Capitolo sesto: Vittime e carnefici della violenza delle parole

 

In un blog sulla violenza abbiamo letto: “Bene o male, siamo tutti stati un po’ vittime e un po’ carnefici della violenza delle parole. Tuttavia il passo che fa la differenza è utilizzare la nostra sofferenza, ciò che ci ha insegnato, per non causarne agli altri. Qui sta la consapevolezza di una persona rispetto ad un’altra”. Se chi è stato offeso dalla violenza, e anche dalle parole di qualcuno riesce a trametterci la sua sofferenza, forse ci aiuterà a risparmiare ad altri il dolore di parole superficiali, rozze, che feriscono. Parole come un piccolo verbo, “combinare”, che usato da chi ha commesso un reato grave, “l’ho combinata grossa, ho combinato un disastro”, suona come una fastidiosa minimizzazione della responsabilità.

 

 

Non si può fare informazione raccontando l’odio, il rancore, il sentimento di vendetta

È invece quello che si cerca spesso di raccogliere da chi subisce il reato, generando altro odio e altro rancore

 

di Elton Kalica, Ristretti Orizzonti

 

Questo capitolo per noi è molto importante e delicato, perché si tratta di un percorso iniziato nel 2008 con l’idea di costruire un dialogo con vittime o con familiari di vittime di reati. Quindi un dialogo tra autori di reato e chi il reato lo ha subito. Il nostro metodo è quello di offrire una narrazione diversa del reato, degli autori di reato e dei percorsi che portano al reato. in questo modo vogliamo fare un’informazione alternativa, opposta a quella che è la narrazione ufficiale del reato, quella che si vede nei giornali e nei telegiornali. Se abbiamo pensato che sarebbe stato interessante estendere questo metodo anche a chi il reato lo subisce è perché noi crediamo che anche per le vittime il trattamento che i mezzi d’informazione riservano è più o meno lo stesso. Per raccontare il fatto, si cerca spesso di cogliere, di raccogliere da chi subisce il reato, l’odio, il rancore, il sentimento di vendetta.

Quando dico questo penso al giornalista che va a intervistare subito il familiare di una persona uccisa e gli chiede: “Lei crede nella giustizia?”. Ovviamente quello che raccogli è il dolore, l’odio, il rancore, il desiderio di vendetta. Quindi dei sentimenti, delle sensazioni che sì, sono umane, ma che non sempre mostrano l’umanità delle persone. Però non si può fare informazione raccontando questo. Noi allora abbiamo pensato di invitare alcune persone che hanno subito reati gravi e ci siamo fatti raccontare la loro sofferenza. Questo si è trasformato in un percorso che ci ha fatto riflettere molto.

Abbiamo avuto qui Olga D’Antona, Manlio Milani, Agnese Moro, Silvia Giralucci, Benedetta Tobagi, ne abbiamo incontrate tante, di persone che sono state vittime di reati, in questi anni. Tante persone che hanno portato qui, di fronte a centinaia di persone, una diversa narrazione della sofferenza. È stato utile ai lettori più assidui di Ristretti Orizzonti, ma è stato molto importante anche per i detenuti.

Ricordo che all’incontro con Olga D’Antona c’era un ragazzo che aveva assistito all’incontro e non la smetteva di piangere. Questa storia l’abbiamo anche scritta. Il ragazzo era in carcere per aver ucciso un suo coetaneo, e mi ha detto: “In dieci anni di carcere non ho mai pensato alla mamma della persona che ho ucciso, ho tenuto in mente il litigio, l’aggressione che ho subito, la rissa che ne è scaturita e quindi ho sempre pensato che mi ero difeso e che avevo fatto bene; mentre ascoltavo Olga D’Antona, ho pensato a un’altra vittima, alla mamma di chi ho ucciso”.

Ho raccontato questo per far capire come questo tipo di narrazione può essere utile per chi sta in galera perché fa riflettere sulle proprie responsabilità; ma dovrebbe fare riflettere ancora di più chi pensa che la galera deve essere un luogo di sofferenza e basta: quel ragazzo piangeva perché stava ragionando sul male fatto, e quindi una galera diversa ci può essere, ed è il carcere che fa riflettere. Oggi qui abbiamo Giovanni Ricci, si presenterà lui anche perché è molto più bravo di me a raccontarsi.

 

 

Poi un giorno ti guardi allo specchio e capisci che non c’è più motivo di odiare…

Con i ragazzi delle scuole spiegare la differenza tra il male e il bene laddove è possibile è una cosa grande e utile

 

di Giovanni Ricci, criminologo e sociologo,

figlio del maresciallo dei carabinieri Domenico Ricci,

che come uomo della scorta dell’onorevole Aldo Moro

fu assassinato nel rapimento di via Fani del 16 marzo 1978

 

Mi chiamo Giovanni Ricci, vi racconto la storia che ha caratterizzato tutta la mia vita. Il 16 Marzo del 1978 morì mio padre in via Mario Fani a Roma durante il rapimento dell’Onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Mio padre era uno dei 5 della scorta, era l’autista quello che da più anni, circa 22, era con Aldo Moro. L’immagine che mi è rimasta per tanti anni di quel giorno, un’immagine forte, è stata quella dell’edizione straordinaria di Repubblica di quel pomeriggio in cui mio padre era stato fotografato senza lenzuolo crivellato di colpi, decine di colpi. Quell’immagine me la sono portata fissa in mente per tanti anni, premetto che avevo 11 anni quando successe. È un’immagine con cui convivevo tutti i giorni e tutte le notti. Poi crescendo viene voglia di conoscere le motivazioni, capire: chi era stato, per quali motivi quei 5 uomini erano stati uccisi li, quel giorno e anche l’Onorevole Moro dopo 54 giorni, ti fai una miriade di domande finché, un bel giorno di un po’ di anni fa, ti svegli, ti guardi allo specchio e capisci che non c’è più motivo di odiare o di avere rancore dentro di te. Perché purtroppo, l’odio, il rancore ti lacerano, ti distruggono, ti dilaniano, ti uccidono dentro. È proprio per dire basta a tutto questo che trovi la forza, la forza per dire basta adesso voglio andare avanti. Non voglio più avere questa immagine di mio padre fissa in mente, voglio ricostruire il film della mia vita, un film fatto di ricordi di mio padre quando era ancora in vita e fatta di ricordi della mia famiglia anche dopo che era morto. Non potevo più fossilizzare la mia intera esistenza a un singolo fotogramma di quel giorno a quell’ora: alle 9.05. Quindi ecco, la necessità di andare dai ragazzi nelle scuole a raccontare quella che era stata la mia esperienza, come l’avevo vissuta. Spiegare ai ragazzi che la violenza porta solo alla distruzione. Spiegare ai ragazzi che anche la violenza verbale a volte crea attriti tra le parti, crea violenza seppur di parole. Ma che in breve può divenire anche violenza fisica, una violenza che ti annienta, ti distrugge. Ecco, allora cerco di spiegare a questi ragazzi il senso della legalità, l’importanza del confronto seppur forte, ma confronto tra le parti. Anche perché anche se i ragazzi delle scuole non sanno nulla del terrorismo degli anni 70, quando comincio a raccontare i fatti della mia vita mi riempiono di domande, vogliono sapere e capire. Posso sinceramente dire, e oggi qui ne ho avuto testimonianza dai tanti ragazzi detenuti che sono qui intervenuti, come sia importante che anche chi abbia commesso il male una volta, e si sia reso conto di quello che ha fatto, porti la sua testimonianza all’interno delle scuole, una testimonianza fatta di sentimenti, di voglia di comunicare, di essere anche colui che ha sbagliato ma è e rimane un cittadino del nostro Stato, un membro della nostra società.

Ritengo importantissimo, laddove poi sia possibile poter portare le testimonianze della vittima e di chi ha commesso il reato, che questo atto sia un qualcosa di unico. Io spero vivamente che un giorno possa ritrovarmi io o le altre vittime del terrorismo insieme agli ex terroristi a raccontare gli accadimenti di trent’anni fa, di quarant’anni fa. Anche perché quello che i nostri ragazzi rischiano realmente è che tra un paio di generazioni avranno un gap storico incredibile, una totale mancanza di memoria collettiva di quello che sono stati quegli anni. Quindi non solo si sente l’esigenza in questo caso, ma, a maggior ragione proprio le testimonianze in generale delle vittime dei reati e di chi ha commesso quei reati è fondamentale per spiegare ai ragazzi nelle scuole la differenza tra il male e il bene; e laddove è possibile è una cosa grande e unica.

Ringrazio sentitamente la Redazione di Ristretti Orizzonti di Padova, il carcere di Padova e la comunità che porta avanti questa voglia di non lasciare nessuno indietro. Grazie!

 

 

Essere vittime è anche un ergastolo

 

di Silvia Giralucci

 

Mi chiamo Silvia Giralucci e come forse sapete la mia storia assomiglia a quella di Giovanni: il mio papà è stato ucciso dalle Brigate Rosse nel 1974 quando si trovava all’interno della sede del Movimento Sociale. Ho raccontato diverse volte questa storia ai convegni di Ristretti Orizzoni, ma oggi vorrei partire da un po’ più lontano. Prima, mentre Mauro Grimoldi parlava della retorica del mostro, io pensavo al fatto che esiste anche una retorica della vittima. Pensiamo a una “piramide della cattiveria” con i più abietti in basso. Per tutti è importante non trovarsi alla base: persino in un luogo di “scarti sociali” come il carcere, si è trovato il modo di espellere quelli dell’ultimo gradino, sono i protetti, gli autori di rea­ti sessuali, che vengono tenuti in sezioni distaccate per proteggerli dalla violenza degli altri detenuti. Anche in un luogo come il carcere è importante trovare il modo di far capire e dire a se stessi che il male, il vero male, è fuori di noi, in un altro posto, più in basso.

Come si fa a stare in alto nella piramide sociale? Il meccanismo è semplice: dobbiamo individuare categorie a noi estranee e additare le persone che vi appartengono come cattivi. Riflettevo sui casi di attualità, Kabobo per esempio, il ghanese che qualche giorno fa ha ucciso a picconate tre persone a Milano. Alcuni anni fa a Milano ci fu un’altra persona che ammazzò a colpi d’ascia la fidanzata, era Ruggero Jucker, un rampollo della Milano bene: ma allora tutti parlarono di un caso psichiatrico, per Kabobo invece il dibattito si è concentrato sul tema dell’immigrazione clandestina, non si è parlato di psichiatria, del fatto che di quella persona, che si trovava in Italia da un anno e mezzo, nessuno si era accorto. No, l’unico problema era il fatto che Kabobo fosse un immigrato clandestino. Perché? Perché noi non siamo immigrati e quindi quella cosa orribile che ha fatto non ci può riguardare.

Pensavo alla morte sospetta di Claudio Faraldi nel carcere di Grasse in Costa Azzurra. Dopo il caso Franceschi è il secondo italiano che muore in modo poco chiaro nello stesso carcere. Prime pagine dei giornali, servizi dei tg. Eppure, morti sospette nelle carceri italiane ce ne sono tante, non parliamo soltanto dei suicidi, ma delle morti per motivi non chiari, morti che talvolta si potrebbero prevenire. Quali di queste morti fanno notizia nei nostri quotidiani? Se va bene vengono dedicate loro cinque righe. Perché il trattamento è diverso quando il fatto accade all’estero? Perché in questo caso sono le carceri degli altri che funzionano male, non serve interrogarci. La violenza riguarda ciò che sta all’esterno. Possiamo essere quelli che puntano il dito, e non serve interrogarci, cambiare i nostri comportamenti.

Mi è tornata in mente una riflessione uscita dal Gruppo di Discussione promosso da Ristretti all’indomani del gravissimo ferimento del carabiniere di fronte a Montecitorio. In quel caso alcuni detenuti hanno detto di non provare dolore per quello che era successo al carabiniere, perché tale è l’odio accumulato negli anni per quelli che ritengono soprusi subiti da parte delle forze dell’ordine, che anche di fronte a un fatto così grave non scatta l’immedesimazione con la vittima, la vittima diventa altro.

Questo per riflettere su quanto sia importante scegliere per gli autori di reato categorie a noi estranee e per le vittime invece categorie cui noi apparteniamo per sentirci sicuri e gratificati.

In questa ‘piramide della cattiveria sociale’ la vittima sta in alto. Ha subìto, e per questo ha tutto il diritto di scagliare pietre. La vittima di reato è nella posizione, diciamo privilegiata, in cui l’odio è non solo socialmente accettato, ma anche desiderato. Se la vittima odia, per solidarietà hanno diritto di odiare anche tutti gli altri, anche tutti coloro che non hanno subito quel che ha subito lei, ma avrebbero potuto essere al suo posto. Per questo i mezzi d’informazione si rivolgono alla vittima per chiedere che cosa prova: perché può legittimamente dire che odia, che vorrebbe vendetta. Il paradosso è che quando non lo dice o viene ignorata o le viene messo in bocca lo stesso. Non deve uscire dalla parte assegnata perché metterebbe in crisi la struttura della piramide.

Però per chi è davvero al vertice della piramide, l’essere vittima è un ergastolo e di questo poco si parla. Lì al vertice si è soli, si è intoccabili e anche un po’ ci si vergogna perché si è delle persone lacerate, e questa lacerazione in un contesto di vita normale va in qualche modo nascosta. Molti di voi conosceranno, hanno letto i libri di orfani di vittime di terrorismo che sono stati scritti negli ultimi anni, ha iniziato Mario Calabresi con il suo bellissimo “Spingendo la notte più in la”, Benedetta Tobagi con “Come mi batte forte il tuo cuore”, a mio modo io ho cercato di raccontare la Padova degli anni 70 raccontando in parte anche la mia storia personale, è uscito poi recentemente il libro di Luca Tarantelli. Diciamo che se prima c’era una narrativa che riportava il punto di vista dei terroristi, negli ultimi anni c’è stata anche una narrativa dei figli delle vittime, bambini molto giovani che hanno risposto scrivendo, ciascuno lo fa con i suoi mezzi, a quel bisogno di conoscenza e di riconoscimento. Per molti di noi è stato un modo molto importante di riappropriazione della propria storia.

Qualche mese fa è uscito un altro libro di una vittima che devo dire che mi ha colpito moltissimo, il libro è di Massimo Coco, figlio di Francesco Coco, il magistrato che riuscì a trovare un escamotage giudiziario per far liberare il giudice Sossi: disse che avrebbe fatto lo scambio con i brigatisti detenuti se il sequestrato Sossi fosse stato restituito incolume. Le Br accettarono e Sossi venne liberato. A quel punto Coco spiegò che un prigioniero per definizione non è mai “incolume” e che quindi non avrebbe fatto nessuno scambio con i brigatisti in carcere. Per questo venne ucciso.

Il figlio ragazzino di Coco soffrì moltissimo non solo per la perdita del padre, ma anche perché il padre già in vita e ancora di più da morto è stato considerato il magistrato fascista, quello che in qualche modo si è meritato di fare quella fine. E immagino che questa sia stata una condizione di assoluta solitudine e non riconoscimento. Nel suo libro “Ricordare stanca”, parla degli altri libri di figli di vittime, e in particolare se la prende con la categoria di quelli che chiama i “figli baby” , molto piccoli quando i genitori morirono in anni lontani. Vi leggo qualche passo: “Leggo ciò che hanno scritto e riconosco il dolore, i rimpianti questo sì, il senso di solitudine, come no?, è una vecchia conoscenza comune. Mi identifico perfettamente in quel misurarsi quotidiano con gli altri, quando ricevi l’insofferenza nell’ascoltare i tuoi diritti, le tue ragioni, la tua storia. Quando quasi nessuno vuole comprendere che una persona ammazzata con un progetto umano implica un dramma diverso da chi muore per malattia o fortuito incidente stradale. Un dramma che non può essere accettato come tutto ciò che appartiene ai capricciosi disegni del destino. Comprendo l’idea di una ricerca paterna seguendo il calvario solitario di una persona che è stata abbandonata a se stessa sino alla morte scoprendo la sua dedizione al lavoro sempre svolto. Ma, porca miseria e la rabbia dove cavolo l’avete messa? Dissimulate l’odio o avete trovato un antidoto? Possibile che tutto possa, che tutto si possa risolvere in una semplice, e qui cito “sorda voglia di prendere tutto a calci”, vi ha forse aiutato l’essere giovanissimi nel momento in cui avete perso il papà e quindi portate con voi meno ricordi e meno rimpianti? È possibile che sia stato solo questo a rendere più semplice e rimuovere, superare e accettare tutto quanto? Basta davvero leggere la frase di un filosofo per capire improvvisamente il senso di tutte le cose? Ma funziona solo con voi la rimozione, il superamento del trauma per mezzo di passeggiate in bici lungo strade aperte di campagna? O scalando un assolato remoto ghiacciaio alpino fino a trovarne la solitudine la concentrazione la memoria? O scrivendo lettere all’adorato figliolo come seduti davanti al caminetto, o semplicemente sterzando, cambiando di colpo direzione perché “c’è sempre un’altra strada”? Apro e leggo a caso da un altro libro: Il rancore è un veleno che corrode le tue ossa, mai quelle degli altri. La fregatura del rancore è che si mangia tutto: amore, passione, energia. Non dimenticare ma non odiare, comprendere anche le ragioni di chi ti è stato nemico, è la mia via per guardare con serenità al futuro. Guardare avanti, camminare, impegnarsi per voltare pagina nel rispetto della memoria. Ma vi siete messi d’accordo tra di voi, avete ricevuto delle istruzioni, o avete fatto tutti quanti un corso collettivo di rielaborazione del lutto? E chi vi ha nominati in vita docenti di vita da vittima? Come potete cercare di comprendere le ragioni di un delitto? Invece io vi dico com’è il mio punto di vista personale, premesso che non ho la pretesa di essere professore per nessuno. Per favore ascoltate con attenzione, da trentasei anni a questa parte e dico trentasei, non c’è stato un giorno nemmeno uno che fosse, uno in cui io non abbia pensato a mio padre. Non c’è stato finora un solo giorno in cui io non me lo sia rivisto riverso sulle pietre della salita di Santa Brigida in una pozza di sangue, lui e gli altri agenti morti insieme a lui, e sto parlando di trentasei anni una fetta enorme di vita, oltre 10 mila giorni, e finché continuerò a vivere e sarò cosciente immagino che sarà sempre la stessa cosa”.

Io devo dire sono rimasta ferita e turbata quando ho letto questo libro, e poi nei mesi successivi ho cercato di interrogarmi. Innanzi tutto credo che ci sia una responsabilità collettiva nel non essere stati capaci di stare vicino alle vittime, nell’averle lasciate sole. Qualcuno ce l’ha fatta con i suoi mezzi e qualcuno non ce l’ha fatta. L’altra cosa che mi sono detta è che probabilmente è più facile, è la strada più dritta quella di rimanere nell’odio. Perché la strada che abbiamo scelto, quella di cercare di non farci divorare dal rancore, è un terreno molle nel quale ogni giorno devi cercare l’equilibrio. Perché in chi ti ha fatto del male tu riconosci anche del bene, perché lo riconosci come persona e riconosci la sua storia, non la giustifichi ma la riconosci, riconosci il suo diritto a sbagliare, riconosci anche che il male che c’è in te diventa ogni giorno veramente una decisione da prendere, una strada da scegliere ed è molto più complicato anche per le vittime.

Penso che quello che ci consente di trovarla ogni giorno forse questa strada o almeno di provarci è proprio lo sforzo di parlare, sia di ascoltare ma anche di parlare raccontando la nostra storia. Questo ho pensato qualche mese fa, quando ho avuto l’occasione di parlare con Suela, la figlia di Dritan, che è il detenuto che vi ha raccontato che è entrato in carcere per una faida familiare quando la sua bambina non aveva ancora due anni. Ecco, mentre Suela mi raccontava la sua storia riconoscevo tantissimi tratti della mia: l’essere privati del padre, l’essere vittima e il non poterne nemmeno parlare perché in questa storia c’è qualcosa di cui vergognarsi. E quando ci siamo parlati io ho cercato d’invitarla a rompere questo muro di silenzio, perché solo mostrandosi con la propria lacerazione si può ritrovare il modo di ricucirla, ma bisogna accettare il fatto che non siamo dei superuomini capaci di odiare tutti e di stare lì sopra a questa piramide da soli sfidando gli altri. Bisogna essere capaci di mostrarci nella nostra vulnerabilità per uscire da questa condanna all’ergastolo che è l’essere vittime.

 

 

Tutti mi chiedevano perché non parlavo mai di mio padre

 

di Suela, figlia di Dritan

 

Io sono Suela, non mi sono preparata un discorso ma mi collego un po’ a quello che diceva Silvia. Il fatto che mio padre è in carcere, tutti i problemi che ci sono stati poi per questo, il fatto di crescere da sola, sola con la mamma in un paese straniero tra l’altro, visto che io sono albanese, non è stato per niente facile, non è stato facile dover mentire a tutti gli altri bambini delle elementari, che comunque mi chiedevano perché non parlavo mai di mio padre, e poi ricordo tutte le domande: i tuoi stanno insieme sono separati dove come? e la mia risposta è sempre stata: ma no, ma qui, ma là… Si, no, era tutto uno sviare, tutto un peso, era veramente un peso. Addirittura neanche le mie migliori amiche lo sapevano, neanche il mio fidanzato, mi sono fidanzata ufficialmente in casa e lui non lo sapeva ancora, l’ha saputo dopo proprio perché mi vergognavo, ma mi vergognavo del fatto di essere giudicata, di essere emarginata perché la gente, non tutti hanno la mentalità aperta, o magari cercano di capire ma la prima cosa che si fa è quella di giudicare. E niente… quando alla fine ho parlato con il mio fidanzato, lui non mi ha neanche fatto delle domande, ma sono stata io a parlare, a raccontargli tutto dalla A alla Z e sinceramente se l’ho fatto Silvia è anche grazie a te. Quando ne abbiamo parlato, mi hai sbloccato perché era brutto il doversi nascondere, il dover mentire in continuazione. Il fatto di crescere senza una figura maschile in casa non è facile, non è facile per niente, non è facile perché il papa è il papa, non è un fratello il papa, è il centro della casa, non so come spiegarlo. Naturalmente chi l’ha avuto sempre a casa sa di che cosa parlo

 

 

 

La fatica di raccontare di avere un genitore in carcere

 

di Ornella Favero

 

Oltre a Suela è presente oggi qualche altra figlia, c’è Barbara per esempio, la figlia di Carmelo. Ecco, quando incontriamo i ragazzi delle scuole succede spesso una cosa strana. I ragazzi, sentendo che le persone mettono davvero a loro disposizione le loro storie, pezzi della loro vita anche terribili, trovano loro stessi il coraggio di raccontare. Io ricordo una ragazza che ha raccontato lì, di fronte ai suoi compagni che non lo sapevano, eppure vivevano fianco a fianco con lei da anni, di avere il padre in carcere. Quindi mi domando quanto la nostra società comprime e reprime il bisogno di verità, sempre per questa cosa terribile del giudicare, del non capire ma giudicare. E per la vergogna, il sentimento della vergogna è opprimente, è terribile, e richiama tutti noi alle nostre responsabilità, perché siamo un po’ tutti, con il nostro vizio di giudicare, che tante volte costringiamo gli altri a nascondersi. Io da quando mi occupo di carcere sono sempre molto colpita dal fatto che si rivolgono a noi genitori, persone “perbene” a cui succede che arrestano un figlio, per problemi di droga, per un furto: ebbene, ho la sensazione che quei genitori, in un certo modo, sarebbero più preparati alla notizia del ferimento o della morte di un figlio, magari per un incidente stradale, che all’idea dell’arresto e del carcere. E quando ti succede, scatta inesorabile il meccanismo di NON DIRE, di nascondere la verità, di non far sapere agli altri.

Allora io spero che anche i ragazzi come Suela, i figli che hanno avuto un genitore in carcere trovino, come lei si è raccontata oggi, la forza di scrivere e di raccontare queste cose. È un’illusione pensare che raccontarsi sia “liberatorio”, però aiuta e aiuta anche noi forse a giudicare un po’ meno.

 

 

Adolfo Ceretti

 

Io vorrei ancora sentire Giovanni Ricci. Giovanni, noi volevamo approfittare della tua presenza per ridarti la parola. Ho avuto la fortuna di conoscerti meglio in questi ultimi mesi, e forte di questa conoscenza ti invito a riflettere ad alta voce, con noi, sul percorso che sei riuscito a fare per trasformare il linguaggio del rancore in un linguaggio capace di includere l’altro/nemico. Vorrei che tu ci parlassi di come ti sei allontanato dal fotogramma del 16 marzo del 1978, dalla fotografia di tuo padre riverso nell’auto che guidava per accompagnare l’on. Aldo Moro, da poco rapito.

Un ragionamento che condivido spesso con alcune persone che sono qui e con molte persone che oggi non ci sono riguarda proprio la differenza tra la metafora del film e quella del fotogramma. Per i parenti delle vittime di omicidi – ripete spesso Gherardo Colombo – la vita ripropone quotidianamente e senza scampo il fotogramma che inquadra la perdita del proprio congiunto, mentre il film della propria vita continua...

Facendo riferimento alle parole che Silvia Giralucci ha letto citando il libro di Massimo Coco, apprendiamo che egli ha reputato opportuno fermarsi su quel fotogramma, e su quel fotogramma rivendicare una sorta di diritto al rancore. Tu, come Silvia, seppure con percorsi diversi, hai provato ad andare oltre quell’immagine fissata in quel fotogramma. Non ti lasciamo tornare a Roma se non ci dici qualcosa in merito....

 

 

Se un giorno mio figlio potesse incontrare i figli di qualche terrorista

Io mi sono sempre detto dentro di me: perché non possono essere amici loro? Perché dovrebbero odiarsi?

 

di Giovanni Ricci

 

Diciamo che per quanto riguarda il punto in cui ho lasciato l’odio e il rancore fluire fuori di me, mi ha aiutato tantissimo conoscere, studiare quello che successe nel periodo del terrorismo in Italia, in particolare poi in quegli anni cosi cruenti, si pensi che solo nel ‘78 ci furono più di 248 attentati (in totale tra omicidi e stragi, ci furono più di 400 caduti e oltre 2500 feriti per un totale di vittime del terrorismo che ci fa essere secondi solo alla Colombia delle FARC), proprio per questo mi sono impegnato a cercare di conoscere quegli eventi e a cercare di comprenderli.

Certamente stiamo parlando di avvenimenti di 35 anni fa, lontani dalle nostre menti, dove ormai la verità giudiziaria c’è tutta, come sicuramente nel caso di mio padre, d’altro canto invece ci sono casi come quelli delle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese dove ancora la verità giudiziaria non c’è. Egoisticamente parlando per me, per il caso di mio padre io la verità giudiziaria l’ho conosciuta tutta e mi sento quasi fortunato, ma sentivo la necessità che dovesse essere riscritta la verità storica di quegli anni perché non se ne parla, non se ne vuole parlare, si cerca ogni volta di dare un colpo di spugna.

Io mi sono sempre immaginato una cosa, mi sono sempre immaginato mio figlio, che ha 17 anni e che si chiama Domenico come mio padre, che un giorno potesse incontrare i figli di qualche terrorista. Mi sono sempre detto dentro di me: perché non possono essere amici loro? Perché dovrebbero odiarsi? Perché i figli devono pagare le colpe dei loro padri, soprattutto laddove comunque il percorso giudiziario sia stato completato, in particolar modo laddove è lapalissiana la volontà e la voglia, come oggi qui testimoniata da tanti detenuti, di essere cambiati da parte di chi ha commesso i reati, di volere anzi essere loro stessi a parlare e far comprendere ai ragazzi delle scuole come sia imperante la necessità di legalità, di far capire le proprie scelte sbagliate. Ecco tutto questo ragionamento mi ha portato a non voler più pensare in maniera negativa a quel giorno, ma a ricreare tutto il film della mia vita. Per quanto mi riguarda, sono diversi anni che posso dire sinceramente che questo bel film me lo vedo dalla mattina alla sera riscoprendo le cose più belle che mi sono mancate per più di trent’anni, riscoprendo anche nuovi ricordi, riscoprendo quella che è stata una vita che mi sono perso. È gioco forza che un giorno arrivi il momento in cui si deve scegliere, il bivio della tua vita, o prendi la strada della solitudine e del dolore estremizzato all’interno di te stesso, lancinante e dilaniante, o decidi che ne devi parlare, devi esternare, devi far capire e devi essere capito, come dice l’amico Mario Calabresi nel suo libro “Spingendo la notte più in là!”. Io spero veramente e vivamente che un giorno io possa sedere qui a questo tavolo insieme ad ex terroristi a parlare di quegli anni come oggi lo hanno fatto i detenuti. Io lo spero vivamente, perché questi ragazzi che sono di fronte a me, questi detenuti che considero cittadini al mio pari mi hanno insegnato oggi una cosa bellissima: “Se si vuol cambiare, si può cambiare”.