più facile il fai-date: in base a un’indagine di Ristretti Orizzonti, tra i reclusi in 41-bis, l’incidenza dei suicidi rispetto a quella degli altri carcerati è più alta del 3,5%. Al 31 dicembre 2013, ammontavano a 39.

Si fa, ma non si dice: il 41-bis serve a produrre pentiti. Oppure a infliggere un castigo esemplare. Lo conferma anche da una recente notizia di cronaca: la decisione ministeriale di prorogare il 41-bis per Bernardo Provenzano. Boss dei boss, come dimostrano le sue esemplari condanne: 20 ergastoli, 33 anni e 6 mesi di isolamento diurno, 49 anni e 1 mese di reclusione. Eppure, oggi, si tratta di un detenuto anziano affetto da patologie neurologiche così gravi da aver indotto tre procure (Palermo, Caltanissetta, Firenze) ad esprimere parere negativo sulla compatibilità tra le sue condizioni di salute e il regime di carcere duro. Il ministro, invece, ha deciso diversamente.

 

7. Il 41-bis anticamera della tortura?

Qui il cerchio si chiude. Il 41-bis, nella misura in cui viene funzionalizzato, anche solo indirettamente, alla “produzione” di collaboratori indotti a confessare responsabilità proprie o altrui, assume un volto inumano. Si rivela un trattamento prossimo alla definizione di tortura, dettata all’art. 1 della pertinente Convenzione ONU del 1984, ratificata dall’Italia nel 1989, laddove vieta «ogni atto con il quale viene intenzionalmente inflitto ad una persona un grave dolore o sofferenza, fisica o mentale, per propositi quali ottenere da essa […] informazioni o confessioni». Per molti (temo, per la maggioranza) questo non fa problema.

A brigante, brigante e mezzo. E se circa 700 detenuti per reati efferati di criminalità organizzata sono sottoposti ad un regime speciale particolarmente severo, se lo sono meritati. Viene in mente una vignetta di Altan, che rappresenta il dialogo tra un mafioso e il piccolo Di Matteo (ricorderete, rapito e sciolto nell’acido da Giovanni Brusca).

Dice il primo: «Il carcere duro è inumano». Risponde il secondo: «Vuoi fare cambio?»

È una tesi come un’altra. Ma non può essere la tesi di un ordinamento democratico. Perché la nostra Costituzione ammette la forza, ma vieta la violenza, specialmente da parte dei propri apparati: «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà» (art. 13, 4° comma, Cost.). Perché non è vero che il fine giustifica i mezzi. E’ semmai vero il contrario: in una democrazia costituzionale, sono i mezzi a prefigurare i fini.