Capitolo quinto:

 

Se diciassette anni vi sembran pochi

 

Dopo solo diciassette anni è già libero”. Questo è il titolo di un quotidiano, del 2008, riferito a un detenuto particolarmente conosciuto, Pietro Maso, il ragazzo che a diciannove anni uccise i genitori. Il titolo conteneva un errore, e poi un giudizio sulla quantità di pena scontata, che nulla hanno a che fare con la notizia vera. L’errore è dire che Pietro Maso sia già libero, no, lui ha ottenuto la semilibertà, che è una misura alternativa per cui si lavora all’esterno, con un programma rigidissimo e possibili controlli della Polizia in qualsiasi momento, e si rientra in carcere alla sera, e se si sgarra ci si ritrova in un battibaleno rinchiusi; il giudizio invece è ritenere che diciassette anni siano niente per un omicidio. Può darsi che diciassette anni di galera siano pochi per una persona che ha ammazzato, ma ai ragazzi delle scuole che entrano in carcere per incontrare i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti noi abbiamo posto due domande elementari: Quanti anni avete? Vi sembrerebbe davvero una cosa da niente passare in carcere tutti gli anni della vita che avete vissuto finora? Noi crediamo allora che un giornalista non possa scrivere “solo diciassette anni”, non è onesto dare alla gente, ai lettori la sensazione che diciassette anni di galera, in cui non sei padrone di un minuto della tua vita e dipendi in tutto da un agente, anche per spegnere la luce di notte, andare in doccia, chiamare a casa per i miseri dieci minuti consentiti, non siano niente. Non è onesto, e infatti tanti giornalisti “regolari”, liberi, il piacere dell’onestà dell’informazione, almeno rispetto al carcere, sono sempre più disabituati a provarlo.

 

 

La responsabilità del giornalista e la responsabilità del cittadino

Forse dovremmo pensare che anche noi siamo responsabili ogni volta che leggiamo quelle pagine su certi delitti, con quello sguardo morboso, con quello sguardo che cerca la differenza tra me, che sono assolutamente, totalmente buono, e lui che è assolutamente cattivo

 

di Gianni Biondillo, scrittore, autore, tra l’altro, dei romanzi

“Per cosa si uccide”, “Con la morte nel cuore”, “In nome del padre”

 

A ottobre dell’anno scorso, io non ero in Italia, ero in Africa, sono stato per molto tempo, mai che mi invitino ad Acapulco, mi invitano in posti assurdi, Centri profughi del Darfur, cose di questo tipo, oppure mi invitano nelle carceri. Ci sarà qualcosa in me di sbagliato evidentemente. Sta di fatto che al ritorno, a Ndjamena, c’era Le Monde, il quotidiano, a disposizione. Quindi lo prendo, salgo sull’aereo e mi leggo Le Monde, con il mio improbabile francese, ma comunque ci riesco, e arrivato a Parigi, in attesa dell’aereo che mi riportava finalmente in Italia, trovo Repubblica. Nell’arco di poche ore avevo due quotidiani europei a disposizione, e istintivamente mi è venuto di confrontarli, di metterli uno di fronte all’altro. Ho parlato di due giornali europei assolutamente autorevoli. Il confronto è stato davvero imbarazzante. Decine e decine di pagine di politica, di gossip politico, sul quotidiano italiano, mentre la politica interna nel giornale francese era tipo a pagina 15 ed era tutto in una pagina. Da una parte, su Le Monde, c’era l’intervista a un grande biochimico, sulle pagine del quotidiano italiano c’era una paginata sull’intervista a Sabrina Ferilli. E poi 5-6 pagine sul delitto di Avetrana. Era pornografico, ed è stato veramente imbarazzante sentire la scarsa qualità di un mezzo che dovrebbe formare la nostra coscienza civile, la nostra preghiera mattutina, diceva un filosofo qualche tempo fa. Di chi è la responsabilità? A chi dobbiamo dare la colpa di tutto questo?

Da quando io ho cominciato a scrivere romanzi mi capita spesso che, dato che i miei romanzi parlano spesso di condizioni di marginalità, di situazioni complicate, difficili, di periferie urbane, alcuni sono anche dei gialli, più di una volta mi è capitato che quotidiani nazionali, a partire da Repubblica stessa, e, non ultimo, il Corriere della Sera, quindi stiamo parlando dei giornali più autorevoli che ci sono in Italia, mi telefonino e mi chiedano un pezzo sul tale omicidio, la tale rapina, però “da scrittore”, “da giallista”, cioè, mi chiedono di “finzionalizzare” in qualche modo la notizia, renderla intrigante, renderla digeribile. Quindi, la notizia non è interessante, quello che conta è avere quella scrittura un po’ nervosa, questo scavare nel fango, rotolarcisi dentro con piacere, con godimento. La maggior parte delle volte ho rifiutato perché sento che esiste una responsabilità dell’autore, esiste una responsabilità di chi scrive, esiste una responsabilità del giornalista. Se non ci prendiamo questa responsabilità non possiamo poi dare la colpa agli altri. Mi ricordo ancora quando ci fu tutto quello scandalo Marrazzo, dove era morta quella trans, una storia veramente misera nelle sue situazioni, e da me volevano la morbosità. Ho detto: io questa cosa non la scrivo, ho troppo rispetto per le persone che muoiono. Voi dovete capire, dicevo alla redazione, che una cosa è scrivere un romanzo dove parli di morte, dove costruisci un’indagine, tutto quello che vi pare. Ma quella è un’altra cosa, questi sono morti veri, avete rispetto per le persone o non ce l’avete? Hanno smesso di chiamarmi e leggo tutti quegli articoli che avrei potuto scrivere io, li leggo scritti da qualcun altro, qualcuno che non si è posto questo problema della responsabilità dell’autore, la responsabilità dell’intellettuale, la responsabilità del giornalista.

Però mi chiedo anche, su tutto: e la responsabilità del cittadino? E la responsabilità dell’utente televisivo? Possiamo continuamente dire che siamo un popolo inebetito dalla televisione, e quindi non abbiamo nessuna responsabilità. Se stanno mettendo sempre un cucchiaino di sale dentro questa bottiglia d’acqua, e noi non ce ne accorgiamo, prima un cucchiaino di sale, l’acqua è più salata ma non ci facciamo caso, poi un altro cucchiaino, poi un altro ancora. Alla fine è completamente infetta, hanno infettato i pozzi, e noi non abbiamo reagito. Quindi, forse dovremmo pensare che anche noi siamo responsabili ogni volta che leggiamo quelle pagine su questi delitti, con quello sguardo morboso, con quello sguardo che cerca la differenza tra me, che sono assolutamente, totalmente buono, e lui che è assolutamente cattivo.

Io ho frequentato le carceri, in un modo o nell’altro, per varie ragioni, anche autobiografiche, non sono mai stato in carcere per aver commesso qualcosa, ma sono figlio di una famiglia complicata. Sono figlio di meridionali che sono venuti al nord, sottoproletari, quindi metà della mia famiglia le carceri le ha conosciute. E io so di avere metà della mia famiglia fatta di persone, non di assassini, criminali, mostri. D’altronde poi bisogna sempre decidere come si costruisce un mostro. Perché, ad esempio, questi giornali si interessano sempre, fateci caso, a una certa tipologia di crimine? Erba, Novi Ligure, Avetrana, Cogne.

 

Il male succede sempre a Quarto Oggiaro

 

C’è un famoso articolo di Pier Paolo Pasolini, degli anni 70, dove diceva: «Guardate che anche questo sguardo, questa attenzione sui delitti dell’alta borghesia romana, magari fatta dai figli fascistoidi di quella borghesia, è un’attenzione razzista e classista». Io sono cresciuto in un quartiere di Milano che si chiama Quarto Oggiaro, che ha una fama addirittura extraterritoriale. Ogni volta che andavo in giro e dicevo di essere di Quarto subito si controllavano il portafogli o la collanina, convinti che glieli fregavo automaticamente. Gli omicidi a Quarto Oggiaro sono dati per scontati, il crimine a Quarto Oggiaro è dato per evidente, non fa notizia in un certo senso. È ovvio, è naturale che chi vive li è antropologicamente criminale. Una volta, una dottoranda in geografia che stava facendo un lavoro sulle periferie di Milano, mi fece delle domande perché diceva che io ero “il cantore” delle periferie, bla, bla, bla. Quindi, molto seriamente mi ha fatto tutta una serie di domande, di richieste, perché stava portando avanti questo suo studio, e a un certo punto mi dice: «Cosa dobbiamo fare delle case che sono in via Lopez?» Che voi, naturalmente, non avete la minima idea di che cosa siano, ma è una strada di Quarto Oggiaro, e lei mi proponeva due ipotesi, per darmi una mano, mi diceva: «Le demoliamo? O le trasformiamo nel museo della criminalità?». Io l’ho guardata e le ho detto: «Ci vive mia mamma in via Lopez, come glielo spiego adesso? Mamma, se ti va male ti tiriamo giù la casa, bene che va diventi un pezzo da museo».

È che l’idea è un po’ questa, cioè, se vivi lì sei inevitabilmente criminale, o criminaloide, o comunque lo diventerai. Non è pensabile che quella signora che è mia madre mi abbia cresciuto con un sistema di valori, anche in un quartiere complicato, difficile, non lo metto in dubbio. Un sistema che ha fatto sì che quel ragazzino, figlio di due semianalfabeti, mio padre aveva dei grossissimi problemi a leggere i titoli della Gazzetta dello Sport, poi magari non va necessariamente a spacciare cocaina, ma si laurea in architettura, questo non è previsto. È dato per scontato, sei lì, vivi lì, sei naturalmente predisposto alla criminalità. Un’altra volta, un altro giornalista mi telefona e mi dice: “Sai, un’operazione di polizia ha messo in galera tutta una serie di spacciatori di cocaina”. Mi ha telefonato perché, la cosa curiosa, alcuni di questi che avevano arrestato, avevano dei soprannomi che sembravano rubati dai miei romanzi. Io gli faccio tutto un discorso, sai, il soprannome per la cultura meridionale, popolare … Però, per curiosità gli ho anche chiesto: “Ma dove esattamente li hanno arrestati?”. Questo è un giornalista di nera di un grosso quotidiano milanese, e mi dice il posto. E io gli faccio «Guarda che non è a Quarto Oggiaro» Non aveva neanche aperto la cartina geografica per scoprire che il posto dove avevano arrestato queste persone era molto più vicino al centro città, al centro borghese, rispetto alle sue periferie. Questa io l’ho chiamata la Quartoggiarizzazione dell’immaginario collettivo. Il male succede sempre lì. Escono ogni tanto dei titoli come “Quarto Oggiaro come Scampia”. Cosa significa questo titolo? Niente, non hai detto niente di Quarto Oggiaro, non hai detto nulla di Scampia. Adesso non voglio aprire un discorso sulle Vele di Scampia che io non demolirei perché sono strepitose, ci sono degli edifici identici sulla Costa Azzurra che nessuno vorrebbe mai demolire, sono delle seconde case di parigini snob che dicono: “Ho pure la vista sul mare, cosa voglio di più”. Ma questo è un altro discorso.

Se, dunque, Quarto Oggiaro, avete capito che è una metafora la mia, potremmo parlare del Corviale a Roma, che è un altro posto incredibile, è il luogo del male, va bene, si ammazzano fra di loro. Ma non si possono ammazzare ad Erba, non si possono ammazzare a Novi Ligure, è impensabile che si ammazzino a Cogne, perché quelli ci assomigliano. Quelli ci assomigliano, ecco la morbosità, ecco l’attenzione fanatica nei confronti di questi tipi di omicidi. È inaccettabile guardarsi allo specchio e scoprirsi di fronte a un baratro. Capite che dobbiamo ricostruire completamente la nostra comunicazione, la comunicazione di un’intera società, per riuscire poi a capire qual è il significato di questi luoghi, come questo qui, dove stiamo parlando in questo momento.

C’è una serie televisiva che si chiama Cold case, avete presente? Casi freddi. C’è una sezione, in America, dove riprendono in mano vecchi casi irrisolti e grazie a tutta una serie di tecnologie, Dna e altro, trovano sempre il cattivone. È il giustizialismo protestante veterotestamentario, gli americani sono fatti così, occhio per occhio, dente per dente, ed è fatta. Ed è effettivamente pacificante, è inutile negarlo, dire: “Tu sei quello cattivo e ora devi pagare”, è facile.

Io l’altra sera ho guardato in televisione un film complicatissimo, si chiama “Valzer con Bashir”, che è un film che, sostanzialmente, parla della guerra del Libano. Un film girato da un israeliano che ha fatto la guerra in Libano. Quanto è stato complicato spiegare una cosa del genere a mia figlia che di anni ne ha 11, e ha tutto il diritto di chiedermi «Sì papà, ma chi sono i cattivi?». A 11 anni chi sono i cattivi credo te lo possa ancora chiedere. Il fatto che noi continuiamo invece a concepire il mondo come se fossimo degli undicenni, cioè, ci sono i cattivi e ci sono i buoni ed è risolta, tu sei cattivo e quindi devi pagare, occhio per occhio, così deve essere, ti taglio la mano se hai rubato, ci fa tornare indietro di secoli, ci fa dimenticare il fatto che noi abbiamo avuto uno dei più grandi pensatori del mondo, Cesare Beccaria, che ci ha raccontato che cosa sono le pene, che cosa sono i delitti, che ci ha spiegato l’importanza della legge come espressione della volontà pubblica.

 

La grande soap opera del delitto Cesaroni

 

Diciamoci la verità, prima si parlava di pedofili, io ho due bambine, se qualcuno stuprasse mia figlia, io lo vorrei uccidere con le mie mani, personalmente, lo vorrei vedere morto, lo vorrei vedere soffrire, impazzirei all’idea che questo non accada. Ed è questa la mia liberazione, sapere che esiste la legge, che esiste LA LEGGE, che non sta al di sopra delle mie pulsioni, ne sta al di fuori, sta completamente fuori da questo mio dolore. Cerca, in qualche modo, questa espressione della pubblica volontà. Perché arrestiamo le persone? Perché le mandiamo in galera? Perché le portiamo qui dentro? (che poi qui dentro, sembra l’aula di una scuola questa, tra l’altro, questo fatto che le tipologie edilizie si somiglino sarebbe un altro discorso che adesso non ho tempo di fare, al punto che certe carceri, da fuori, sembrano case popolari. Non riesci mai a capire se significa che abbiamo voluto fare delle carceri che sembrano delle case, o facciamo delle case che sembrano delle carceri). Perché arrestiamo? La legge arresta il criminale per fare che cosa? per difendere il corpo sociale, sostanzialmente. Questa è una delle cose che fa, in teoria dovrebbe anche rieducare e reinserire, come ci hanno sempre insegnato, anche se sappiamo che due terzi dei nostri detenuti hanno precedenti penali. Due terzi, significa che non si rieduca un bel niente, non c’è nessuna rieducazione in questo luogo se due terzi sono recidivi. Non c’è recupero, chi frequenta le patrie galere non recupera nulla, si allontana semplicemente dall’alveo della civiltà. Perché dovrei recuperare, se, come è stato detto prima dalla mamma di quella ragazza detenuta, il carcere è il luogo dove tiri fuori il peggio di te, non il meglio di te. Certo, lo fai anche per la deterrenza, tu arresti una persona perché dici: “Così la prossima volta non lo fai”, è l’effetto dissuasivo della pena. Certo, è vero, perché non vogliamo dire anche che noi li incarceriamo per PUNIRE, nel senso proprio di volerci vendicare, ci fa orrore dirlo, ma noi vogliamo vendetta. Noi vogliamo la vendetta, non c’è nessuna ragione, spesso, per la quale noi arrestiamo qualcuno, se non per il gusto di dire “Ah, mi sono tolto questa soddisfazione”. Questo ragionamento io l’ho fatto quando ho rivisto un altro di quei Cold case che in Italia non sono affatto cold me sono molto hot. Da vent’anni l’omicidio Cesaroni, Simonetta Cesaroni, ve lo ricordate tutti, è vent’anni che, se non si sa di che cosa parlare, esce fuori il delitto Cesaroni, poi, proprio come un cold case, hanno scoperto, probabilmente, il colpevole, anche se io non lo so, io non sono un giudice, una cosa che io continuo a dire ai giornalisti è “non chiedete a me chi è il colpevole”. Io sono uno che scrive libri, non sono un giudice, non ho in mano le carte, non ho la cultura, la tecnica, la preparazione, per poter decidere chi è e chi non è il colpevole. Ebbene, ora, probabilmente, hanno scoperto che quello che era il suo fidanzato è stato l’omicida. Io non ho la minima idea se è andata così, non sono fra quelli che dividono il mondo tra innocentisti e colpevolisti, non è una cosa che mi riguarda, ma da narratore, so che la vita è molto più complicata di queste semplificazioni.

Una volta c’era il Readers Digest, non so se esiste ancora adesso, che erano quella specie di riviste dove riassumevano 5-6 libri in poche pagine, così potevi chiacchierare con gli amici su “Delitto e castigo” anche se avevi letto un riassunto di un riassunto di un riassunto. Io credo che quello che sta succedendo adesso in televisione è esattamente questo, cioè, la televisione offre quella narrazione che gli italiani non leggono, è il Readers Digest della nostra epoca. Ed è per questo che poi tutto viene “finzionalizzato”, la notizia di cronaca diventa una fiction, diventa una sorta di soap opera.

La grande soap opera del delitto Cesaroni ha questo colpo di scena. Io però, piuttosto che guardare finalmente il criminale, il mostro, ho guardato i suoi figli, ho guardato i suoi figli che hanno più o meno l’età delle mie bambine. E ho visto quello che una volta era un ragazzo, adesso è un uomo che più o meno ha la mia età. E mi sono chiesto: ma io cos’ero, chi era Gianni Biondillo 20-25 anni fa, è la stessa persona di oggi? Al di là della colpa di quell’uomo, mi chiedo: l’uomo che stanno arrestando oggi è il ragazzo che ha commesso quell’omicidio 20 anni fa? Io non lo so, io non so dare una risposta a questa domanda, però questa è una domanda che si insinua dentro di me, e forse non è così semplice trovare una soluzione.

Non sto parlando di perdono, attenzione, il perdono, tra l’altro, secondo me, nessuno ha il diritto di chiederlo. Ti chiedo perdono per il male che ti ho fatto, ma con quale diritto? Forse il perdono si può solo dare, soltanto la vittima può dare il perdono, ma nessun criminale può chiederlo. Non sto parlando di questo, mi sto chiedendo quali sono le colpe, le incolpevoli colpe di queste vittime che sono i figli di questo uomo, che si vedono portati via un padre, ad esempio. È un terreno spinoso, lo so benissimo che sto camminando sulle uova, però me lo chiedo. Mi chiedo cosa significa questo urlare continuamente “ci vuole la certezza della pena”, mentre della giustezza della pena non siamo interessati. La certezza della pena sembra che voglia dire: basta che qualcuno vada in galera. Io mi chiedo “basta” che qualcuno vada in galera? Questo è giusto? Ha risolto tutti i nostri problemi? Siamo a posto? Dato che i mostri stanno qui dentro e noi ne stiamo al di fuori, siamo tutti completamente innocenti? Io non so dare una risposta. Spero che il dubbio resti nelle vostre menti. Grazie.

 

 

Il perdono è una parola che interrompe un silenzio

È una liberazione della memoria che permette il ricordo di un passato, fino a quel momento troppo doloroso per essere detto

 

di Adolfo Ceretti, Professore ordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca,

Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano

 

Il tema del perdono richiede molta concentrazione, anche per chi parla, nel senso che riflettere ad alta voce su questo argomento suscita quasi sempre negli interlocutori alcune reazioni non facilmente prevedibili.

Riprendo qui alcune riflessioni che ho svolto più compiutamente altrove, ma che anche oggi desidero condividere con voi. È importante, credo, una condivisione diretta di alcuni ragionamento, come qui, oggi, possiamo fare.

Antropologicamente il perdono si inscrive nel circuito del dono. Chi perdona si presenta come qualcuno che liberamente, senza obbligo, fa dono di qualcosa a qualcun altro. Ciò che conta è che il perdono, inteso come dono, cioè come atto che implica una restituzione, ha la capacità di rovesciare una ostilità originaria in una relazione di scambio e di reciprocità. Il che avviene proprio perché tra le due parti in conflitto si innesta, rispetto all’originario rapporto di ostilità, un dono.

Morale e politica possono solo aspettare che il perdono si realizzi.

Il perdono è, infatti, una virtù dei singoli che non può essere delegata al diritto. La legge, scrive Resta, non può consentirsi questo particolare “supplemento d’anima”. Ma se il perdono è una virtù dei singoli che non può essere delegata al diritto, quale perdono i singoli e la collettività possono donare?

Quando si parla di questo tema occorre fare una distinzione – e qui le cose iniziano a farsi un po’ più complesse – fra il perdono morale che è, come vedremo, il perdono a colui o a colei che ha riconosciuto il proprio torto, e altre forme del suo esercizio – per noi molto più interessanti e attuali nell’economia del nostro discorso.

Esiste, dunque, una forma di perdono destinata a svolgere una funzione morale universale, che è quella di ristabilire la reciprocità, di interrompere il circuito del male. Si tratta di un elementare principio che rafforza il principio di retribuzione, e che ci dice che si può perdonare solo quello che si può punire. È una visione del perdono che presuppone un tempo e uno spazio al cui interno il bene e il male sono intesi come cause sempre ascrivibili all’interno di un rapporto di scambio: io ti faccio del male e, rispetto a questo male, tu puoi perdonarmi. “Perdono”, quindi, è una parola che interrompe un silenzio, è una liberazione della memoria che permette il ricordo di un passato, fino a quel momento troppo doloroso per essere detto.

Date queste premesse, non può essere perdonato che colui, coloro, che hanno riconosciuto il loro torto; colui, colei, coloro, che perdonano dovranno essere coloro che hanno subito il torto. Di più, non si può perdonare fino a quando non è stato fatto di tutto per tentare di riparare.

Sono queste, generalizzando un discorso che meriterebbe un respiro più ampio, le “regole generali” del perdono.

Prendiamo, quale esempio, un caso davvero semplice. Supponiamo che venga commessa una rapina. Sulla scorta di quanto abbiamo detto, potrà essere concesso il perdono al rapinatore? In base alle premesse qui assunte… direi proprio di sì. Se ci si domanda perché, la risposta sta soprattutto nel fatto che rapinatore e rapinato, perdonato e perdonante parlano due dialetti di una stessa lingua. Reo e vittima sono tenuti insieme da un linguaggio simbolico, che non è altro che il linguaggio della legge. Una legge simbolica valida per tutti, una norma del Codice penale della quale entrambi riconoscono la validità.

Il circuito che stiamo descrivendo è appunto quello della reciprocità morale, ed è il circuito in cui un dono può essere fatto perché entrambi i protagonisti della vicenda possono accedere allo stesso linguaggio e parlarlo…. Il reo può essere riconosciuto e riconoscersi colpevole e domandare perdono, la vittima, dal canto suo, può donarlo.

Si comprenderà come questo discorso non entri nella specificità dell’atto del perdono del quale, qui, non mi occupo.

Il fatto è che il perdono del quale abbiamo parlato sinora non copre l’intera gamma di comportamenti rispetto ai quali esso può essere dato o chiesto.

La complessità, come dicevo, si fa più consistente quando discutiamo di fatti – rectius, di conflitti – gravi come quelli dei quali abbiamo parlato stamattina, legati al terrorismo. Si tratta di conflitti all’interno dei quali le parti non parlano due diversi dialetti di una medesima lingua, ma due lingue diverse, poiché non ci si intende sul torto e si hanno di fronte fatti irreparabili, antichi, dove i protagonisti sono vittime di generazioni disperse e i fatti colpevoli sono troppo intersecati con altri fatti colpevoli.

Sono eventi così gravi che diviene impossibile appellarsi a una causalità lineare per risalire ai responsabili. Sono quei crimini che Anna Arendt definisce crimini che non si possono né punire né perdonare. L’esempio paradigmatico al quale faccio sempre riferimento per parlare di questi temi è quello del Sud Africa dell’Apartheid. Come è noto, nel Sud Africa di quel periodo storico veniva normalmente praticata la tortura da parte delle Forze dell’ordine, e la lotta armata da parte di alcuni partiti politici antagonisti al regime. Dopo la vittoria politica di Nelson Mandela, la divisione tra le diverse etnie che hanno dato vita alla Nazione Arcobaleno (sono infatti 11 le lingue ufficiali parlate nel Paese) ha continuato a marcare la vita quotidiana. La violenza politica che per anni ha contrassegnato, direttamente o indirettamente, l’esistenza di tutti, ha lasciato, quali resti, profondissime ferite e pesanti ricadute sulle identità individuali e collettive.

Ci domandiamo se in questi casi il “perdono morale” possa esercitare il suo mandato.

Sono quelle circostanze – e ci sembra che quelle affrontate dalla Commissione per la Verità e Riconciliazione Sudafricana prima della sua istituzione abbiano molto a che fare con ciò che stiamo dicendo – nelle quali i protagonisti sono incapaci/impossibilitati a (s)cambiare il proprio punto di vista. Non solo, è proprio attraverso l’assunzione della “propria” ristretta visuale che ciascuna parte si autolegittima in-definitamente, avanzando una richiesta illimitata di diritti (e di doveri). La coerenza di ciascuna parte fa dunque appello a un principio esteriore e infinito. Non si dà, tra le parti, una temporalità comune, perché non esistono questioni/tematiche condivise o condivisibili: manca, infatti, la possibilità di uno scambio a partire da un principio comune. Detto altrimenti, la risoluzione di un conflitto, la remissione di un debito, lo scambio delle memorie è inattuabile perché l’identità storica di ciascuna parte in gioco è iscritta in un passato immemorabile che non può essere ricordato e riportato al presente. Ognuno parla la sua lingua, narra la propria storia, etc.

Occorre allora arrendersi all’idea che nelle situazioni di dissidio indissolubile – quello che uno studioso francese, Abel, definisce il tragico del conflitto – si debba scartare la possibilità di ricorrere al perdono? Al contrario, Abel afferma che a questo livello esso si rivela come una delle forme più importanti di quella che Ricoeur definisce “saggezza pratica”. Leggendo Hegel non come il filosofo della sintesi ma come il filosofo che ha condotto più lontano la “saggezza pratica”, Ricoeur ricorda come il perdono hegeliano riposi proprio sulla rinunzia da parte di ognuno alla sua parzialità, sull’accettazione da parte di ognuno ad abbandonare ciò che è identico a se stesso, sul consenso sia del perdonante che del perdonato a divenire altro da se stessi.

La “saggezza pratica”, afferma Ricoeur e con lui Abel, non consiste nell’ abbandono del tragico, ma in un abbandono nel tragico, ovvero in una saggezza capace di affrontare gli effetti distruttivi del dissidio e di permettere ai protagonisti della vicenda di assumere di non essere essi stessi d’accordo su ciò che li divide. È questo il livello rispetto al quale il “perdono morale” si infrange ed è difficile collocarsi: si preferisce infatti continuare a uccidersi – un gesto che paradossalmente illude ancora di poter comunicare in modo vicendevole – piuttosto che arrendersi all’idea di essere i soggetti di un dissidio.

Come uscire, dunque, da questa eterogeneità di linguaggi, di valori, di memorie incommensurabili ?

La strada indicata da Abel – e che noi riteniamo percorribile – è quella di impegnarsi a concepire il perdono quale virtù del compromesso, “compromesso” che egli non intende ovviamente come la mera giustapposizione di due punti di vista. Il dissidio (differend), del resto, come insegna Lyotard, non si riduce mai. Ma allora, come perdonare di fronte all’ irriducibile ?

Per rispondere il ragionamento si fa, se possibile, ancora più denso.

Il perdono è qui la virtù del compromesso nel senso che non pretende di ristabilire, come quello “morale”, la reciprocità, non pretende di essere il punto di scaturigine di un riconoscimento reciproco dei contendenti. Essendo i termini del dissidio incommensurabili essi non sono né simmetrici né asimmetrici. Tra loro non c’è contraddizione, non c’è un aspetto principale o uno secondario, non c’è vecchio o nuovo. Non c’è, soprattutto, un vincitore o uno sconfitto. Detto altrimenti: ciò che è incommensurabile in un momento non può cessare di esserlo nell’istante successivo, istante nel quale l’altro del dissidio verrebbe riconosciuto (per esempio in quanto “minoranza”) e storicizzato.

Il perdono, laddove c’è dissidio, non può che intervenire a latere dei contendenti. Ognuno rimane iscritto nel suo passato (immemorabile per l’altro), nella sua lingua, nella sua storia.

Si accetta di perdonare sapendo che tale irriducibilità non verrà meno.

La virtù del compromesso consiste allora nel riuscire ad abbandonare l’eterno ritorno delle due versioni separate attraverso l’esercizio di una saggezza pratica che rende consapevoli i contendenti:

che il dissidio non può essere assorbito e che tutto ciò che si può fare è di trovare un accordo che tenga conto del disaccordo;

che un’ultima parola, così come un linguaggio comune per formulare il torto commesso o subito, non esistono;

che il tentativo di formare un racconto, una narrazione sufficientemente ampia e policentrica per contenere la pluralità delle memorie e portarle al punto dove esse possono trovare un compromesso virtuoso, è plausibile;

che l’intersezione (overlapping ) tra i differenti universi non può che essere tenuta insieme da parole fragili, poiché esse coniugano discorsi eterogenei;

che è impossibile cercare di sapere a priori quali ruoli ciascuno terrà sulla scena: a ben vedere non abbiamo di fronte né un perdonante né un perdonato.

 

Ne consegue:

  1. ache il perdono è ciò che anima una sorta di immaginazione pratica, una volta accettata per sempre l’impossibilità di pervenire a un giudizio ultimo capace di dire “allo stesso tempo” ciò che è giusto universalmente per tutti, e ciò che è giusto per ciascuno;

  2. che il perdono, nel dilatare il linguaggio di ciascuno per aprire uno spazio di coabitazione, di co-presenza, non elimina il passato ma obbliga le parti a disinnescare le singole memorie congelate e ad avviare una narrazione a più voci attraverso la quale “io” accetto che gli altri, come me, possano dire, “io”;

  3. che il perdono obbliga ciascuno a spostarsi, a ricollocarsi nella trama della storia.

 

Per concludere: rei e vittime possono trovare uno spazio pubblico, un luogo dentro il quale fare questa traiettoria. Mi sembra che oggi in Italia le premesse siano piuttosto complicate, per fare questo lavoro, però, per quanto mi riguarda, nell’esperienza che ho fatto anche in Sud Africa, questa è l’unica strada per non ritrovarci, tra 20-30 anni, a dire, ancora una volta, che gli effetti continuano e che si sentono ogni giorno.

 

 

La mediazione come nuova prospettiva anche per l’esecuzione della pena

Quando lo chiede la vittima è un incontro diretto con il reo, quando la vittima non si attiva spontaneamente solitamente sono incontri con vittime aspecifiche

 

di Maria Pia Giuffrida, Dirigente Generale dell’Amministrazione penitenziaria,

Responsabile dell’Osservatorio nazionale sulla giustizia riparativa e la mediazione penale

 

Credo che gli argomenti posti sul tavolo dal convegno “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi” sono talmente importanti ma talmente numerosi, che ciascuno di essi poteva essere contenuto di un solo convegno. Per esempio la restituzione ricchissima che ha fatto il professor Mosconi meritava una sessione a parte, o addirittura un’intera giornata, perché talmente intensa di significati.

Le giornate sono quelle che sono, le ore passano, trascorrono, e quindi comprendete la mia difficoltà di fare un intervento di chiusura, di fare in qualche modo una sintesi. Quindi io non farò una sintesi, non la posso fare, posso riprendere alcune delle cose che mi hanno colpito durante il giorno. Io sono stata una presenza abbastanza fedele a questi convegni di Padova perché ritengo che diano il senso dell’importanza dell’incontro, tra il reo e la vittima, tra l’interno e l’esterno, tra la scuola e la scuola del carcere, tra tutti i soggetti che di solito si vivono reciprocamente attraverso immagini stereotipare che certe volte hanno il sapore della insignificanza.

L’insignificanza è una delle problematiche più gravi del carcere: in carcere si vive la mancanza, l’assenza, la perdita dei significati, si vive di ignoranza, si vive di banalizzazioni, si vive di indifferenza rispetto ai singoli.

Parliamo sempre tutti di trattamento rieducativo, parliamo di scuola, di lavoro, ma in fondo c’è una diffusa, anche se spesso involontaria, disattenzione ai singoli, e quindi, prevalentemente, c’è un’indifferenza rispetto a quella paura che, qualcuno diceva stamattina, i detenuti portano con sé; perché il carcere, come stamattina è stato definito, è quel non luogo, il carcere è il tempo della pena, ma, nello stesso tempo, è il tempo sospeso della vita, è un momento in cui ciascun detenuto vive e rielabora il suo vissuto deviante, ma certe volte con un’affabulazione del proprio vissuto criminale, necessaria per ricrearsi uno status anche all’interno dell’istituto.

E dall’altra parte abbiamo le vittime, queste vittime di cui non si parla, di cui non si parlava, di cui si comincia a parlare, di cui in alcuni contesti invece si parla troppo, ormai. Abbiamo visto, abbiamo sentito ricordare quanto le vittime vengano “ossessionate” dai media, e forse non solo dai media. In nome anche della volontà di pervenire a risultati apprezzabili in ordine a quello che viene variamente indicato come richiesta di perdono, ravvedimento, riparazione, da parte di un reo, tanti si inseriscono impropriamente contattando le vittime, certe volte in maniera assai estemporanea, assai disattenta rispetto ai bisogni e ai diritti delle vittime stesse. Ma perché vi dico questo? Perché ho un ruolo particolare nell’amministrazione penitenziaria, da 15 anni presiedo la Commissione prima, un Osservatorio ora, sulla giustizia riparativa e la mediazione penale, organismi nati da un’istanza forte di voler trovare, insieme a tanti compagni di strada, operatori penitenziari e non, un modo nuovo di guardare a questo trattamento, questa parola assolutamente astratta, a cui ognuno di noi ha dato, nella sua vita di esperienza penitenziaria, o di volontariato, significati diversi.

E’ indubbia ancor oggi la necessità di rivitalizzare il concetto di “trattamento” che viene declinato il più delle volte non come trattamento individualizzato ma come mero intrattenimento – seppur apprezzabile – dei soggetti in esecuzione di pena. D’altro canto – a mio parere – urge fare una riflessione seria “sull’altro”, sul limite di un trattamento che non va “verso l’altro”, l’altro che è la vittima, di cui, dal ‘79 che è l’anno in cui siamo entrati come operatori della riforma in carcere a pochi anni fa, non si è mai parlato. È vero, in carcere, per tanti anni, della vittima non si è parlato.

Ci siamo interrogati, mi sono interrogata, sull’importanza di aprire uno spazio, sull’importanza di chiamare i detenuti a pensare “all’altro”. Io racconto sempre un aneddoto, molti di voi l’avranno sentito, molti di quelli che mi hanno incontrato in vari contesti, e lo dico anche per spezzare la monotonia del parlare alla fine di una lunga giornata. Quando sono entrata in carcere come assistente sociale nel 1979 ho parlato a lungo con un detenuto che mi rappresentava il suo profondo dolore di essere vedovo e di non poter vedere i figli, e io, giovane assistente sociale, mi chiesi cosa potevo fare per intervenire, finché non gli chiesi della moglie, e lui mi disse di essere, appunto, vedovo e di avere una profonda elaborazione di sofferenza rispetto a questa vedovanza. Seppi poco dopo che aveva ucciso la moglie in modo molto cruento e molto violento, e che aveva anche perso il diritto di vedere i figli, essendogli stata tolta la patria potestà. In quel momento, nel lontano 1979, mi resi conto che noi non possiamo parlare con i detenuti se non ripartiamo dal motivo per cui i detenuti stanno in carcere, dal reato, e della posizione che il detenuto intende assumere rispetto all’altro, alla vittima, alla persona a cui ha fatto un danno, alla persona che ha ucciso, ai figli, ai familiari della persona che ha ucciso.

Lavorare in carcere come assistente sociale, come educatore, come poliziotto, o ancora come insegnante, come volontario, senza partire dal fatto che esiste un reato, significa assecondare i detenuti a mistificare sulla loro posizione, impedir loro di esercitare il loro diritto al trattamento che sancisce la Costituzione, e che rilancia la giurisprudenza. Diritto al trattamento dicevamo, cui corrisponde un dovere dell’Amministrazione a garantire il trattamento individualizzato, dovere che per me – ai sensi del nuovo Regolamento di esecuzione - è di rispondere non solo al bisogno del detenuto di essere accompagnato verso un reinserimento sociale, ma anche di sollecitarlo ad assumersi la responsabilità verso qualcun altro, e questo qualcun altro è il mondo esterno, la società, la vittima.

L’attenzione che negli anni 80/90 si è sviluppata intorno alla giustizia riparativa e la mediazione penale, a seguito di ordinanze della magistratura di Sorveglianza, ha fatto sì che l’Amministrazione centrale attraverso l’istituzione dell’Osservatorio (prima commissione di studio), si ponesse l’obiettivo di cercare di comprendere in che modo potesse essere esercitata questa nuova prospettiva di giustizia riparativa, di responsabilizzazione, di aiuto al soggetto detenuto, verso l’assunzione della responsabilità nei confronti del proprio reato della propria vittima e della società.

E abbiamo, nel tempo, definito una possibilità di procedura che, nell’ultimo anno, negli ultimi due anni, ci ha permesso di fare un’esperienza che per me è assolutamente eccezionale: quella di seguire diversi detenuti in percorsi di riparazione diretta o indiretta. In questo momento stiamo seguendo 20 casi, sono 13 uomini e 7 donne, che hanno aderito o hanno richiesto di fare percorsi di riparazione. Alcune volte la richiesta all’Osservatorio arriva dai giudici o dai tribunali di Sorveglianza che cercano di implementare all’interno di un percorso della pena, all’interno dei percorsi trattamentali, e all’interno delle ordinanze che loro devono emanare, il paradigma riparativo con particolare riferimento alla prospettiva di incontro reo-vittima. Infatti abbiamo avuto due detenute in semilibertà, condannate all’ergastolo per reati di eversione e terrorismo, una detenuta domiciliare, sempre condannata per terrorismo, una per tentato omicidio, un detenuto semilibero condannato per omicidio e occultamento di cadavere, segnalati dal tribunale di Sorveglianza. Abbiamo avuto diversi casi segnalati dagli istituti o dai referenti regionali, che nascono dalla spinta, anch’essa talvolta strumentale, del detenuto ad aderire a un percorso che sa che può essere di supporto all’ottenimento dei benefici. Ciò avviene ovviamente all’inizio, ma la inevitabile strumentalizzazione poi si trasforma lungo questo percorso lento, graduale, attraverso quelli che io indico come step di garanzia, in una adesione sostanziale alla prospettiva riparativa.

Parlare col detenuto della vittima in termini generici si può, e quando si parla, quando l’operatore indica concretamente le modalità per realizzare un possibile incontro con la vittima, la realtà soggettiva del detenuto cambia, il linguaggio cambia, la dimensione emozionale cambia.

Abbiamo tanti detenuti, tutti casi di grosso calibro giuridico, (sequestri di persona, omicidio, terrorismo, associazione a delinquere) che stanno percorrendo un cammino di responsabilizzazione verso le vittime.

Ho anche delle richieste da parte delle vittime, e questa è una grossa conquista, un grosso conforto più che una conquista, perché ognuno ha dei percorsi assolutamente personali, e la dimensione della irreparabilità del danno che le vittime hanno subito, è qualcosa davanti a cui, con rispetto, bisogna fermarsi. Eppure talune vittime hanno sentito il bisogno di chiedere di incontrare il loro reo, hanno bisogno di vederlo in viso, hanno bisogno di chiedere: perché? Hanno bisogno di capire.

Questi percorsi sono stati, lentamente, portati avanti, però facendo fare ai detenuti sempre prima un percorso di riflessione, di responsabilizzazione, molto serio. Se non c’è un percorso di responsabilizzazione personalmente io non do l’assenso per l’incontro con i mediatori, né tantomeno per sondare la praticabilità di un incontro di mediazione diretta o indiretta.

È chiaro che quando la richiesta arriva dalla vittima si cerca di rea­lizzare una mediazione diretta, quando viceversa la vittima non si attiva spontaneamente solitamente iniziamo con incontri con vittime aspecifiche.

Vi parlavo dei casi di terrorismo: dopo anni dalla presa in carico - anni preparatori perché il percorso, il tempo di riflessione, di responsabilizzazione non è quello delle udienze o del fine pena, ma è il tempo della responsabilizzazione reale, il tempo della maturazione di un sentire sincero e non strumentale - abbiamo fatto fare degli incontri con vittime aspecifiche, con soggetti appartenenti alle associazioni di vittime delle stragi terroristiche, che si sono resi disponibili per incontrare le persone da noi proposte.

Ebbene, attraverso questi incontri talune delle vittime hanno sentito il bisogno di incontrare, poi, il “loro” reo.

Diciamo che è un cammino, direi, camminiamo sui vetri, camminiamo in un equilibrio e con una responsabilità assolutamente grandissima, perché, veramente, non si deve turbare, vittimizzare ancora una volta, chi ha subito un danno irreparabile. Però, credo che i risultati di questi primi casi su cui stiamo lavorando servano per dare un segno di possibilità, di nuova prospettiva anche per l’esecuzione della pena.

Cominciamo anche noi operatori a pensare in maniera diversa, cominciamo a pensare in maniera prospettica anche noi, cominciamo a pensare non solo a un reinserimento, così come dice la Costituzione e la legge, che poi spesso si riduce a un reinserimento nell’ambiente di provenienza, senza che sia intervenuto un cambiamento soggettivo o oggettivo di significato.

E, secondo me, l’elemento della responsabilizzazione diventa l’elemento di novità: la riscoperta dell’altro diventa l’elemento di novità.

Questo è quello che vi posso dire in questo poco tempo, aggiungendo che questa esperienza prudente di percorsi riparativi è resa possibile soltanto in virtù della collaborazione col mondo dei mediatori, i mediatori penali, questi mediatori che mi hanno dato una disponibilità gratuita a fare questa sperimentazione. Sono soggetti solitamente provenienti dall’esperienza minorile, e che vado contattando di volta in volta a seconda del territorio dove mi viene proposto il caso.

È chiaramente una sperimentazione delicata, e ce ne rendiamo conto, però credo che bisogna avere il coraggio di osare, lavorando, nel contempo, sul piano delle norme e dei regolamenti.

Io credo che tutto quello che ci siamo detti oggi, tutto quello che ciascuno di noi fa, sotto diversi punti di vista, fa crescere, comunque, in tutti noi la certezza di parlare con onestà, di parlare con verità, con impegno professionale, supportati dall’impegno personale di tutti quelli che sono stati qui con noi.