Capitolo secondo: La violenza che cancella le donne

 

Quando si parla di reati in famiglia, e di violenza contro le donne, sappiamo che ci sono dietro spesso storie di uomini violenti, ma ci sono anche relazioni che si sfasciano, vite che deragliano per un conflitto, per una separazione, per l’immagine della famiglia felice che va in frantumi, non facciamone allora un’unica fotografia del mostro, andiamo a ragionarci dentro, a scavare… Noi non crediamo che sia meno interessante per la stampa raccontare una storia anche da questo punto di vista, per capire, per indagare perché è successo, per smontare i meccanismi di una cultura che fa male alle donne.

Gli studenti che ascoltano le testimonianze di uomini che hanno compiuto gesti violenti imparano proprio a vedere quanto è complessa la realtà, imparano a capire che bisogna saper chiedere aiuto, che bisogna avere la forza di parlarne, di condividere la sofferenza con altre persone.

Ma se l’idea è di rispondere alla violenza contro le donne con una pena di altrettanta violenza come l’ergastolo, allora non ci stiamo, e però ne vogliamo parlare.

 

 

Una persona che distrugge la sua famiglia non fa calcoli di pena

 

di Ulderico Galassini, Ristretti Orizzonti

 

Oggi si parla di violenza che “cancella le donne”, io appartengo all’altra parte, quella che si trova ad aver commesso il crimine, il più assurdo, definire la morte della persona che ha condiviso progetti importanti di vita assieme: costruire una famiglia, proporsi obiettivi, raggiungerli, esserne orgogliosi e poi… perché ti trovi imprevedibilmente ed incredibilmente ad aver distrutto tutto?

Non so neppure dire come avviene, ma a me è successo, e come a me penso sia successo ad altri, di fare qualcosa che non avevo mai neppure lontanamente immaginato, e tanto meno quindi avevo riflettuto sulla pena, su quanti anni avrei preso se avessi commesso un gesto così violento.

Spesso ci viene chiesto: ma non potevi pensarci prima?

Magari si fosse verificata questa possibilità, sarei ancora con mia moglie e con mio figlio e lui avrebbe ancora sua mamma, o se ci fossero stati problemi tra di noi, avrei scelto la separazione, il divorzio. Ma non c’era nessun motivo per separarci, anzi avevamo ancora tanti progetti futuri.

Da anni, il mio primo pensiero è la consapevolezza che si è manifestata troppo tardi, subito dopo aver commesso il reato, di quale atto mostruoso ha subito mia moglie, 35 anni assieme distrutti per cosa? Poi, l’altro pensiero va a mio figlio, ai parenti di mia moglie, a chi ha avuto modo di apprezzarla nel suo essere stata oltre che moglie, madre, insegnante, amica e parte attiva della società.

Quando sento parlare di fare prevenzione aumentando le pene, e chiedendo l’ergastolo, come se questo servisse a prevenire quei reati, posso dire che una persona che distrugge la sua famiglia non fa calcoli di pena perché non ha un progetto per il futuro, se non quello di porre fine a tutto, per paura forse, paura a volte di non farcela, di non essere più in grado di reggere la responsabilità.

Vorrei allora che piuttosto che parlare di ergastolo si parlasse invece di come trovare una possibilità di prevenzione, di attenzione verso la persona e la famiglia nel suo percorso di vita e prima che giunga eventualmente ad annullarsi se qualcosa non funziona più.

Con questo io certo non voglio dire che chi uccide deve rimanere impunito, ma bisogna fare in modo che chi ha commesso quel terribile reato si racconti, spieghi, ricostruisca quello che gli è successo, e bisogna poi mettere assieme queste storie, cercare di capire e diffondere con serietà i risultati di questo lavoro. A partire da un ascolto che sia un ascolto vero e non uno stare a sentire, che sono cose ben diverse. Serve un ascolto di chi ha già malauguratamente conosciuto questo tipo di reato, come è successo a me, che sono arrivato, all’età di 54 anni, a distruggere tutto quello che avevo costruito con grande passione prima, partendo da quasi niente, non da solo ma assieme a mia moglie, una donna che sinceramente meritava ogni attenzione. Ma io quelle attenzioni gliele ho date sino al 26 maggio 2007, poi “il buio” completo, nessun sentimento, sensazione, quasi un agire da automa, perché?

 

 

Adolfo Ceretti introduce Fanny Marchese

 

La parola va ora alla dottoressa Fanny Marchese, che è con noi per parlare di una esperienza che per i milanesi riveste un significato molto particolare. La creazione, da parte della dottoressa Alessandra Kustermann – che come è stato preannunciato non può essere presente – del Centro contro la violenza sessuale e del Centro contro la violenza domestica, ai quali si è aggiunto, di recente, lo Sportello per bambini e adolescenti maltrattati, è per Milano “un fiore all’occhiello”, tanto che nel 2010 alle equipe che lavorano presso queste strutture è stato assegnato l’ambito riconoscimento dell’Ambrogino d’oro.

 

 

Violenza fisica, violenza psicologica, violenza economica

Quando una donna subisce un trauma di tale natura, è abbastanza scontato che abbiamo un corpo ferito, ma anche un’anima che da subito va curata

 

di Fanny Marchese, assistente sociale

del Soccorso Violenza Sessuale e Domestica

della Clinica Mangiagalli di Milano

 

Lavoro come assistente sociale al Soccorso Violenza Domestica e Sessuale della clinica Mangiagalli. Non nascondo che è abbastanza emozionante per me che mi occupo di donne vittime di violenza intervenire dopo questa testimonianza, quindi perdonerete un po’ di titubanza.

Due parole su che cos’è questo servizio: è un servizio che sta all’interno di una struttura ospedaliera, nasce nel 1996 come Soccorso Violenza Sessuale, è un servizio collocato all’interno di un Pronto Soccorso ostetrico ginecologico e come potete immaginare sta aperto e funziona 24 ore su 24. Nasce su volontà della Dottoressa Kustermann e con la collaborazione di Regione Lombardia, il Comune di Milano, l’ASL, per inizialmente accogliere le donne vittime di violenza sessuale e prestare a queste donne fin da subito l’assistenza sanitaria necessaria. Ma non solo l’assistenza sanitaria, perché quando si subisce un trauma di tale natura è abbastanza scontato che abbiamo sì un corpo ferito, ma anche un’anima che da subito va curata. Il servizio negli anni si è avviato e nel 2007 abbiamo cominciato anche ad occuparci di violenza domestica. È un servizio quindi costituito da un’equipe di personale sanitario: ginecologi, medici legali, infermiere, ostetriche, da psicologhe e da assistenti sociali, che si occupano di tutta quell’altra parte che è necessaria, di cui poi vi parlerò, e siamo anche supportati da un gruppo di Avvocati che assiste le donne sia in sede Penale che Civile, perché occuparsi di violenza di genere è un problema estremamente complesso e richiede l’intervento di varie professionalità.

Come potete immaginare io porterò qui il punto di vista delle donne, questo è quello che noi facciamo e quello che ci hanno chiesto di fare, accogliere le donne vittime di violenza. Premetto che questo non vuol dire che non ci interessa lavorare con gli uomini, anzi, io e la nostra equipe crediamo che possiamo affrontare e superare il tema della violenza di genere solo facendolo insieme. È anche però vero che io ritengo che ci sono dei momenti e ci sono dei luoghi che hanno un compito predefinito, quando una donna è vittima di violenza ha bisogno di trovare un posto dove si sente accolta come vittima, e un posto dove necessariamente deve trovare qualcuno che crea con lei un’alleanza, che le crede, che la supporta. Questo luogo non penso che possa essere lo stesso luogo in cui si prendono in carico anche gli uomini che hanno agito delle violenze e che si sono assunti le loro responsabilità, che vogliono essere curati. Credo che sia abbastanza semplice capire il perché, sono momenti e cose diverse.

Il nostro servizio è un servizio che è in funzione tutti i giorni dalle 9 alle 17, ma quando chiudiamo abbiamo una reperibilità 24 ore su 24, siamo a disposizione di tutto il personale sanitario dell’ospedale, delle forze dell’ordine. Ed è un servizio che è diventato un Centro di riferimento Regionale sulla violenza sessuale, per cui tutte le donne che subiscono una violenza sessuale in Regione Lombardia vengono portate al nostro Centro, dove trovano la possibilità di avere un’accoglienza specializzata, ma di poter fare anche appunto degli accertamenti sanitari e medicolegali che sono estremamente importanti per tutto quello che verrà dopo. Il nostro Pronto Soccorso generale è un Pronto Soccorso a cui le donne vittime di violenza domestica vengono accompagniate dal 118, quando interviene, e i medici del Pronto Soccorso possono avvalersi della nostra collaborazione sempre. Questo quindi è quello che facciamo.

Io preferisco parlare di violenza di genere più che di violenza domestica, perché, va detto, soprattutto per quanto riguarda la violenza sessuale, è vero, noi vediamo anche degli uomini che hanno subito violenze sessuali, quindi una parte dei nostri accessi sono anche uomini vittime, ma in ogni caso hanno subito violenze sessuali da altri uomini, per questo vi dico che questo è un problema di genere.

È importante capire che quando parliamo di violenza domestica parliamo di un problema complesso, parliamo di una situazione dove ci possono essere percosse, ci può essere violenza fisica, ci può essere a volte anche solo violenza psicologica, ci possono essere minacce, ci può essere violenza sessuale e, lasciatemi fare una precisazione, spesso le stesse donne non riconoscono la violenza sessuale che avviene all’interno del vincolo matrimoniale, della convivenza, quando sono costrette dal proprio marito o compagno a subire dei rapporti sessuali quando loro non lo vogliono minimamente e non lo desiderano, non gli viene neppure in mente che potevano sottrarsi, che questa in qualche modo era una forma di violenza, perché le donne stesse considerano questo un dovere coniugale. Quindi violenza fisica, violenza psicologica, violenza economica, spesso queste forme di violenza si associano tra di loro, e non dimentichiamo che in queste situazioni familiari vi è un’altra forma di violenza che nasce e si sviluppa e che è la cosiddetta “violenza assistita”, cioè, la violenza di cui sono vittime i figli di questa coppia che continuamente sono esposti ad atti di violenza, anche là dove loro non subiscono e non sono mai maltrattati, però ricevono un grave danno psicologico assistendo continuamente a queste violenze.

Una delle prime cose che noi facciamo nel nostro lavoro è quella di cercare di distinguere le situazioni che sono delle situazioni di conflittualità dalle situazioni di violenza. Quelle situazioni in cui vi è una conflittualità, a volte alta, che può magari essere stata caratterizzata anche da un unico episodio di violenza. È chiaro che vengono approcciate in una maniera diversa, e sono tutte quelle situazioni su cui magari si può intervenire con altri interventi, come ad esempio gli interventi di mediazione.

Le situazioni che arrivano da noi sono invece situazioni caratterizzate quasi sempre da violenze reiterate nel tempo. Quando veniamo allertati dai medici del Pronto Soccorso sono loro stessi a fare già un primo screening, perché accolgono la donna e molto spesso già raccolgono un racconto non solo dell’episodio dell’aggressione avvenuta poche ore prima e che ha portato al Pronto Soccorso, ma anche di episodi pregressi. A volte le donne non raccontano gli episodi pregressi, ma la tecnologia in questo caso ci aiuta perché un’altra cosa che abbiamo concordato con i medici e gli operatori del triage è quella di verificare immediatamente se la donna ha fatto altri accessi presso il nostro ospedale, e se sì, per quale motivo. Quindi le situazioni di cui noi ci occupiamo e che arrivano da noi sono situazioni in cui la violenza è già in corso. Allora noi che cosa dobbiamo fare? Che cosa è prioritario in quel momento? In quel momento è per noi assolutamente necessario fermare la violenza, perché ci sono quelle situazioni che sfociano poi nei femminicidi, questa parola che non amiamo. Poi quando le vai ad analizzare, molte di queste erano situazioni in cui si poteva fare qualcosa prima, si potevano fare tante cose prima. Quindi quello che noi siamo chiamati a fare nel momento in cui le donne arrivano da noi è cercare in qualche modo di fermare la violenza, poi tutto ciò che è riparabile lo ripariamo, ma in quel momento bisogna fermare la violenza e valutare il rischio che la donna corre in quel preciso momento.

 

Quando la violenza può esordire all’interno di una coppia?

 

Quando la violenza può iniziare all’interno di una coppia, all’interno di una relazione di convivenza o di un matrimonio? Può iniziare quando ci sono dei momenti di crisi familiari, dei cambiamenti di vita all’interno della coppia. Ad esempio uno dei momenti più diffusi di esordio della violenza è la gravidanza. Noi che lavoriamo all’interno di un Pronto Soccorso ostetrico ginecologico questo problema lo tocchiamo con mano. La donna è in una situazione di maggior dipendenza quando è in gravidanza, dipendenza sia affettiva che economica, aumentano le responsabilità e le preoccupazioni in entrambi, è una condizione che può diventare estremamente stressante. A volte gli uomini sentono di non essere più al centro dell’attenzione della donna.

Un altro momento estremamente delicato in cui può iniziare la violenza o manifestarsi in una maniera molto grave è quando le donne decidono di separarsi, quando decidono di porre fine a una relazione che considerano conclusa, che considerano non più tollerabile. E le donne questa cosa la percepiscono.

Io ho incontrato purtroppo centinaia di donne, e molte di queste alla separazione ci avevano pensato, ma non avevano gli strumenti, non avevano le risorse ma soprattutto avevano paura, perché un pensiero che spesso le donne hanno è quello di restare lì e controllare chi ti fa del male, è meglio che non sapere dov’è, non sapere quando può arrivare, e non rendersi conto che quindi può diventare più pericoloso, successivamente.

Molto spesso, quando andiamo in giro, molti ci chiedono: “Ma perché le donne non denunciano, perché le donne non chiedono aiuto, perché non si muovono prima?”. Cerchiamo di capire insieme perché. Molti autori lo hanno studiato e naturalmente le situazioni di violenza domestica non sono delle situazioni in cui c’è violenza tutti i giorni, solitamente si parla di un cosiddetto “ciclo della violenza”. Un ciclo per cui l’uomo può essere violento, anzi diciamo che solitamente la situazione è preceduta da una crescita di tensione all’interno della coppia, poi vi è una manifestazione della vera e propria violenza, e successivamente all’esplosione della violenza c’è una cosiddetta fase di riconciliazione, c’è un momento in cui gli uomini chiedono scusa, chiedono perdono, e le donne, che quasi sempre vogliono bene ai loro compagni, li hanno scelti, li hanno sposati per amore, pensano che la cosa importante sia tenere unita la famiglia per il bene dei figli, pensano che quell’uomo possa cambiare e accettano le scuse, accettano il perdono, e il ciclo ricomincia e questo fa si che le donne rimangano lì.

Le donne non se ne vanno perché sperano sempre che il proprio compagno o marito possa cambiare e perché lui non è sempre quella persona violenta, perché sono poi donne che a causa del protrarsi della violenza fisica, verbale, psicologica ormai si sentono completamente impotenti, non pensano che possa esserci un’altra strada. Molto spesso sono donne che hanno appreso la violenza fin da bambine, se hanno una storia familiare di un certo tipo, e sappiamo che spesso è così. A volte hanno problemi pratici, non sono indipendenti dal punto di vista economico. Pensiamo a quelle donne che hanno lavorato per tantissimi anni e lavorano all’interno di un’impresa familiare. Prestano la loro attività, lavorano, non sono retribuite, non parliamo dei contributi e di un futuro pensionistico, hanno naturalmente svolto anche la loro attività casalinga, è all’interno di quella relazione che subiscono la violenza domestica, voi capite che pensare di separarsi, andare via vuol dire ricominciare da zero, non sapere da che parte girarsi.

Spesso c’è questa idea: “Sto con lui per i figli”. Perché questo della famiglia unita è purtroppo un mito che dobbiamo un po’ sfatare, in queste situazioni naturalmente, ci sono ancora una serie di condizionamenti psicologici per cui le donne stesse pensano: “Non posso separarmi. Non è bene separarmi”. Spesso le famiglie di origine danno questo tipo di messaggi, e poi soprattutto molto spesso le donne non chiedono aiuto perché hanno paura, certo, perché a volte non sanno dove andare, ma perché hanno paura, ricevono minacce e molto spesso la violenza è accompagnata anche da questa minaccia: “Se denunci, se chiedi aiuto, perderai i tuoi figli, te li porterò via, ammazzerò te e ammazzerò tutti quanti”.

 

 

Adolfo Ceretti introduce Francesca Archibugi

 

“Attraverso i centri antiviolenza non racconto soltanto cosa fanno gli uomini alle donne, ma anche quanto le donne siano corresponsabili di questo stato di cose: come dietro ogni uomo che picchia ci sia innanzi tutto una madre che l’ ha messo al mondo, e poi delle maestre che lo hanno istruito, delle sorelle che lo hanno fatto passare per primo, ed infine una compagna che, ognuna a suo modo, si è fatta vittima. Come, cioè, la società legittimi la violenza”. Sono parole di Francesca Archibugi, regista e sceneggiatrice che nel 1988 ha esordito dietro la macchina da presa con Mignon è partita. Dopo vent’anni dall’uscita de Il grande cocomero (1993) ho finalmente l’opportunità di esprimere tutta la mia gratitudine ad Archibugi, perché questo film ha avuto un riflesso importantissimo nel mio mondo, e ha rafforzato la motivazione di proseguire nella strada che avevo intrapreso. Come è noto, Archibugi affronta in questo film il tema spinoso delle patologie neuropsichiatriche infantili, attraverso il ritratto della famiglia di una ragazzina epilettica. Il grande cocomero ripercorre alcune fasi della vita del neuropsichiatra infantile Marco Lombardo Radice, e la sua esperienza al reparto di via dei Sabelli di Roma. Questo film ha vinto numerosi premi. Non posso ora elencare tutti gli altri prestigiosissimi film di Archibugi. Ricordo soltanto che nel 2012 ha girato il cortometraggio “Giulia ha picchiato Filippo”, che vede quali protagonisti Scamarcio e Trinca e contiene un toccante collage di testimonianze raccolte in alcuni Centri antiviolenza. Prodotto dal Ministero delle Pari Opportunità e trasmesso da Rai Uno per la Giornata Internazionale contro la Violenza alle Donne, ha vinto il Peace Award sotto il patrocinio dell’Unicef nella diciassettesima edizione del Festival Capri Holliwood.

 

 

Quella spirale della violenza che comincia sempre da un amore molto romantico

 

di Francesca Archibugi, regista e sceneggiatrice,ha esordito nella regia con Mignon è partita, ha

realizzato altri film fra i quali “Il GrandeCocomero”, “Lezioni di Volo” e “Questioni di Cuore”. È autrice del cortometraggio “Giulia ha picchiato Filippo”, che unisce testimonianze raccolte nei centri antiviolenza a una breve fiction

Come immaginerete il mio intervento sarà diverso, non sono una esperta del settore. Mi sono avvicinata al tema della violenza sulle donne perché si è trattato di un’occasione che mi è stata offerta da una associazione che si chiama “Differenza Donne”, che gestisce i Centri antiviolenza del Comune e della Provincia di Roma. Naturalmente mi sono avvicinata a questa idea con il cervello pieno di tanti luoghi comuni. Quindi la prima informazione è stata proprio quella che mi ha permesso di disgregare le credenze che avevo, ed è stato molto interessante riuscire a farlo.

In questo periodo si parla molto di violenza sulle donne, e alcune mie amiche, spiritose e ciniche, mi dicono sempre: “Ma cos’è all’improvviso questo femminicidio, non parlate d’altro!”. In effetti è importante approfondire una questione nel momento in cui si solleva un interesse, ma soprattutto questo interesse bisogna sempre ricordare che purtroppo viene da numeri mostruosi di un reato, di cui il nostro Paese è fra l’altro tristemente capofila.

Quando ho iniziato la ricerca per questo lavoro, e mi è stata data completamente carta bianca dalle organizzatrici di “Differenza Donna”, che ho conosciuto approfonditamente, e dalle quali mi sono fatta guidare, e che non ringrazierò mai abbastanza, mi sono resa conto che i luoghi comuni più forti che io stessa per prima avevo erano che molto spesso avveniva una violenza tramite l’amore, cioè la violenza di un uomo su una donna era un atto inspiegabile che avveniva per un raptus, legato appunto all’amore.

Andando invece ad analizzare le storie mi sono resa conto che spesso non era cosi, naturalmente anche questo qualche volta accade, però la stragrande maggioranza delle volte si innesca quella che viene chiamata “la spirale della violenza”, cioè un fenomeno che ha proprio dei passaggi che sono legati al rapporto uomo – donna, e che sono anche riconoscibili all’inizio. Io qui sto parlando di violenza domestica e non di violenza di genere, perché anche in questo bisogna fare una distinzione, cioè io sto parlando di quello che succede fra le quattro mura di casa, non quello che succede a tante donne, magari attraversando un bosco o in un luogo appartato, per mano di un estraneo. Questa spirale della violenza che comincia sempre nello stesso modo, con un amore molto romantico, dove una donna perde completamente la testa perché non è mai stata trattata cosi berne, e che piano, piano si stringe secondo delle tappe che sono sempre uguali, in una specie di coercizione, dapprima psicologica e poi via via fisica, fino ad arrivare all’omicidio, all’assassinio che è una parola più neutra, se non vogliamo dire “femminicidio”.

Io credo che avendo coscienza, riconoscendo queste tappe ci si possa forse fermare prima, e una di queste tappe, e vedo che ci sono molte donne qui dentro, tutte le possono riconoscere quelle possibili tappe, è quel mobbing occulto che viene fatto dentro casa. È quella la prima cosa che va rotta, il mobbing familiare, cioè il fatto che molto spesso le donne vengono piano piano discriminate a loro stesse. Ma questo mobbing che porta fino alla violenza, in realtà è del tutto supportato dalle donne di contesto. Bisogna quindi anche accettare, e non sempre sono riuscite a farlo delle grandi femministe, grandi pensatrici, che nell’animo femminile c’è una grandissima componente antifemminista, soltanto aprendo gli occhi su questo, e tenendoli bene spalancati, con quella che Carla Lonzi chiamava l’autocoscienza, cioè il fondamento del lavoro sul femminismo, una donna può accettare e riconoscere in se stessa anche quella specie di “aberrazione antropologica”, che fa nei confronti delle altre donne. Voler rinchiudere il rapporto fra le altre donne in una specie di parnaso di sorellanza fasulla, purtroppo è quello che in tanto femminismo storico ci ha impedito di progredire e fare dei passi avanti. Cioè il rapporto fra le donne, fra donne è molto complesso, è bello per questo, ma non parlo soltanto della solita rivalità che viene raccontata spesso, è qualcosa di molto complesso, soprattutto con un uomo al centro. Io ho due figlie, ho anche un maschio, ma con le figlie il rapporto nei confronti del padre è particolare, e poi la madre dell’uomo e poi le sorelle e poi le colleghe, cioè molto spesso l’assassinio di una donna avrebbe potuto essere riconosciuto, denunciato, fermato da tutte le donne che ci sono state intorno e che non hanno voluto vedere, semplicemente. Perché il percorso dell’uomo violento spesso viene giustificato, gli uomini sono tendenzialmente sempre giustificati, perfino dai giornali. Perché parlare di un raptus di una persona tendenzialmente molto normale e non violenta, voler dipingere così certi comportamenti qualche volta è un modo per giustificare perennemente il fatto che esista la violenza domestica, e la violenza di genere dell’uomo sulla donna. Cioè, gli uomini nei confronti delle donne sono violenti, sono più violenti di quanto non lo sono le donne, su questo bisogna mettersi d’accordo e accettare questa cosa, perché molto spesso sui giornali, nell’informazione la violenza viene raccontata come un caso eccezionale, ma non è un caso eccezionale. La violenza si può fermare, a partire da un tipo di mobbing psicologico, che tutte conosciamo, e dal quale tutte dobbiamo difenderci, per arrivare fino alla sua degenerazione più violenta.

Adesso io mi vorrei occupare di un documentario che parli dal punto di vista degli uomini, vorrei andare a intervistare, far parlare gli uomini che hanno commesso violenza. Anche qui non ho ancora incominciato questo lavoro e mi immagino che dovrò imparare molto, perché i documentari sono, lo diceva bene Rossellini, sempre utili perché tu impari, vai li, fai delle interviste e cerchi di capire. Spero così di vedere anche sgretolarsi i luoghi comuni che ancora non so di avere. Quello che fino ad ora ho capito è che è molto difficile intervenire su un uomo violento, lo dico qui e lo dico con un brivido, nel senso che abbiamo avuto una testimonianza molto toccante di un uomo incredibilmente mansueto. Però, studi di tutto il mondo ci stanno dicendo che è molto difficile, si può prevenire la violenza, ma non riconvertire un uomo violento, e a queste conclusioni sono giunti in Canada, in Danimarca, in Inghilterra, addirittura le mie adoratissime operatrici dei centri antiviolenza, che ho già incominciato a sentire anche per questo lavoro, sostengono che gli sportelli, l’ascolto, sono drammaticamente risorse buttate, perché spesso vengono utilizzate soltanto per ottenere degli sconti della pena, con dei finti pentimenti. Allora io sto dicendo questo in un carcere, mi rendo anche conto della sgradevolezza di quello che posso dire, non sono cosi insensibile, ma io mi sento di dirlo a cuor leggero, perché sono profondamente contro la cultura carceraria, cioè non credo che il carcere serva a niente per questo genere di problemi. Questa idea, purtroppo anche della sinistra, del “buttarli dentro in una cella e poi buttare le chiavi”, è una cosa che secondo me non ha senso. Però bisogna unire queste due cose, cioè il fatto che molto spesso non è il carcere il posto dove devono stare le persone che commettono un certo tipo di reato, a meno che non siano reiteratamente violenti, ma anche il fatto che il percorso del pentimento spesso non è radicato e profondo, perché riguarda tutta una serie di altre questioni che bisognerebbe analizzare. Io in questo mi sento un po’ portavoce delle operatrici che lavorano sul campo della violenza, e voglio anche parlare di quella terribile omertà giustificazionista da parte della società, che permette all’uomo violento di continuare a perpetrare i suoi delitti.

 

Adolfo Ceretti

Ringraziamo sentitamente Francesca Archibugi. Un’unica nota. Archibugi è ricorsa a espressioni molto forti, soprattutto per quel che riguarda la questione dell’atteggiamento manipolatorio che i soggetti violenti possono assumere nei confronti delle istituzioni e di chi li prende in carico. Io sono un docente universitario ma, orgogliosamente, lavoro anche sul campo. Desidero sottolineare, tenuto conto di tutte le persone che sono qui, detenuti e operatori, che uno degli aspetti più difficili, più complessi, ma anche affascinanti del nostro lavoro è quello di accogliere questo atteggiamento manipolatorio e opportunista che indubbiamente assai spesso viene giocato, per trasformarlo in qualcos’altro. Paradossalmente, quell’atteggiamento, quando si manifesta, può essere un passaggio decisivo nell’”aggancio” del soggetto in questione, che si esprime più o meno in questi termini: “Io adesso domino anche voi, piego anche voi ai miei fini, ai miei obiettivi”. È lì che i bravi operatori sanno ascoltare, sanno cogliere l’opportunità per provare a promuovere una cesura. Io sono un po’ più ottimista di Archibugi e non credo che tutti i soldi siano buttati. Lo dico senza polemica, ma ci tengo a sottolinearlo.