Capitolo primo: La verità e la riconciliazione, dal Sudafrica a noi

 

Partiamo allora dalla Commissione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica, per capire che cosa quell’esperienza ci può insegnare, in un momento in cui da una parte domina nella nostra società l’idea di una giustizia solo punitiva, e però dall’altra quel modello garantisce solo un’illusione di sicurezza. “Con troppa facilità la novità dell’esperienza delle Commissioni per la verità e la riconciliazione è stata accantonata e giudicata come qualcosa che tutto sommato ha potuto funzionare più o meno bene per paesi arretrati. Non si è cercato di capire che alcuni degli aspetti fondamentali della giustizia, e soprattutto il tema della centralità delle vittime, possono e debbono entrare in una riforma della giustizia di tipo tradizionale, di tipo occidentale” (Marcello Flores).

 

 

 

Sudafrica: come affrontare un passato di abusi dei diritti umani

Dopo un periodo di conflitti, la rivoluzione negoziata verso un’epoca di restaurata democrazia e di ricambio della classe politica al potere è una fase molto delicata che passa attraverso un necessario percorso di ri-edificazione

 

di Adolfo Ceretti, Professore ordinario di Criminologia,

Università di Milano-Bicocca,e Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione

Penale di Milano. Tra le sue pubblicazioni, Cosmologie violente e Oltre la paura

 

Eccoci chiamati subito ad affrontare un tema a mio giudizio decisivo, quello della verità e della riconciliazione nell’esperienza sudafricana, ma non solo.

Nella seconda metà del Ventesimo Secolo la storia di molti Paesi è stata caratterizzata dalla transizione verso la democrazia dopo decenni di governi di stampo autoritario, dittatoriale, militare. Per portare solo alcuni esempi è sufficiente ricordare quanto è avvenuto in Europa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e la caduta del nazismo; sempre in Europa, più recentemente, in seguito al collasso dell’Unione Sovietica; nell’America del Sud, con l’opposizione ai regimi autoritari nati dai golpe degli apparati militari; e infine in Sudafrica, in seguito alla fine del regime dell’Apartheid.

È sicuramente un percorso nuovo e peculiare della storia contemporanea quello intrapreso da quei Paesi che hanno saputo gestire il cammino della transizione in modo pacifico. Laddove, invece, nel mutamento il tragitto dei popoli ha incontrato la guerra – come nella ex Jugoslavia o in numerose repubbliche della ex Unione Sovietica – ciò è accaduto per cause complesse, che rimandano soprattutto ai nodi della rivendicazione nazionale e della identità etnica.

Alex Boraine – che è stato il Vicepresidente della Commissione sudafricana – ha scritto che i Paesi in transizione sono accomunati da alcune caratteristiche simili: 1) il passaggio da un regime totalitario a una forma di democrazia; 2) un periodo di oppressione e di gravi violazioni dei diritti umani; 3) un governo fragile e un’unità precaria; 4) l’impegno alla promozione di una cultura dei diritti umani e di rispetto della legalità; 5) la determinazione a impedire che le violazioni passate si ripetano.

I Paesi in transizione devono inoltre confrontarsi, sempre secondo Boraine, con alcune questioni centrali: 1) come affrontare un passato di abusi dei diritti umani; 2) quali misure adottare nella fase di transizione, e quale atteggiamento tenere nei confronti dei responsabili di quegli abusi.

Le transizioni pacifiche, o rivoluzioni negoziate, cui abbiamo assistito sono state caratterizzate, proprio per il loro carattere non-violento, dalla ricerca di un compromesso più o meno dichiarato tra i detentori della vecchia autorità e i movimenti rappresentativi delle nuove istanze. In Sudafrica, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso si sono confrontate, infatti, due posizioni politiche opposte: da una parte, il Governo Sudafricano avrebbe voluto dimenticare i decenni dell’Apartheid (considerati come un “errore”) per concentrarsi sulla costruzione di un Paese nuovo; dall’altra parte, l’African National Congress – il Partito politico di Nelson Mandela – e le altre organizzazioni di liberazione avrebbero voluto ottenere l’incriminazione dei responsabili della politica segregazionista e delle violazioni dei diritti umani attraverso l’istituzione di Tribunali ad hoc, ispirati al modello di Norimberga.

La Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana rappresenta uno degli esiti del compromesso raggiunto tra le parti contrapposte, e ha consentito di rendere tollerabile la distanza tra due posizioni apparentemente inconciliabili. La scelta della via negoziata è stata favorita da una circostanza di carattere generale: uno scontro violento, anche qualora si fosse concluso con un mutamento delle condizioni sociali favorevole alla popolazione nera, avrebbe certamente avuto quale conseguenza l’esodo della popolazione bianca dal Paese. E poiché quest’ultima controllava e controlla gran parte delle attività economiche, l’ulteriore conseguenza sarebbe stata quella di una crisi economica dalla quale il Paese difficilmente sarebbe uscito. Ciò significa, allora, che tra le considerazioni che hanno condotto a una soluzione di compromesso va annoverata anche quella relativa alla convenienza di entrambe le parti.

Purtroppo non posso spiegare ora e qui perché, a mio avviso, occorre conferire un segno positivo a tale virtù del compromesso. Basterà ricordare che queste dinamiche hanno comportato, in innumerevoli circostanze, un’intersezione tra gli interessi economici e politici, i valori e le istanze socio-culturali della classe dirigente sconfitta e quelli delle élite rappresentative delle nuove istanze. Ma soprattutto hanno comportato la ricerca di una soluzione che permettesse questa compresenza, questa sovrapposizione. L’ambito politico è stato sicuramente quello dove tale sovrapposizione è stata meno evidente – come conseguenza della sostituzione più o meno diffusa della classe dirigente –, mentre tale intersezione è stata più intensa nell’ambito economico e all’interno di quelle istituzioni (forze armate, magistratura, apparati della Pubblica Amministrazione) coinvolte nella ricerca di un accordo e talvolta garanti della mediazione raggiunta (Flores).

Dopo un periodo di conflitti, abusi e violazioni dei diritti umani la rivoluzione negoziata verso un’epoca di restaurata democrazia e di ricambio della classe politica al potere è una fase molto delicata che passa attraverso un necessario percorso di ri-edificazione. Il ruolo strategico-politico di tale fase (e soprattutto delle procedure e delle modalità con cui si è deciso di affrontarla) è appunto quello di ricostruire, creare una nuova comprensione del regime politico precedente allo scopo di contribuire sia alla legittimazione del nuovo sistema politico che a delegittimare quello vecchio e la sua ideologia, scolpendo un quadro duraturo degli eventi passati (Teitel; Hamber).

Tutto ciò, se da un lato ha permesso e permette di evitare ulteriori conflitti armati e la resistenza inflessibile al cambiamento da parte della vecchia classe dirigente, dall’altro non deve significare che il prezzo da pagare per una svolta pacifica sia l’oblio del passato.

Marcello Flores insegna Storia contemporanea e Storia dei diritti umani nell’Università di Siena ed è stato

Assessore alla cultura nel capoluogo toscano, è probabilmente la persona più qualificata per illuminarci su questi temi. È stato il primo, in Italia, a pubblicare un libro sulla esperienza sudafricana. Il suo libro, intitolato Verità senza vendetta. L’esperienza della Commissione Sudafricana per la Verità e la Riconciliazione, pubblicato nel 1999 da Manifesto Libri è uscito pochi mesi dopo la fine dei lavori della Commissione, avvenuta nell’ottobre del 1998. Prima di dargli la parola ricordo almeno altri tre libri di altissimo profilo scientifico, Tutta la violenza di un secolo, Storia dei diritti umani, Il genocidio degli armeni.

 

 

 

 

Dal Sudafrica, l’idea della “cultura arcobaleno”

 

Marcello Flores, insegna Storia contemporanea e Storia comparata

alla facoltà di Lettere dell’Università di Siena. Ha pubblicato, tra l’altro: Verità senza

vendetta. L’esperienza della Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione;

Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo; Tutta la violenza di un secolo.

 

Vent’anni fa quando Nelson Mandela è diventato Presidente del Sudafrica tutto il mondo si attendeva un bagno di sangue in Sudafrica, e riteneva che il Sudafrica non sarebbe stato capace di raggiungere la democrazia liberamente e pacificamente. Dopo cinque anni la scommessa di Mandela era vinta, non perché in quegli anni non ci fossero state violenze, ma perché la volontà di superare i conflitti e la tragedia che per cinquant’anni il Paese aveva sofferto erano già al primo posto del suo programma. Mandela, ricordiamolo, era finito in galera la prima volta nel 1960 ed era stato poi condannato nel ‘63, all’epoca era a capo della gioventù dell’Africa National Congress, che aveva appena deciso di iniziare la lotta armata, perché riteneva impossibile continuare nella modalità di lotta pacifica che aveva svolto nei vent’anni precedenti.

Nei ventisette anni della sua detenzione a Robben Island (dal ’62 all’82) e poi nella prigione di Pollsmoor (dall’82 all’88) e di Victor Verster (dall’88 al ’90), Mandela si confrontò criticamente con i giovani prigionieri del movimento Black Consciousness che auspicavano una lotta radicale anche contro i bianchi contrari all’apartheid, con i fautori delle uccisioni delle spie e traditori interni all’ANC e al MK, con chi suggeriva e praticava, negli anni ’80, azioni di tipo terroristico che colpivano vittime civili innocenti.

Respingendo sempre, al tempo stesso, ogni richiesta del governo di dichiarare la fine della lotta armata in cambio di condizioni migliori di detenzione e di uno sconto di pena.

Così, nel lungo periodo, ventisette anni, che Mandela trascorre in prigione, egli riesce a seguire, pure nell’isolamento della detenzione, l’evoluzione che il mondo contemporaneo sta vivendo, e riesce a trasmettere immediatamente ai suoi compagni e al suo popolo l’idea che a un certo punto la violenza non possa più essere l’arma principale e nemmeno di ausilio per riconquistare pienamente e definitivamente la democrazia; e grazie anche alle esperienze che c’erano state negli anni Ottanta, come ha ricordato prima Adolfo Ceretti, la fine delle dittature militari in America Latina, il crollo del comunismo in Europa centrale e orientale con il crollo dell’URSS, tutto questo, costituisce un mondo nuovo in cui la cultura dei diritti riemerge con grande forza, quella cultura dei diritti che aveva dato nel 1948 quello straordinario documento che è la Dichiarazione universale dei diritti umani, che era stata praticamente messa nel frigorifero per venti, trent’anni.

Per la prima volta l’uguaglianza non era più sancita tra «cittadini» di uno o l’altro Paese, ma tra tutte le «persone» del mondo, senza distinzioni di sesso, razza, religione, credo politico, ruolo sociale. La forza della Dichiarazione – una forza morale e politica più rilevante che se si fosse scelta la strada di una Convenzione, vincolante ma di difficile approvazione e applicazione – sta proprio nell’indicare un comune sentire, un accordo raggiunto, capace di mantenere il suo peso anche di fronte all’incapacità o non volontà di molti stati di realizzare e mettere davvero in pratica i principi che vi si trovano espressi.

Nel 1975 la conferenza di Helsinki l’aveva ritrovata e rilanciata e grazie anche a quella conferenza, erano entrati in crisi alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta i tanti regimi dittatoriali e autoritari, e poteva aprirsi con gli anni 90 una nuova vita per la cultura dei diritti umani, che in parte è quella che ancora viviamo, anche se poi in questo nuovo secolo le cose sono ulteriormente cambiate. Ebbene, Mandela si pone immediatamente il problema di come fare i conti con il passato, perché non si poteva non farli, ma nello stesso tempo di valutare l’esperienza di altri Paesi, per esempio di quelli che erano usciti dalle tragedie della seconda guerra mondiale, l’esperienza dei processi di Norimberga, di Tokio, che gli avevano dimostrato che quella strada non era percorribile e non era giusta per il Sudafrica, e forse anche in generale; pur se all’epoca, ovviamente, non era pensabile un’altra ipotesi, anche perché ancora in quegli anni sia in Italia che in Francia che in Germania continuavano ad esserci processi relativi ai fatti di cinquanta anni prima. Per Mandela bisognava trovare una soluzione più radicale e l’esperienza che alcuni Paesi latinoamericani avevano fatto delle commissioni di verità, dava qualche suggerimento. Non molti, in verità, perché quelle commissioni di verità si erano concluse abbastanza malamente con una sorta di compromesso, grazie al quale alla fine gli ex generali, colonnelli, criminali, ottenevano l’amnistia senza che dovessero pagare nemmeno in termini di confessione piena. Mandela, insieme a Desmond Tutu, ha invece l’idea che tutto il popolo sudafricano debba ripercorrere insieme il proprio passato e debba farlo a partire da un punto fondamentale: dare voce alle vittime e ai loro familiari, che per cinquant’anni erano stati in silenzio, non solo perché non era stata data loro la parola nei processi, che non si erano mai fatti, ma perché si era addirittura impedito che potessero anche solo ricordare quello che era successo, perché la storia ufficiale del Sudafrica doveva essere un’altra. Allora, come si poteva dar voce a queste centinaia di migliaia di persone che volevano finalmente non solo raccontare i singoli fatti – mio figlio, mio marito, mia sorella è stata uccisa in quel momento, è stata presa di notte dalla polizia politica, è stata torturata, è stata uccisa, il suo corpo è stato bruciato, e così via - non solo questi fatti bruti, materiali ma potentissimi, ma anche i sentimenti che avevano accompagnato quelle violenze, e cioè come loro si sentivano, non solo privati dei loro familiari, ma anche impossibilitati a esprimere la loro rabbia o addirittura il loro dolore, e quindi come questo avesse significato un allargamento di quel dolore a tutta la popolazione sudafricana. Si decide allora di costituire questa Commissione per la verità e la riconciliazione, che ha pochi punti fermi ma che sono fondamentali: il primo è che bisogna raggiungere la verità, la verità completa. Non si chiede a coloro che sono imputati (molti di loro sono già in carcere con gravi imputazioni) di riconoscere le accuse che gli vengono fatte, ma gli si dice: voi dovete raccontare tutto, anche quello che noi non sappiamo, anche le accuse che non siamo in grado di provare, perché se non lo fate viene meno la possibilità di ottenere alla fine di questo percorso l’amnistia. È chiaro, ovviamente, che mettendo in piazza in piena trasparenza tutti gli avvenimenti, la possibilità che venissero fuori altre testimonianze e quindi venissero fuori altri crimini commessi era altamente probabile, e il risultato era dunque una forte pressione a raccontare. Alla base della TRC vi era la convinzione che la giustizia punitiva non avrebbe permesso il processo di riconciliazione, mentre era necessario che l’intero Paese venisse a conoscenza del quadro più possibile completo di cosa fosse stato il regime di apartheid, delle sue cause, azioni, effetti, violenze e violazioni gravissime dei diritti umani che aveva perpetrato per decenni. Per questo si cercò di combinare la possibilità di amnistiare i colpevoli che avessero pienamente confessato i loro delitti con un processo pubblico di racconto della verità in cui veniva data possibilità alle vittime di far sentire pienamente la propria voce. Il riconoscimento delle passate atrocità, accompagnato da quello della dignità calpestata e perduta per milioni di persone, consegnava alla nuova democrazia una politica fondata sulla morale, che la nuova Costituzione del 1996 riassumeva mirabilmente nelle prime parole del suo preambolo: “Noi, popolo del Sudafrica, riconosciamo le ingiustizie del passato; onoriamo coloro che soffrirono per la giustizia e la libertà della loro terra; rispettiamo coloro che hanno lavorato per costruire e sviluppare il nostro Paese; e crediamo che il Sudafrica appartenga a tutti coloro che ci vivono, uniti nella loro diversità.” Certo, con questa sorta di ricatto e compromesso dell’aspettativa dell’amnistia, per raccontare davvero tutto, perché quello era il punto fondamentale, il racconto doveva avvenire pubblicamente. In Sudafrica si crea allora in ogni regione una commissione, ci sono riunioni, alle ultime delle quali sono riuscito anche a partecipare, che avvenivano in sale spesso più grandi di questa, con una quantità di gente che al minimo era quella che è presente oggi qui, spesso era molta di più, e che venivano riprodotte per radio, per televisione la sera, sui giornali, e tutta la popolazione per mesi interi, per tre anni praticamente, è rimasta coinvolta in questa ricerca della verità di quello che era successo precedentemente; perché solo attraverso questa fase si poteva poi arrivare al secondo aspetto, al secondo termine di questa commissione, che è quello della riconciliazione.

La riconciliazione è vista come un problema collettivo, non è la ricerca di una riconciliazione individuale, anche se, e questo Desmond Tutu lo metterà in evidenza più volte all’interno delle sessioni delle commissioni, in tutte queste varie sedute in cui le persone raccontano quello di cui sono state vittima, e i criminali raccontano a volte in maniera dettagliata e terribile quello che hanno commesso, c’è la possibilità che in quel momento ci siano anche dei rapporti individuali di richiesta e offerta di perdono.

Ma il perdono è una questione individuale, non deve coinvolgere l’insieme della commissione, perché l’obiettivo della commissione è invece la riconciliazione collettiva, di tutto il popolo, attraverso la consapevolezza di quello che è avvenuto, che è la base per una nuova coscienza collettiva della popolazione, per quella cultura che Mandela e Tutu chiameranno la “cultura arcobaleno”, una cultura che non avrà come base la sola memoria di una parte, neanche di quella che è stata maggiormente vittima, ma che deve diventare il risultato di tutte le memorie, perché nella memoria collettiva ci deve essere anche la memoria dei carnefici e quindi bisogna farli parlare fino in fondo, fargli dire in qualche modo anche le loro giustificazioni. Ci sono alcune testimonianze terribili, di alcuni uomini che erano conosciuti come i peggiori torturatori del Sudafrica dell’epoca dell’Apartheid: mentre si capisce che alcuni confessano semplicemente perché vogliono cercare di evitare l’ergastolo (la pena di morte era stata abolita subito in Sud Africa), altri si capisce che stanno compiendo un percorso di riflessione su quello che hanno fatto; e certo, accusano la società dove sono cresciuti, dicono: ma noi come potevamo, in una società che fin da quando siamo nati ci diceva che i neri sono una razza inferiore, che sono diversi, che vanno discriminati, che sono pericolosi e così via, non avere dentro di noi queste convinzioni e sentimenti? Però questo è un percorso collettivo che permette a tutti di capire anche la forza che aveva avuto il regime dell’apartheid nel tenere tutti i bianchi sostanzialmente sotto il proprio controllo e in qualche misura partecipi e complici del regime che c’era stato. Il risultato finale di questo enorme lavoro ha costituito anche, sulla base dell’esperienza sudafricana, un salto gigantesco nella letteratura scientifica internazionale, nella letteratura psicologica. La psicologia sociale, con la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, ha cambiato in gran parte i propri fondamenti, perché davvero c’è stato in questa esperienza un coinvolgimento completo di tutta una popolazione e una generazione.

Certo non tutto è stato semplice, molti dei parenti delle vittime erano contrari alla commissione, volevano la giustizia tradizionale, volevano la giustizia per loro, volevano vedere in galera i responsabili dell’uccisione del proprio parente. Pensiamo ad esempio ai parenti di quella che era stata forse la più nota delle vittime, Steve Biko – che negli anni Ottanta era stato uno dei capi e che era stato torturato per giorni e poi il suo corpo era stato smembrato e bruciato, e i cui resti vennero finalmente identificati e ritrovati, però, grazie alle confessioni nella commissione. Qui erano in contrasto due cose, entrambe più che legittime: la giusta necessità e richiesta di giustizia delle vittime nel senso più pieno, cioè di quelli che singolarmente hanno subito violenza su un familiare o direttamente, e poi la giustizia collettiva, che non poteva che essere fondata sulla riconciliazione, che doveva essere più ampia, nel cui nome bisognava sacrificare qualcosa. Questo, Mandela e Tutu, lo dicono, non si nascondono, non dicono che non è giusto chiedere giustizia o addirittura provare sentimenti di vendetta per se stessi, ma dicono anche che noi, come politici, come coloro che hanno a cuore il futuro di questo Paese, dobbiamo andare oltre, dobbiamo pensare ad una strategia che coinvolga tutti nella partecipazione, nella riflessione, nell’impegno, per fare in modo che davvero, e non come si è sempre detto un po’ come slogan, non succeda mai più. Sono state circa più di settemila le richieste di amnistia che sono state fatte nel corso della commissione e non più di millecinquecento sono state approvate: il che vuol dire che la maggior parte delle persone non sono state riconosciute capaci davvero di fare quel percorso di raccontare tutta la verità, oppure che si trattava di crimini individuali di altra natura non connessi all’Apartheid.

La cosa che a me come storico colpisce di più, perché è l’unica volta che è successo nella storia, è quando si arriva alla relazione finale di questa commissione. Io sono stato là proprio nei mesi in cui si concludeva questo processo, ho intervistato tutti i commissari che prendevano le decisioni. Bene, quando viene presentata la relazione in sette volumi, al governo ormai c’è il partito dell’Africa National Congress (che è il partito ormai di maggioranza assoluta in Sud Africa) e il capo del governo Mbeki, che poi diventerà il successore di Nelson Mandela come Presidente della Repubblica, dice alla commissione: noi i primi sei volumi li stampiamo subito, il settimo volume lo stampiamo solo se togliete alcune parti. Quali erano le parti che volevano togliere? nell’elenco finale comparivano tutti i crimini commessi durante il periodo dell’Apartheid dal 1960 fino al 1992. È un elenco che può sembrare banale ma che è terribile; ebbene, in quell’elenco ci sono anche le violenze, i crimini, le violazioni dei diritti umani commesse dai combattenti della libertà, dai combattenti dell’Africa National Congress o dagli altri, perché giustamente si riteneva che tutta la verità di quel periodo doveva venir fuori. Ma Mbeki e il governo dicono: noi non possiamo accettare di mettere nello stesso elenco i nostri crimini minori compiuti per reazione contro l’Apartheid insieme a quelli dei sostenitori dell’Apartheid. Per fortuna Nelson Mandela e Desmond Tutu avevano un carisma che difficilmente si ritrova e si è ritrovato in passato e decisero che o si pubblicava tutto o loro avrebbero rifiutato di renderlo pubblico e avrebbero anche detto il perché, e quindi il governo ha dovuto accettare e per la prima volta, che anche la violenza in qualche modo inevitabile prodotta da chi sta dalla parte giusta in qualsiasi guerra di liberazione, in qualsiasi resistenza, in qualsiasi moto democratico, venga identificata e riconosciuta come qualcosa che era comunque riprovevole, che non si doveva commettere. Non per dire “adesso vi mandiamo in galera”, ma per dire che se riteniamo un crimine quelli commessi dai nemici della libertà e della democrazia, non possiamo passare sopra a quello che abbiamo fatto sia pure per motivi che possono essere storicamente giustificati, ma che sono da un punto di vista della giustizia e della morale comunque intollerabili. Ecco, questo credo sia l’ultimo momento fondamentale che l’esperienza della Commissione per la Verità e la Riconciliazione ci dà, dare la voce alle vittime, riconoscere che tutti i crimini e le violazioni sono uguali, che non vuol dire che il giudizio storico e anche morale e politico sia lo stesso per tutti; e quindi cercare di diventare consapevoli di quello che è successo, perché ci permette di superare collettivamente quello che è un passato terribile che abbiamo vissuto. La parola che Desmond Tutu soprattutto, ma anche Mandela, usava spesso per esprimere questo concetto, con questo concludo, è ubuntu, un concetto che noi non possiamo tradurre in una sola parola, per il quale dobbiamo usare una frase, e che vuol dire “io esisto solo in relazione a quello che mi sta vicino”, è l’idea che in fondo non c’è solo l’individuo, che pure è stato alla base della grandissima storia dei diritti umani dell’occidente, ma che c’è anche, necessariamente, una relazione tra l’individuo e gli altri.

Questa idea non è vista contrapposta, come qualcosa che va contro l’idea che noi abbiamo da Cartesio in poi, “cogito ergo sum”, l’individuo che pensa se stesso; ma è un’idea che si aggiunge a quella, e che ci fa capire come le novità che l’esperienza della Commissione per la Verità e la Riconciliazione ci hanno dato, debbono e possono diventare patrimonio collettivo, non possiamo lasciarla come un bellissimo esempio che però appartiene a un altro mondo, è qualcosa che dobbiamo far entrare direttamente anche nella nostra logica, perché non possiamo più continuare solo a riproporre la nostra cultura, sia pure nei suoi aspetti migliori, ma dobbiamo integrarla con gli aspetti migliori che tutte le altre culture ci propongono. Grazie.