Capitolo sesto: La mediazione per riconciliarsi con la società

 

“Io non penso che si possa dire che la vittima resta ferma ad un momento della sua storia - che è il momento del reato. Da quel momento nasce una creatura nuova nella sua vita che è il conflitto. (…) Il conflitto che nasce il giorno del reato, a distanza di un mese, di sei mesi, di un anno, è tutto un altro conflitto e può avere travolto un’infinità di altri soggetti e una quantità enorme di altri pezzi della sua vita”. È da questa riflessione che inizia il grande lavoro di Duccio Scatolero per la mediazione dei conflitti, a partire da quartieri degradati come San Salvario a Torino. Ed è sua l’idea di riflettere sulla necessità di “un tavolo di ricostruzione post reato”.

 

 

 

In carcere si dovrebbe lavorare di più per ricostruire delle relazioni

 

di Ornella Favero

 

Tra il capitolo dedicato alla “riconciliazione” con la propria famiglia e questo sulla mediazione sociale voglio raccontare un fatto che mi è capitato di recente. Qualche giorno fa è successa una cosa per me straordinaria, noi avevamo un vignettista in redazione, Graziano, una persona che nella vita faceva il giornalista ed era in carcere perché aveva commesso un reato terribile in famiglia, era arrivato a casa e aveva minacciato la moglie di fronte al figlio piccolissimo, alla fine si era messa di mezzo la cognata, lui aveva sparato e ucciso lei, e colpito la moglie, che ha perso la vista, una storia atroce che spiego rapidamente perché se no non si capirebbe quello di cui voglio parlare.

Sono passati tanti anni, Graziano è morto tragicamente per una malattia grave, curata con grande ritardo, e credo che anche per questo il carcere una responsabilità ce l’abbia, ma non voglio parlarne ora. Qualche giorno fa mi sono ritrovata a parlare con la moglie e il figlio, che adesso ha 18 anni, che hanno accettato di incontrare me, mia sorella e una terza volontaria, che abbiamo conosciuto e seguito Graziano da detenuto.

La prima cosa che voglio dire è che non ho trovato, come immaginavo, due persone incattivite, ho trovato due persone che ci hanno incontrato per capire cos’era successo in questi anni, ma mi ha colpito che quel figlio, che probabilmente il padre lo odiava, non lo chiamava neppure “mio padre”, però ci ha detto che avrebbe voluto conoscerlo. Allora, a proposito di mediazione, io mi domando perché non è questo il terreno su cui anche in carcere si dovrebbe lavorare, per ricostruire delle relazioni o anche solo per aiutare a capire, quel ragazzo per esempio aveva bisogno di capire. Lui ci ha anche detto una cosa terribile, ma per me significativa: “Io ho paura di avere dentro di me la cattiveria, il male che c’era dentro a quell’uomo, e anche per questo avrei voluto conoscerlo, per saperne di più”.

Ecco, io vorrei dire che è questo il terreno che ci deve interessare della mediazione, è questo, ragionare su questi temi, perché quel ragazzo avrebbe dovuto poterlo conoscere, il padre, avremmo dovuto lavorare tutti per questo, perché aveva bisogno di capire, adesso è troppo tardi, mi dispiace tantissimo che sia troppo tardi, però per una storia così, ce ne sono tante altre di aperte su cui io credo che sia importante ragionare.

 

 

 

 

C’è bisogno di mediazione anche per le famiglie dei detenuti

Io per non trascinare i miei famigliari in una vita fatta di umiliazioni ho preferito rinunciare a vederli

 

di Paolo Cambedda, Ristretti Orizzonti

 

Sono Paolo, un detenuto che ad un certo punto della sua esistenza ha deragliato e dei miei reati, del crimine ho fatto uno stile di vita. Mi trovo in carcere da circa vent’anni.

Da un po’ di tempo, prima con un sacerdote, poi con il mio avvocato diventatomi amico e per ultimo con la mia frequentazione della redazione di Ristretti Orizzonti, ho avuto occasione di rivedere il mio passato.

Ho iniziato a delinquere sin dai primi anni 70. Che cosa mi ha comportato questa vita? Per prima cosa, la rinuncia agli affetti più cari. Conosco bene gli spazi per l’affettività che offrono le nostre carceri, che sono pochissimi, oserei dire nulla. Per questo ho fatto una scelta per me molto dolorosa: per non trascinare i miei famigliari nella desolazione del carcere ho preferito rinunciare a vederli.

Non avrei mai fatto una scelta del genere se mi fosse stato permesso con loro un contatto più umano e meno afflittivo, almeno con mia figlia che stava diventando madre.

Si è vero io ho sbagliato, ho delle colpe anche gravissime, ma non ho mai trovato giusto che per questo la mia famiglia fosse condannata a una vita di umiliazioni.

La mia partecipazione a Ristretti Orizzonti mi ha permesso di riconoscere la mia responsabilità e di aprirmi la mente a molti concetti, che prima non immaginavo mai che potessero appartenere anche a me. Visto che i miei reati sono stati quelli di fare rapine, non pensavo mai di avere vittime, ma solo di essere un nemico della società. Ho rivisto questo concetto anche grazie a un mediatore penale – Carlo Riccardi – che spesso e volentieri si presta a discutere di questi temi nella nostra redazione.

Durante questi tantissimi anni di galera ho perso anche molta della capacità di esprimermi, dialogare, relazionarmi con le persone cosiddette “per bene”.

Ora quella capacità la sto riacquistando con i confronti in redazione, sia durante i dibattiti giornalieri, ma soprattutto col progetto di confronto tra la Scuola e il Carcere, questo per me è stato fondamentale, perché mi ha permesso di smussare tutti quegli spigoli che avevo, e di raccontarmi con sincerità: davanti agli studenti, a quelle facce pulite non riesco mai a omettere nulla.

Se mi fosse mancato lo scopo di questo progetto, non avrei riacquistato tanti di quei valori che ora mi porto dentro come uno dei più bei tesori che custodisco con grande passione.

Alcuni di questi miei ultimi discorsi vi possono far pensare che per me ora quasi tutto sta andando bene. Non è così. In particolare, in questo ultimo anno di detenzione sta per iniziare il “bello del brutto”. Mi spiego. Paradossalmente mi sto rendendo conto che la vera pena non finisce quando hai scontato gli anni di carcerazione, al contrario, ora sto vedendo i più grossi problemi e le più brutte delle paure, che però non sono nulla, nulla in confronto di quanto si possa stare male in carcere.

Ed è stato dopo vent’anni di carcere che il 28 gennaio 2014 ho avuto otto ore di permesso. Descrivere quel giorno mi è impossibile.

Poi di permessi ne sono seguiti altri, fatti col Progetto Scuola/Carcere, e da lì ho iniziato a elaborare la mia esistenza da uomo libero, tra persone “normali”.

Mi sono venute molte idee, ma tutto quello che mi veniva in mente mi terrorizzava. Tra le tante considerazioni ho pensato che la più giusta fosse quella di riacquistare un ruolo nella mia famiglia, perché solo così si è pronti per costruirsi un ruolo nella società. Negli ultimi permessi finalmente dopo vari tentativi sono riuscito a comporre il numero telefonico di casa. Mi aspettavo che si riversasse nei miei confronti un mare di imprecazioni. Non è stato così, quello che mi è stato detto mi ha fatto toccare il cielo con un dito. Mi hanno spiazzato.

Ora il mio pensiero è quello di ricomporre quel distacco che io stesso avevo determinato con il mio comportamento, aggiunto alle carenze determinate dal carcere.

Certo, molte di queste paure e problemi avrebbero potuto evitarmeli le istituzioni, concedendomi i benefici come i permessi un po’ prima. Ma io so che di queste e di altre paure ce ne saranno molte altre, e ugualmente proseguo ben determinato a superarle. Volevo anche dirvi che nulla di quanto ho detto è determinato dal volersi piangere addosso o cercare un qualche alibi. Certo la mia infanzia, in un piccolo paese alle pendici del Gennargentu, non è stata facile. Un luogo fatto di pastori, banditi ma anche tanta gente onesta, un luogo dove per poter reperire l’indispensabile per vivere si dovevano fare tanti sacrifici,

ma questo non giustifica nulla di quanto di sbagliato ho fatto.

Molta gente cresciuta in quegli stessi luoghi ha avuto un’infanzia più travagliata della mia e nonostante ciò ha avuto una vita colma di onestà, felicità e piena di soddisfazioni.

Ecco! Le paure e le sofferenze di cui ho parlato sono un po’ di ciò che ha comportato questa mia vita sbagliatissima!!!

 

 

 

 

Non si può fare riconciliazione se le parti non smettono di essere parti

È importante che le “parti” tornino a essere uomini e persone. Il lavoro del mediatore e del negoziatore è tutto lì, nell’aiutare chi è stato diviso dai fatti

   

di Duccio Scatolero, Criminologo, già Docente di Criminologia presso la Facoltà

di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino, Docente al Master Internazionale in

Mediazione – Istituto Kurt Bosch di Sion. È autore di molti articoli sul tema della gestione

dei conflitti e ha realizzato, e contribuito a realizzare, molti interventi di mediazione a

Torino e in tutta Italia

 

Io sono un criminologo che si è appassionato alla mediazione e ai temi della riconciliazione.

Devo dire che la questione della riconciliazione tra reo e vittima è solo un pezzo del lavoro che un mediatore potrebbe fare dentro un sistema penale. Il sistema penale è tutto un conflitto, dovunque si guardi, ovunque ci si giri, si trovano pezzi di quel sistema che litigano e che si scontrano fra di loro.

D’altra parte, gli uomini entrano nel sistema penale a partire da un conflitto che produce l’atto di trasgressione che poi porta le persone a entrare in questo sistema in cui tutti litigano con tutti, le parti nel processo, i custodi e i custoditi nel carcere, il reo e le vittima, il PM e l’avvocato, ce n’è per tutti. La prima raccomandazione che farei a tutti quelli che gravitano in questo sistema è di andare un po’ a scuola di conflitti e di negoziazione, perché farebbe a tutti un gran bene.

L’altro aspetto che vorrei sottolineare è che dentro questo sistema, ed è stato detto in mille modi diversi stamani, l’elemento che manca di più è la presenza umana, ovvero tutti quelli che girano dentro questo sistema subiscono dei processi di de-personalizzazione.

Ora, la de-personalizzazione e la de-umanizzazione vengono utilizzate molto dagli psichiatri come un sintomo per indicare e definire delle patologie, ma la de-personalizzazione e la de-umanizzazione sono processi utilizzati dalle istituzioni sempre di più in questa epoca storica: noi viviamo colossali e micidiali processi di de-umanizzazione, tutte le volte che incontriamo le istituzioni il primo messaggio che riceviamo è “io ti tratto da non persona, tu per me come elemento umano non esisti, io ti tratto come un’altra cosa”.

Anche nel sistema penale accade questo, e allora ci attacchiamo al discorso della riconciliazione, perché è l’unico che introduce dentro un sistema un pezzo di umanizzazione e di umanità: non si può fare riconciliazione se le parti non smettono di essere parti e non diventano uomini e persone o se non sono più capaci, se qualcuno non li aiuta a ridiventare persone e uomini. Il lavoro del mediatore e del negoziatore è tutto lì, nell’aiutare chi è stato diviso dai fatti e dalla violenza a ridiventare persona capace di dialogare con un’altra persona. Quindi il merito di questa risposta è sicuramente di riportare un pezzo di umanità nel sistema.

A me però sinceramente viene da fare un’altra riflessione: parliamo di riconciliazione, io non so perché tutte le volte che si parla di qualche cosa che ha a che fare con il sistema penale si deve mettere sempre un “ri” da qualche parte, ri-educazione, ri-socializzazione, ri-conciliazione. E la conciliazione? Quando verrà fatta? Dove verrà fatta? Verrà mai fatta? La conciliazione poi di che cosa? E allora la domanda è: ma non sarebbe più utile per tutti pensare di dotare la società, in territori della vita quotidiana, di strumenti che permettano alle persone di trovare una gestione dei loro conflitti? Perché se il conflitto produce un reato violento, non potremmo pensare, prima di arrivare ad avere un reo e una vittima da riconciliare, di avere solo due litiganti da potere gestire in qualche modo?

Qui la riflessione che mi vien da fare più generale è molto semplice: tutti noi umani in qualunque latitudine del mondo usiamo gran parte delle nostre vite per costruirci relazioni con gli altri, è un po’ il nostro patrimonio, la nostra ricchezza, la cosa che ci fa sentire bene, ci fa sentire importanti, e se non ne abbiamo di relazioni siamo infelici, e quando le relazioni per qualche motivo si rompono, si guastano, hanno degli accidenti, siamo preoccupati, siamo in ansia, siamo in difficoltà e allora la domanda che vien da fare è: ma se questo potremmo considerarlo quasi un bene dell’umanità, forse il primo bene dell’umanità, chi è che lo tutela? Chi è che lo protegge?

Quando siamo in difficoltà, chi incontriamo nei territori del nostro quotidiano che ci aiuta a gestire quella rottura, quella frattura, che ci dà una mano perché da soli non ci riusciamo? C’è una protezione civile per gli accidenti della natura, gli accidenti naturali, ma non c’è una protezione civile per gli accidenti relazionali umani e forse sarebbe il caso di incominciare a pensarci, perché i guasti si moltiplicano, diventano sempre più pesanti gli effetti e la sensazione di abbandono, di solitudine in cui si vivono queste esperienze di guasto è micidiale.

Mi vorrei fermare su un aspetto che mi interessa, anche perché ci ho dedicato un pezzo importante della mia vita, è un’esperienza di qualche decennio fa: mi ha molto colpito l’affermazione che ha fatto un relatore sul fatto che è più difficile frantumare il pregiudizio che l’atomo ed è vero, il pregiudizio che è cresciuto attorno alle vicende del penale, al carcere, alla costruzione del nemico e la costruzione del male attorno a tutto questo discorso, ha millenni dietro di sé, non possiamo illuderci di lottare contro questo pregiudizio senza fare tanta fatica, tantissima fatica, e senza interrogarci su come si fa e dove si va per lottare contro il pregiudizio, non basta dichiararsi disponibile a lottare contro, bisogna poi agire e fare delle cose.

A me è successo di farlo e tra tante storie, anche tristi, che abbiamo sentito stamani, vorrei raccontare molto brevemente questa storia non triste di una lotta che è arrivata a buon fine. A quell’epoca nel carcere minorile della mia città succedevano disastri molto pesanti, era diventata la bestia nera delle carceri minorili italiane, e l’ultimo episodio che fa crollare definitivamente la situazione è il sequestro di un giudice, del direttore, di qualche agente da parte dei ragazzi, sequestro che dura una notte e due giorni e poi entra la polizia e potete immaginare l’esito finale, e per pura fortuna non muore nessuno. Qualche giorno dopo il sindaco della città entra in questa situazione completamente distrutta e fatiscente e dichiara pubblicamente che la città è decisa fermamente ad agire su questa realtà, e mi viene dato l’incarico di occuparmene. E ricorderò fin che vivo il primo giro fatto in questa struttura dove c’erano le manate di sangue sui muri, le cose bruciate in terra e ovviamente il mio interrogativo era cosa dovevo fare, da dove dovevo prenderla quella faccenda. Io per giunta arrivavo da un soggiorno in Canada dove avevo lavorato in un carcere modello, dove tutto funzionava a meraviglia, dove c’erano teorie, contro teorie e tutto quello che c’è scritto sui libri che tanto piacciono ai criminologi, e decisi che avrei potuto fare il contrario di quello che avevo visto fare in questa situazione modello, e costruii un progetto dove l’obiettivo era, io dicevo, rieducare la città, usavo un termine che il linguaggio penal-criminologico

destina a chi abbia violato la legge, ma io lo usavo non nei confronti dei detenuti ma nei confronti della città. Considerando che molti degli esiti negativi dei processi, che si sviluppavano in quelle strutture, erano causati da ciò che la città non faceva o faceva malamente o diceva malamente, e quindi se c’era una cultura da cambiare e un’educazione da rifare era proprio quella della città, mi son posto lì la stessa domanda che mi ponevo prima, cioè: ma come si fa? E non avevo una televisione da manovrare, non avevo un giornale per produrre opinione, scelsi di praticare una strategia molto semplice, che è stata quella di far toccare con mano, cioè la gente cambia idea quando vede le cose come stanno e quando parla direttamente con gli umani che incontra nei posti dove vanno. E così decisi che in carcere doveva entrare la città.

In dieci anni portai settemila cittadini non a visitare il carcere, ma a starci dentro e a lavorare con i ragazzi, e la prima operazione la feci coi panettieri, presi i panettieri a raffica, tutti i panettieri della città, uno per uno, sui libri di criminologia non me l’avevano insegnato che si faceva così, lo imparai da solo e andai in ogni panetteria a raccontare la storia del carcere, la storia dei ragazzi in carcere e a dire “c’è bisogno di te” e le mogli mi saltavano in testa, “disgraziato abbiamo dei figli, una famiglia”. E con complice il cappellano occupammo la cappella, che era l’unico spazio disponibile nel carcere, e costruimmo nella cappella una panetteria, una vera panetteria, e poi incominciò il lavoro con i panettieri.

Dopo i panettieri arrivarono i meccanici autoriparatori, poi arrivarono gli imbianchini e i muratori e il carcere si riempiva di presenze, ma la cosa che mi ero inventato era che non era autorizzato il singolo volontario disponibile a fare delle cose e entrare, chi entrava a fare delle cose, poteva farlo solo per nome e per conto di un gruppo organizzato, perché l’accordo che si firmava era: d’accordo entrate, fate delle attività all’interno ma io vi voglio disponibili quando il ragazzo esce dal carcere, perché alzerò il telefono, vi chiamerò e a quel punto saranno fatti vostri occuparvene. Questo si metteva nero su bianco, tutti potevano entrare per rappresentare delle realtà associative esterne, in modo che ci fosse un gruppo capace di attivarsi nel momento in cui arrivava la telefonata dell’uscita del ragazzo. E così costruimmo una rete di duecentocinquanta gruppi di riferimento e in dieci anni ottenemmo dei grossi risultati. La cosa poi, come tutte le cose, ebbe una fine, perché è giusto che abbiano una fine, ma l’esperimento restò e segnò molti.

La sera di Natale era tradizione della buona borghesia torinese fare la messa nel carcere. Quell’anno, era la fine del decimo anno, io riuscii a fare invitare i ragazzi, ne erano rimasti pochi, del carcere a delle feste fuori dal carcere. I gruppi che facevano attività dentro si erano impegnati, tutti i ragazzi avevano un invito all’esterno, l’autorizzazione fu concessa dai giudici, tutto a posto, ma io ebbi l’ingrata idea di chiedere al direttore “senti, stanotte il carcere è vuoto, io ho già preso accordi con un TG, veniamo a girare e domani facciamo vedere a Torino che si può vivere con il carcere vuoto”, e lui mi disse di no, in dieci anni mi aveva detto sempre di sì a tutto e mi disse: caro Duccio questa non passa, questa non passa perché dopo una cosa del genere io dove vado? E tutti quelli che sono qui dove vanno? Io rispondo che va bene, il posto lo troveranno, non è il problema, fatto sta che di lì la cosa divenne sempre più in salita e io fui poi in qualche modo obbligato ad andarmene. Il discorso è che si può fare, se ci si mette a lavorarci. Qualcuno dice: sì lo hai fatto all’epoca, non è più fattibile oggi. Io dico che non è vero, è sicuramente fattibile in modi diversi da come è stato fatto ieri, perché allora non c’era la crisi, ma allora la gente comunque non era contenta di come viveva e oggi lo è forse ancora meno, e quelli che ho individuato essere alla fine i due perni, i due pilastri di quell’azione, li ritrovo tali e quali oggi praticabili e percorribili, e sono l’accoglienza e il riconoscimento.

Io non mi stancherò di dire, perché questo me l’ha insegnato l’esperienza lunga di lavoro anche sul territorio, che il bisogno di essere riconosciuti che ha la gente, tutta la gente, tutti noi, è un bisogno infinito che non trova mai soddisfazione, e quando questi artigiani e le altre persone che venivano dentro e si impegnavano, mi scrivevano e mi dicevano “La mia vita è cambiata dopo questa esperienza”, io ribattevo “Ma come può cambiarti la vita una mezza giornata ogni quindici giorni che fai di questo servizio?” “Caro lei, la mia vita è cambiata perché io adesso sento di contare di più, io sono riconosciuto come uno che è utile agli altri, mi hanno chiesto, mi hanno detto che c’era bisogno del mio aiuto e io l’ho dato, e questo mi fa vivere meglio”. E quelle mogli che mi assalivano all’inizio, quando le rivedevo mi dicevano “Non finiremo mai di dirle grazie perché i nostri mariti non sono più quelli, cioè si occupano dei figli, chiedono di andare loro a scuola a parlare con i professori, fanno cose che non avrebbero mai fatto prima”. L’altro pilastro è quello dell’accoglienza, non si può accogliere un altro, sentire le sue emozioni, se non si è liberi nell’incontro e nella relazione, liberi da vincoli di professionalità, liberi da obblighi e liberi da impegni, solo l’uomo può accogliere dentro di sé l’altro uomo, e l’accoglienza ha a che fare con l’ospitalità, cioè quando io accolgo uno e sento vivere dentro di me le sue emozioni è come quando si ospita uno sconosciuto, il forestiero, lo si fa entrare dentro i propri spazi domestici, gli si offre il cibo ma oltre il cibo lo si sta anche ad ascoltare, e quell’ascolto è autentico. E solo gli uomini non impegnati professionalmente possono offrire questo ascolto autentico ed è questa accoglienza, sentirsi accolti, che trasforma le persone, ed è una storia vecchia, è una storia vecchia come il mondo. E se qualcuno di voi ricorda la lettura di Omero, Ulisse naufrago all’isola dei Feaci viene accolto dal re dell’isola che non sa chi è e neanche glielo chiede, viene vestito, vengono aperti danze e giochi in onore dello sconosciuto approdato sull’isola, naufragato sull’isola, e Ulisse, l’eroe che aveva battuto Troia, che aveva navigato per mille mari, lì, sentendosi accolto per la prima volta, piange, singhiozza e non ferma più il pianto. Vi lascio questa immagine e vi saluto, grazie.