Capitolo quinto: La prima “riconciliazione” quella con la propria famiglia

 

A vedere certi film che narrano del ritorno a casa di reduci da guerre come quella in Iraq, viene in mente un paragone, non così azzardato, con il rientro in famiglia di un detenuto dopo anni di galera: persone spezzate, spaventate ma spesso incapaci di ammettere la propria fragilità, di fare i conti con le proprie emozioni, di cui raramente riescono a parlare con qualcuno nel corso di lunghe carcerazioni, passate spesso a nascondersi che “ritornare a casa” sarà drammaticamente difficile. Forse perché, come scrive Vanna Iori, docente di pedagogia che da anni si occupa anche delle famiglie dei detenuti, “emozioni e sentimenti sono stati esclusi dal sapere visibile della formazione perché ritenuti misteriosi, perturbanti e potenzialmente pericolosi”. Così viene negato o trascurato il diritto alla genitorialità e la possibilità di mantenere relazioni affettive con la famiglia.

 

 

 

Il tempo fuori passa, invece in carcere il tempo si ferma e rimane lì

 

di Dritan Iberisha, Ristretti Orizzonti

 

Questo argomento è troppo difficile, e io non sono in grado di fare lezione e dare consigli a nessuno di voi. Vorrei però raccontare il rapporto che ho con una persona (molto importante per me) che oggi sta qui, che è mia figlia, e oggi c’è anche il suo fidanzato che è la prima volta che mi ascolta. Allora, nei primi anni di carcere, quando la incontravo,mi vedevo proprio nei suoi occhi. Quando era piccolina le facevo i disegni, i cuori, queste cose che fanno i padri nelle carceri ed io pure facevo. I padri normali i regali li comprano e li regalano già fatti e questo era anche il mio sogno, la mia speranza, il mio pensiero fisso: un giorno uscirò dal carcere, perché c’è sempre la speranza, tutti hanno la speranza che un giorno usciranno, e farò tutte queste cose che non ho potuto fare. Ma il tempo fuori passava, invece in carcere il tempo si ferma e rimane lì, i detenuti come me non si accorgono che il tempo si è fermato per noi, ma non per le nostre famiglie là fuori. Loro andavano avanti, continuavano a vivere, continuavano la loro vita, continuavano a volte anche a vergognarsi, continuavano a vivere in un mondo nascosto, un mondo che quando gli amici, le amiche, i professori chiedevano “Dov’è tuo padre? Perché non viene mai?” li costringeva a nascondersi.

Ma noi queste cose in carcere non le sappiamo, non sappiamo cosa fanno veramente i nostri figli, non sappiamo come rispondono alle domande di chi è curioso di sapere qualcosa dei loro padri. Nei colloqui che noi facciamo in carcere, io lei l’ho vista piccolina, l’ho vista crescere, ma crescere a puntate, ogni due o tre mesi che la vedevo mi sembrava sempre più grande, ho visto che era una ragazza vivace, nei primi anni la vedevo solo a metà, solo metà corpo perché ai colloqui c’era un muro di cemento, e c’era un vetro tra noi e loro e i familiari dovevano stare seduti dall’altra parte (questi banconi purtroppo esistono ancora oggi in qualche carcere, purtroppo esistono ancora).

Allora io mia figlia l’ho vista per anni e anni a metà, a volte triste, a volte felice, a volte faceva finta di essere felice, anche io facevo finta di essere felice, che stavo bene, che era tutto apposto, che nella mia vita andava tutto bene, in verità non andava bene niente, non andava bene niente ma tutto serviva per darci il coraggio tra di noi. Intanto passavano gli anni e io continuavo a pensare “Quando uscirò dal carcere, mia figlia la prendo e la porto al mare, visto che io sono nato dove c’è il mare, poi la porto in montagna, la porto dappertutto, faccio tante cose”. Tanti sogni, ma quando sono uscito per la prima volta in permesso l’ho vista camminare veloce e venire verso di me, l’ho vista correre e lì mi sono accorto che era proprio questo quello che mi era mancato per anni e anni, proprio questo, ma quale mare, quale montagna, mi mancavano i gesti più semplici. Allora ho detto: cominciamo dall’inizio, cominciamo dal primo passo, ma anche lì ho pensato che era facile, mi sono detto “Adesso faccio il padre, faccio così, io devo dare i consigli a mia figlia, lei deve crescere con le idee chiare, lei deve avere le idee chiare nella vita”. Ero convinto che i consigli li dovevo dare io e ho continuato a farlo e a volte non mi fermavo. Invece mi sono accorto che è lei che è diventata la mia consigliera. Io adesso non faccio niente se non mi consiglia lei, e però continuo a chiedermi: “Ma adesso sono i figli che consigliano i padri?”. Io sono certo, sono sicuro che in carcere succede questo, che i figli consigliano i padri, e io non so come ringraziare mia figlia, l’unico ringraziamento che le posso fare è grazie di essermi vicina, non è che posso fare altro con le parole oltre che dirle che le voglio tanto bene. Io è da un po’ di anni che vado in permesso e piano piano sto iniziando a prendere le mie responsabilità.

Volevo finire ringraziando la redazione di Ristretti Orizzonti per tutto il lavoro che fa per migliorare la vita di tutti i detenuti, compresa la mia, e volevo invitarvi a fare l’abbonamento alla rivista, cosi potete capire come si vive in carcere direttamente dai racconti dei carcerati.

 

 

Mentire ai figli è una cosa da non legittimare…

…ma saper distinguere il desiderio di proteggere una relazione dalla minaccia di una verità distruttiva è una competenza necessaria nell’accompagnare i genitori detenuti

 

di Elisabetta Musi, ricercatrice di Pedagogia

generale e sociale, Università Cattolica di Piacenza

 

Due anni fa ho realizzato insieme ad alcuni colleghi una ricerca, dal titolo Genitori comunque1. Riguardava i padri detenuti e i diritti dei bambini.

È stata la prima occasione per avvicinarmi al carcere, per conoscerlo “dal di dentro”, ascoltando le storie di “paternità interrotte”, di famiglie frammentate, spesso disperse ai quattro angoli del mondo.

Al termine della ricerca, poi confluita in una pubblicazione1, abbiamo organizzato un convegno presso la sede dell’Università, a cui hanno partecipato anche alcuni papà intervistati.

Quell’incontro tra studenti e detenuti ha suscitato domande, richieste di approfondimento, desiderio di prosecuzione. Qualche mese dopo Carla Chiappini, direttrice di Sosta forzata, la rivista che viene realizzata nel carcere di Piacenza, ci ha rivolto l’invito a partecipare a qualche incontro di redazione. Ricordo l’entusiasmo sul viso degli studenti, ma anche lo smarrimento nel trovarsi in una stanza piccola e disadorna, dopo averattraversato cancelli e corridoi. Ad accoglierli un gruppo di 12 uomini più o meno giovani, emozionati alpari dei ragazzi e delle ragazze.

Quell’esperienza prosegue da tre anni: cambiano gli studenti e in genere si rinnova anche tutto il gruppo di detenuti; si conferma l’intensità delle emozioni, gli smarrimenti, la gratitudine reciprocaper incontri che ogni volta hanno qualcosa di speciale: suscitano confidenze, commozione, rinnovano sguardi, producono comunicazioni ulteriori attraverso lettere…

Mi è capitato poi di collaborare anche con altre realtà carcerarie, in cui sono stata a parlare della ricerca, della possibilità di essere genitori “nonostante” le restrizioni imposte dalla detenzione. Mi colpisce ogni volta l’insistenza con cui papà e mamme mi chiedono cosa dire ai figli. E mentre constato con sgomento che a fronte di assenze di mesi, in qualche caso di anni, i figli non ne siano informati, mi ostino a raccomandare di nutrire la relazione di verità: con le bugie si creano le condizioni per rendere il distacco irreversibile, una volta che i figli abbiano scoperto cosa c’è sotto.

Dire questo mi aiuta a dichiarare la prospettiva con cui guardo il carcere: come ricercatrice, ma anche come educatrice impegnata a capire – insieme ai colleghi con cui condivido questi percorsi di studio, insieme a studenti e studentesse agli stessi detenuti e agli operatori con cui mi confronto – se è possibile conservare un ruolo genitoriale pur nella restrizione carceraria, e in che modo, a qualicondizioni.

Tentare di rispondere a queste domande mi ha portato a rilevare impedimenti invisibili, spesso subdoli e impercettibili – ma non per questo irrilevanti o poco incisivi –: barriere granitiche contro le quali si infrangono dichiarazioni di intenti e buoni propositi. In altre parole: per consentire ad un padre o ad una madre detenuti di esercitare – per quel che è stabilito dalla legge - il proprio ruolo genitoriale è necessario prima verificare se non vi siano volontà contrarie più o meno inconsce (e certamente mai dichiarate), timori o incapacità di gestire una relazione non semplice ma da intendere come un diritto per entrambe le parti. E dunque da garantire. Provo ad argomentare alcuni, possibili, invisibili impedimenti.

 

1. “Per costruire alleanze occorre prima fare i conti con le disalleanze”. Questa frase l’ho trovata in una ricerca di Maria Grazia Contini, docente di pedagogia all’Università di Bologna che, volendo documentare l’attivazione di scambi e relazioni tra le famiglie di alcuni servizi per l’infanzia, si è accorta invece di dover fare i conti con inconfessate resistenze, ostacoli e impedimenti invisibili e per questo ancora più difficili da rimuovere2. L’indifferenza, la fretta, la chiusura determinano una sorta di “controcultura” che di fatto polverizza sul nascere quanto viene auspicato a parole. Capire questo aiuta a ridimensionare le aspettative, permette di guardare la realtà con più consapevolezza e aiuta, forse, a finalizzare gli investimenti e le energie riducendone la dispersione e gli sprechi. D’altra parte la recente ricerca psicoanalitica ci informa dell’esistenza di “alleanze inconsce”3a fondamento di tutti i legami intersoggettivi, fisici e simbolici. Il loro essere inconsce le espone al rischio di logiche ingovernabili e nascoste: alla dichiarazione esplicita e consapevole di un’intesa (un’alleanza) può essere sottesa infatti una disalleanza, cioè un’alleanza con una realtà diversa da quella dichiarata, in conflitto con la prima. Nelle dinamiche dei “vorrei ma non posso”, “mi piacerebbe ma non dipende da me”, “sarei più convinto ed efficace se la situazione non celasse qualche motivo di preoccupazione”… si esprimono catene di tradimenti, promesse non mantenute, aspettative prima alimentate e poi deluse, temporeggiamenti senza esiti che giustifichino i vissuti di ansia che suscitano. “Il tradimento è il fare a pezzi la fiducia e la fede che l’alleanza richiede per stabilirsi. Il tradimento è il rischio dell’alleanza, il rovescio nascosto, ma attivo, della sua posta in gioco. Il tradimento è uno dei modi per uscire da un indebitamento psichico divenuto insolubile, ma è anche un movimento di rottura dei legami stabiliti per cercare altrove una realizzazione del desiderio”4.

Chi tradisce sacrifica ciò a cui tiene di meno. Basta fare un giro negli spazi di un carcere, informarsi sulla sua organizzazione, verificare quanta attenzione viene riservata ai figli di detenuti e detenute: negli orari e nei luoghi di accoglienza, nelle possibilità di dialogo, di supporto alle inevitabili crisi di un rapporto…, per capire quali alleanze si stanno realizzando, e ai danni di chi.

Seguendo questo ragionamento non è difficile incontrare altri esempi: se la direzione di un carcere accetta di partecipare a progetti con le realtà del territorio (volontariato, scuole, cittadini) ma poi ritarda a rispondere alle mail e quindi non consente a chi sta fuori di organizzarsi, è restrittiva sugli ingressi, chiede proposte scritte che poi non discute e non prende in considerazione, è proprio vero che vuol stabilire un’alleanza?

 

2. Alcune sere fa ascoltavo il Provveditore dell’Emilia Romagna in una conferenza pubblica, in cui parlava dell’esistenza di “un gaudio sottile legato allo sfascio”. Per associazione la memoria è corsa agli avvertimenti di Freud riguardo alle pulsioni di vita e di morte, Eros e Thanatos5. In sostanza Freud sostiene che la meta delle pulsioni erotiche (o di vita) è la coesione e lo sviluppo dell’individuo, mentre l’obiettivo delle pulsioni di morte è l’autodistruzione, la dissoluzione dell’unità dell’organismo, il ritorno allo stato primordiale inorganico.

L’istinto di morte non è direttamente osservabile, ma si coglie in comportamenti apparentemente non distruttivi, come l’opposizione – spesso inconscia - a qualunque cambiamento.

È necessario quindi chiedersi quali motivazioni ci determinano nell’operare in carcere, da quali necessità psichiche essi scaturiscono, quali pulsioni le alimentano, per quale ragione profonda vengono dichiarati e poi rigettati, negati, ignorati, dimenticati. Diversamente ciò che rimane irrapresentato concorre alla formazione di contro-alleanze come ritorno del rimosso.

 

3. Le altre due condizioni che ho verificato come decisive affinché un padre o una madre riescano a riprendere in mano la propria storia di genitori sono legate al tema della verità.

Nella ricerca sui genitori detenuti e anche in altre occasioni di confronto, centrale è stata una preoccupazione dei genitori in carcere: dire o non dire la verità ai figli? E se mentire, perché? Su che cosa mentire?

La nostra posizione di educatori e di pedagogisti è sempre stata quella di convincere a dire la verità. Ma con-vincere, composto di “vincere” e “con”, può significare “vincere con qualcuno”, così come “vincere con qualcosa” mediante un esercizio di potere; quindi vincere ad esempio con la forza, in questo caso con la forza della persuasione, arrivando a sopraffare, imporre. Ancora una volta dietro a buone intenzioni ci possono essere rapporti di autorità. Ho provato ad allentarli rischiarandoli con la luce del dubbio: una bugia può contenere verità? È possibile scoprire qualcosa di vero grattando la superficie di una falsità?

Per salvare qualche barlume di verità dentro un inganno bisogna essere certi dell’inganno ma soprattutto saper riconoscere quel barlume di verità; diversamente, pretendere di imporre la verità, solo perché la si ritiene dotata di una forza propria e indiscutibile, è una operazione cinica.

Mentire ai figli è certo una cosa da non perseguire, da non legittimare, ma saper distinguere il desiderio di proteggere una relazione dalla minaccia di una verità distruttiva è una competenza necessaria nell’accompagnare i genitori.

Questo l’ho capito imbattendomi nella lettura di uno scritto del teologo Dietrich Bonhoeffer, il quale, al momento dell’arresto da parte della Gestapo, stava scrivendo una riflessione dal titolo “Che cosa significa dire la verità?”6.

Scrive il pastore protestante: “Un maestro chiede a un bambino dinanzi a tutta la classe se è vero che sua padre spesso torni a casa ubriaco. È vero, ma il bambino nega […]. Nel rispondere negativamente alla domanda del maestro, egli dice effettivamente il falso, ma in pari tempo esprime una verità, cioè che la famiglia è un’istituzione sui generis nella quale il maestro non ha diritto di immischiarsi. Si può dire che la risposta del bambino è una bugia che contiene più verità, ossia che è più conforme alla verità che non una risposta in cui egli avesse ammesso davanti a tutta la classe la debolezza paterna.

In quella classe ci sono due ragazzi che abitano vicino all’interrogato e sanno perfettamente come stanno le cose. Uno di loro, per amore di precisione, si alza in piedi e dice di conoscere benissimo qual è la realtà dei fatti, ossia che il padre torna spesso ubriaco. L’altro, però, interviene dicendo che non è per nulla così, che il ragazzo che ha appena parlato si sbaglia perché confonde il padre del ragazzo interrogato con un altro uomo, e che lui, che abita proprio lì accanto può garantire che le cose stanno effettivamente così”7.

Si presenta nuovamente il problema: quale di questi dice la verità? Il primo si fa garante della “realtà dei fatti”, indifferente ai vissuti che il comportamento del padre suscita nel figlio. Il secondo invece “personifica una concezione in virtù della quale il rapporto umano è più importante della descrizione oggettiva di come stanno effettivamente le cose, una concezione della vita al vertice della quale c’è la relazionalità dell’essere e che individua il criterio decisivo nell’incremento della qualità delle relazioni”8. Nel primo caso la verità è qualcosa di statico, oggettivo, irriducibile

alla possibilità di essere diversamente interpretata e riferita. Nel secondo è un processo, una relazione, una conquista. Scrive a questo proposito Bonhoeffer: “la parola veridica non è una grandezza costante in sé: è vivente come la vita stessa. Quando essa si distacca dalla vita e dal rapporto concreto con il prossimo, quando qualcuno dice la verità senza tenere conto della persona a cui parla, c’è l’apparenza ma non la sostanza della verità”9.

Condurre verso la verità tenendo conto delle condizioni della persona a cui si parla può contemplare mediazioni e compromessi temporanei per salvaguardare un livello più alto di verità: quello dei sentimenti, dei legami affettivi. Un padre dice a un figlio che quello in cui si trova è il suo luogo di lavoro, o che è stato arrestato per sbaglio. È una menzogna, ma è anche la custodia a un livello superiore di verità; ha in sé qualcosa di buono, da salvare. Dà la misura, l’indicazione di come procedere nel rispetto del diritto del figlio a sapere gradualmente come stanno le cose, e nel supporto ad un padre affinché trovi le parole per restare fedele al proprio ruolo genitoriale, che resiste alle privazioni del carcere in forza di un legame affettivo.

Anche in questo caso dipende da quale alleanza si intende realizzare: col potere e l’uso cinico della verità o la ricerca di un contatto con un’umanità che richiede comprensione, piccoli passi, pazienza.

 

4. Per rinascere come genitori occorre che qualcuno sia in grado di ri-generarci, di rimetterci al mondo.

Non si nasce infatti una volta per tutte. Unica è la data “biologica” della nostra nascita, a cui seguono innumerevoli altre – spesso invisibili, e tuttavia necessarie – rinascite simboliche, affettive, relazionali.

Concretamente cosa vuol dire? Provo a dirlo anche in questo caso con un’esperienza, un’esperienza di ricerca che mi ha insegnato qualcosa. Anni fa analizzavo i diari dei ragazzi e delle ragazze tossicodipendenti di una comunità al termine di un percorso di recupero.

Mi colpirono i racconti di due donne, entrambe con figli, due bambine di qualche anno. Queste mamme dicevano di essersi finalmente accorte delle loro creature, pur avendole partorite, ma non esattamente “date alla luce”, poiché in quel periodo la loro vita era ancora avvolta dal buio dell’angoscia, risucchiata nel vortice della droga.

Cosa era intervenuto a cambiare le cose? Era successo che qualcuno aveva iniziato ad occuparsi di loro, della loro storia, dei vissuti ancora indipanati riguardo alle famiglie d’origine. E così sono riuscite ad uscire dal loro mondo ferito per fare spazio ad un altro mondo, per “mettere al mondo” una vita già nata. Essere state ri-generate, prese in cura da qualcuno aveva dato loro la forza, il riconoscimento, la legittimazione a potersi sperimentare come madri.

Anche la carcerazione crea un taglio, un blackout rispetto al quale occorre ricollegare fili, accendere

luci, stabilire ponti di comunicazione in grado di veicolare ascolto, incoraggiamento, fiducia.

Ma come? Si può fare in molti modi, immagino, nella mia esperienza ho constatato che aprire

spazi di narrazione, permettendo di socializzare i vissuti, rendendoli visibili, scambiabili, depositabili presso i pensieri le memorie altrui, dà forma ad altre versioni di sé, che l’esperienza di essere e sentirsi sostanzialmente detenuti pare annullare.

Rigenerarsi vuol dire cercare le parole per “dirsi” in una nuova condizione, cercare le parole per conciliare la realtà di “prima” del carcere con quella di “dopo”, di adesso; per tenere in un’unica trama la realtà “di fuori” e quella “di dentro”. “Dirsi” non è scadere in una logica egocentrica, semmai eco-centrica, cioè intonata, accordata con la presenza degli altri, memore dei moti del cuore (ac-cordata da cor cordis), in sintonia con la profondità del sentire emotivo altrui. Questa è una prima pratica di verità. Verità che da subito, anche agli studenti, è sembrata una faticosa conquista. Per tutti i soggetti coinvolti.

Particolarmente dolorosa e difficile da pronunciare, da ascoltare, quando affiora da una ferita. In questo caso la verità è memoria di uno strappo, di un distacco, un tradimento, è impressa nelle pieghe della carne come la violenza di un marchio indelebile. Ricorda una cesura, un taglio, una separazione che produce due lembi, due margini, due fronti contrapposti: che scandiscono l’io e il tu, il noi e il loro: desiderio e conflitto, ricerca e rifiuto. Eppure su quella ferita le piastrine della verità lavorano con la perizia di un bisturi, come in un’incisione da cui scaturisc quanto ribolle sotto la pelle procurando un dolore esteso, che si propaga, infiamma, rende inquieti.

L’intarsio prevede un intervento di precisione chirurgica, una suturazione, reiterate medicazioni, la pazienza dell’attesa, la sopportazione della carne in fermento.

Il risultato è incerto. Certo è solo uno stigma incancellabile. Se non agli occhi di tutti, di certo al proprio sguardo interno. La ferita di un corpo, di un’anima diventa così metafora di un’umanità sanguinante, che stenta a riconoscersi.

Eppure è proprio dalla capacità di stare nella ferita che maturano possibilità di contatto, connessioni in potenza: da lì qualche linfa vitale innerverà i tessuti con continuità, attenuando il divario tra normalità e “devianza”, noi e loro. Accettare di vivere nello spazio della ferita, con la tensione a creare una cultura connettiva, è un’operazione arrischiata: significa esporsi deliberatamente al rischio di non riuscire a distinguere il mio e il tuo, l’io dal tu come istanze separate e garantite nella loro differenza.

Significa imparare la capacità di contenere l’ansia infantile di stabilire confini, trincee, de-finizioni.

Vuol dire sottrarsi all’affanno di controllare la realtà per la mediazione di parole che separano, accettando invece di lasciarsi trapassare dal dubbio che confonde ma contemporaneamente flessibilizza i confini. E rendendoli incerti permette di attraversarli.

Nessun buonismo omogeneizzante. La memoria della ferita, rimane. Ma forse si apre anche la possibilità di superare irrigidimenti immobilizzanti e mortiferi, rivitalizzare la disponibilità alla ricerca, ampliare gli spazi di movimento. Aumentare le probabilità di dialogo.

Questo è stato il senso degli incontri tra i miei studenti e i detenuti: cercare parole oneste, non consumate, non buoniste, ma nemmeno convenzionali per “dirsi”, raccontarsi, forse conoscersi meglio.

Parole misurate, sempre molto prudenti da entrambe le parti, ma generative. La conferma della loro efficacia è stata la reciprocità: l’incontro ha messo in moto racconti imprevisti, soggettività insospettate, parole toccanti da entrambe le parti; narrazioni che realizzano una pratica educativa, quella di chi pensa attraverso la modificazione di sé.

 

 

1 V. Iori, A. Augelli, D. Bruzzone, E. Musi, Genitori comunque. Padri detenuti e diritti dei bambini, FrancoAngeli,

Milano 2012

2 M.G. Contini, Disalleanze nei contesti educativi, Carocci, Roma 2012.

3 Kaës R., Le alleanze inconsce, Borla, Roma, 2010. 4 Ib., p. 49.

5 Freud S. (1920), Al di là del principio del piacere, Bollati Boringhieri, Torino 1986.

6 D. Bonhoeffer (1942), “Che cosa significa dire la verità?”, in appendice a Etica, Bompiani, Milano 1983. 7 Ib., pp. 310-311.

8 V. Mancuso, La vita autentica, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 114.

9 Bonhoeffer D., cit., p. 309