Alla ricerca della Verità e della Riconciliazione

 

di Ornella Favero, direttore di Ristretti Orizzonti

 

La morte di Nelson Mandela ci ha fatto venire il desiderio di contribuire anche noi, dal carcere, a non dimenticarlo, lavorando con quelle due parole, che tanto hanno significato per il Sudafrica: la Verità e la Riconciliazione.

Uno studente di diciott’anni, dopo un incontro in carcere con la nostra redazione, ci ha scritto: “Credevo di sapere bene dove fosse il male, standone alla larga e promettendomi di non corrompere mai i miei valori e ciò in cui credevo. Oggi ho per la prima volta capito che tutti hanno del bene e del mal insieme, e che bisogna nutrire la parte di bene che ognuno di noi ha, e so che questa potrebbe sembrare una conclusione  piuttosto ovvia, ma per me, senza il vostro aiuto, non sarebbe stato nemmeno lontanamente concepibile”.

Questo ragazzo ci mostra che è sempre emozionante scoprire la complessità delle vite, specie oggi che non la insegna quasi più nessuno: noi vogliamo allora provare a scandagliare il tema della verità, proprio a partire dalla consapevolezza di quanto esso sia complesso, per trovare poi la forza di raccontare anche le verità più respingenti.

Preparare questa Giornata c’è costato una grande fatica, perché non è facile in carcere parlare di questi temi, non è facile parlare di verità se si pensa che le persone che stanno qui dentro sono inchiodate spesso alla verità giudiziaria. E la verità giudiziaria non è la verità delle persone, è una parte, spesso parziale e riduttiva, di quella verità, che tante volte non rispetta neppure le vittime. Ecco noi abbiamo scelto questo tema perché lavorando con le scuole abbiamo capito una cosa: che se si impara ad affrontare la verità delle proprie storie, se non si ha paura di raccontare anche le storie che sembrano meno raccontabili, fuori, dentro alla società, forse non si incontra tutta quella ostilità che noi immaginiamo. Insomma quando noi incontriamo le scuole, abbiamo la sensazione che di fronte al racconto e alla testimonianza cadano tanti muri.

Quindi parlare di riconciliazione io credo che per noi abbia un senso particolare: si tratta di una idea di riconciliazione che passa per la comprensione, capire le persone, accettare di avere di fronte delle persone che hanno delle storie pesanti, accettarle a partire dalle parole di Desmond Tutu “Una vera riconciliazione può avvenire soltanto mettendo allo scoperto i propri sentimenti, la meschinità, la violenza, il dolore, la degradazione, la verità”.

Quindi qui non parliamo di riconciliazione come una cosa facile né facciamo appello ai “buoni sentimenti”, no noi parliamo di cose complesse, parliamo di meschinità, di violenza, di dolore.

Siamo allora partiti un po’ da questo per raccontare una realtà complessa, e io credo di avere il dovere di raccontare che questa realtà complessa significa anche che centinaia di persone, in questo stesso carcere, trascorrono una carcerazione a non far niente perché, purtroppo, il sovraffollamento è prima di tutto questo, un carcere inutile che incattivisce le persone.

Qualche giorno fa si è suicidato un giovane uomo qui dentro, Alessandro, aveva 31 anni e un fine pena nel 2039. Ora, ecco, quando una società ha pene così vendicative, è davvero difficile dialogare sul tema della riconciliazione, però io credo che ci sia proprio bisogno oggi di questo per lavorare a un cambiamento delle condizioni di vita, penso che bisogna partire dal fatto che la società fuori riconosca che il carcere non è, come si dice sempre, il “pianeta carcere”, ma quale pianeta, il carcere è un pezzo della società. E mi piace ricordare che gli studenti che vengono qui dentro, ascoltando le testimonianze dei detenuti improvvisamente si accorgono che dall’altra parte, la parte dei “cattivi”, potrebbero finirci anche loro, che stare dall’altra parte non è sempre il frutto di una scelta e di un “pensarci prima” , nella vita non sempre ci pensiamo prima. Ecco, io credo, che quando la finiremo di parlare di “pianeta carcere”, e ragioneremo del carcere come un pezzo delle nostre vite, forse si riuscirà a fare dei passi avanti anche su questo tema della riconciliazione.

Ora diamo inizio a questa Giornata, coordinata, come ormai avviene da molti anni, da Adolfo Ceretti, che è sì uno dei massimi esperti di giustizia riparativa, ma per noi è soprattutto una persona che ha messo la sua competenza e la sua umanità a nostra disposizione, per aiutarci in un percorso difficile, iniziato nel 2008, quando per la prima volta qui dentro abbiamo incontrato le vittime.  Ricordo la prima di queste Giornate dedicate al confronto fra vittime e autori di reato, “Sto imparando a non odiare”, è stato un convegno in cui, per nostra scelta, hanno parlato solo loro, le vittime, non ha parlato nessun altro, né volontari, né persone detenute, nessuno, solo loro, ecco è stato da lì che è iniziato questo percorso di reciproco ascolto, ed è da quell’esperienza che oggi vogliamo partire.

 

 

 

 

Un percorso per imparare a riconoscere l’umanità dell’ALTRO

 

di Elton Kalica, Ristretti Orizzonti

 

Riassumere un percorso, che è iniziato sei anni fa con la Giornata di studi “Sto imparando a non odiare”, non è facile. Potrei dire che questa giornata sulla Verità e la Riconciliazione è un’altra tappa importante di questo lungo percorso di riflessione. Io credo invece che noi non siamo in grado di parlare di riconciliazione, se prima non proviamo a capire quali sono le parole che possono esprimere un vero rispetto per le vittime, se non proviamo a parlare di più con chi ha subito reati, a “sentire” i suoi bisogni, a spingere perché il carcere divenga un luogo aperto anche al confronto tra chi ha subito reati e chi li ha commessi.

Di questo vogliamo discutere, cominciando da una verità elementare: che spesso tutti, magistrati, operatori penitenziari, volontari, pensiamo di sapere cosa vogliono le vittime. Ma raramente abbiamo la possibilità di ascoltarle, di interrogarle, di confrontarci con loro.

Con la Giornata di Studi “Sto imparando a non odiare” abbiamo voluto fare solo questo: costruire un percorso di ascolto. Vittime che parlano all’interno di un carcere, autori di reato che imparano a stare a sentire la loro sofferenza.

In questi anni abbiamo cercato di dare un altro senso al tempo che le persone trascorrono qui dentro. Qui si scrive tanto. E noi, abbiamo cercato di usare la scrittura in modo ragionato per parlare alle persone fuori. È stata uno strumento fondamentale per parlare delle nostre storie individuali, e non sentirci più una categoria di persone, gli “autori di reato”. Incontrando prima le classi degli studenti e poi, sei anni fa, invitando qui alcune persone vittime del reato, abbiamo iniziato a imparare un’altra cosa: ascoltare. Sembra una cosa banale, ma non siamo mai abbastanza bravi ad ascoltare gli altri. Specialmente chi vive in una condizione di sofferenza, spesso si concentra sulla propria sofferenza evitando di vedere la sofferenza dell’altro.

Quando questo percorso è iniziato, io ero qui a scontare una pena. Ricordo che inizialmente, la domanda che ci ponevamo era chi invitare. Discutevamo se invitare solo vittime “buone”, oppure se andava bene avere anche persone “incattivite”. Poi, discutendo ci siamo resi conto che non si poteva andare avanti per categorie, che volevamo delle persone che ci raccontassero la loro storia, la loro sofferenza, per vedere come ognuno di loro aveva fatto i conti con l’odio.

Ora non sono più detenuto, ma ogni anno ritorno qui a ragionare su queste tematiche da ex detenuto, perché questo percorso mi costringe ogni volta a riflettere, e io sento di avere bisogno di momenti di riflessione ancora di più ora, da libero.

Si cerca sempre di dare dei nomi, delle giustificazioni, delle spiegazioni al carcere, come del resto fa anche la Costituzione fondando il senso della pena nella “rieducazione”. A volte anch’io mi sento di essere preso come giustificazione del carcere, ora che ho finito la pena. Questo succede quando incontro persone che mi hanno conosciuto mentre ero in carcere, e mi dicono: tu adesso lavori e studi, almeno il carcere ti ha insegnato qualcosa. A queste persone rispondo che intanto il carcere mi ha portato via 14 anni della mia vita, poi il carcere non insegna nulla!

La galera insegna una cosa: come sopravvivere alla galera stessa. Chi c’è passato, ma anche chi ci lavora dentro, questo lo sa. Rispetto alla vita di sezione e al rapporto con gli altri detenuti, appena una persona entra in carcere, quello che impara è indossare la maschera della mascolinità per non apparire debole: insomma, se devo sopravvivere in un luogo dove si è costretti a convivere con altri uomini, devo saper difendermi. Anche in relazione al personale e all’amministrazione si indossa subito la maschera di: “Sono come tu mi vuoi, sono una persona affidabile”, quindi sono una persona meritevole dei piccoli privilegi che il carcere assegna. Questa maschera insegna anche un’altra cosa, che c’è un rapporto di potere, e quindi una differenza tra noi detenuti e loro, istituzione.

Quindi ciò che la galera insegna poco ha a che fare con, vogliamo chiamarla la rieducazione?

Tuttavia, ci sono delle eccezioni all’interno del carcere. Ad esempio c’è la scuola che insegna a leggere e a scrivere. Però non è la galera che insegna, è la scuola che per fortuna entra in galera e fa il suo mestiere. Poi ci sono ditte e cooperative che entrano in galera e fanno la loro parte, far lavorare alcuni detenuti. Quindi situazioni di studio e di lavoro che contrastano con la galera, fatta di celle, di sbarre e di una costante necessità di ordine tra i detenuti. In questo quadro di eccezioni si colloca anche la nostra attività redazionale, e questo convegno. Sei anni di confronto tra vittime e autori di reato ci hanno insegnato ad ascoltare e a conoscere un’altra sofferenza, o meglio altre sofferenze, perché abbiamo avuto diversi ospiti in questi anni e abbiamo scoperto che le sofferenze sono sempre dolori diversi. Così, mentre loro cercavano di imparare a non odiare, noi abbiamo imparato ad ascoltare il dolore degli altri. Scoprendo così un’umanità forse a volte dimenticata. E questo ascoltare il dolore degli altri, per me, ma anche per i miei compagni e le persone che ho conosciuto, è diventato un percorso di maturazione.

Se quello che dovrebbe succedere nella vita di tutti noi, in galera ma anche fuori, è maturare continuamente, oggi è un’altra tappa del nostro continuo percorso di maturazione, in cui continuiamo ad imparare a riconoscere l’umanità nell’altro. L’esperienza degli anni scorsi mi fa pensare che anche oggi, le riflessioni che adesso seguiranno ci coinvolgeranno in modo nuovo. La speranza è che tutti noi, chi sta espiando una pena e chi qui dentro lavora, chi ha subito un reato e chi non l’ha subito, impariamo a riconoscere l’umanità dell’altro, sempre.