Il male ci riguarda tutti

Ma quando lo vediamo, lo vediamo sempre incarnato in qualcuno diverso da noi

 

di Ornella Favero

 

Io parto semplicemente leggendo poche righe di una testimonianza per spiegare che cos’è questo titolo, perché noi abbiamo scelto il titolo: “Il male che si nasconde dentro di noi”. Perché, in quel noi, c’è questa idea fondamentale che NOI siamo tutti, cioè non ci sono gli “altri da noi”.

Leggo allora questa breve riflessione, questa volta non di un detenuto o di uno studente, ma di un genitore. C’è stato infatti un genitore che, in questo nostro progetto con le scuole, ha deciso di accompagnare la figlia all’incontro con le persone detenute, perché, come dire?, si sentiva di doverla proteggere. Visto che la scuola dava questa possibilità anche a qualche genitore, lui ha deciso di venire proprio spinto da questa idea. Ed ecco quello che ci ha scritto dopo: “Ad un certo punto dell’incontro mi sono sentito, io stesso, il possibile carcerato che poteva parlare con gli studenti. Perché la realtà che ci circonda, a volte, in maniera incalcolabile per chiunque, ci costringe ad avere reazioni violente che, senza volerlo, ci potrebbero portare al di la di quei muri, e dietro le sbarre”. È successo quindi che, nel nostro percorso, sentendo le storie delle persone detenute (perché noi, quando incontriamo gli studenti, non parliamo tanto del carcere, parliamo di come si può arrivare “dall’altra parte”) questo genitore ha capito esattamente che non poteva tranquillamente considerarsi “altro”. Ecco, questo è il senso del nostro titolo: “Il male che si nasconde dentro di noi”. Questa idea che dobbiamo tutti avere, che “il male” ci riguarda. Che non ci sono i mostri. E questo lo dico anche per un tema drammaticamente difficile come quello della violenza sulle donne. Che abbiamo voluto trattare anche per questo. Perché è troppo facile, e lo è in particolare per noi donne, questa identificazione sempre e solo con le vittime. E questa idea che il male non lo vogliamo vedere, e quando lo vediamo lo vediamo sempre incarnato in qualcuno diverso da noi. Ecco, non è così. Passare dall’altra parte è molto facile. E questo lo dico proprio sul tema dell’informazione: è molto pericoloso, il lavoro che fa una certa informazione, di allargare quella distanza che c’è tra il carcere e il resto della società. È fasulla questa distanza, non è cosi. E questo genitore lo ha capito, che poteva succedere anche a lui. Per una reazione violenta, perché la violenza è nascosta in ognuno di noi.

Ma c’è un’ultima considerazione che voglio fare, dura, fastidiosa: preparando questo convegno, che è stata una fatica enorme, a un certo punto ci siamo trovati a discutere di un tema spinosissimo. Perché è successo quell’attentato, quella persona che ha sparato davanti a Palazzo Chigi a un Carabiniere, e io ho sentito, qui dentro, persone dire: “Uno in meno”. Così come succede anche l’esatto contrario. Ho sentito, di fronte al suicidio di un detenuto, qualcuno delle forze dell’ordine dire le stesse, orribili parole: “Uno in meno”. Ecco, questa idea che le persone non contano per quello che sono ma sono simboli, è un’idea terribile, che aumenta ancora di più la violenza. Noi, io dico noi perché siamo un gruppo, la Redazione, pensiamo che si debba partire da una forma di disarmo unilaterale, bisogna avere la forza di abbandonare gli alibi. Perché c’è sempre un alibi. C’è l’istituzione che ti tratta male, c’è qualcuno delle forze dell’ordine che ti tratta male, c’è un diritto che ti è negato. Son tutte cose vere. Ma io credo che se non si parte dal dire “Basta alibi. Voglio IO, devo IO per primo rinunciare a comportamenti violenti, devo io fare questo passo”, se non si parte da un disarmo unilaterale non se ne esce, non si fanno passi avanti verso una società meno violenta. E questo riguarda anche la società dei “buoni”.

 

 

Introduzione

 

Il Significato e il valore delle narrazioni

di Adolfo Ceretti, Professore ordinario di Criminologia,

Università di Milano-Bicocca, e Coordinatore Scientifico

dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano.

Tra le sue pubblicazioni, Cosmologie violente e Oltre la paura

 

Buongiorno a tutti e a tutte. Vedo molti volti noti. Ben ritrovati. Quest’anno sono venuto alcune volte a trovarvi alla redazione di Ristretti Orizzonti per parlare di violenza e preparare questa Giornata. È una gioia essere qui a fianco di Ornella, l’animatrice o, meglio, l’anima dell’eccezionale percorso di pensiero e di pratiche che è la vostra Rivista, e di questo convegno annuale. Al centro del convegno di quest’anno troverete, per come lo abbiamo condiviso nella sua preparazione, il significato e il valore delle narrazioni. Con Jerome Bruner condividiamo l’idea che la narrazione è sempre una pratica conoscitiva che consente di fare ordine nella realtà simbolica in cui siamo immersi, dentro a quella infinita rete di relazioni sociali in cui siamo gettati e in cui ci muoviamo in modo unico e non del tutto prevedibile.

La particolarità del nostro incontro odierno sta nel fatto che l’ascolto riguarda racconti di persone che hanno incontrato la violenza, perché l’hanno inflitta o perché l’hanno subita. A mio giudizio, non è poco avere la possibilità di essere qui, tutti insieme, per condividere queste forti emozioni.

È bene sapere che il metodo narrativo considera sostanziale, nella vita mentale del soggetto, l’interpretazione della realtà descritta attraverso le narrazioni intra e interpersonali delle sue esperienze. La narrazione permette di conoscere, scrive Gian Luca Barbieri, in modo più puntuale, non solo il naturale bisogno di raccontarsi e di raccontare ciò che accade, aiutando a comprendere meglio le modalità di dare un senso agli eventi, ma anche quel processo di scrittura e riscrittura della propria biografia.

Oggi ci appresteremo, tutti insieme, ad ascoltare la scrittura e riscrittura di alcune parti significative della biografia di alcune persone.

Non voglio aggiungere altre parole per aprire questo convegno. Partiremo dal capitolo sulla violenza che nasce per esercitare la vendetta.