Capitolo quarto:

 

Raccontami una storia

 

Le testimonianze, “le storie” sono un elemento prezioso dell’informazione, ma sono anche un grande rischio. Perché le storie che si possono trovare nella cronaca nera o in galera sono “materia incandescente” per tante ragioni: perché i protagonisti hanno avuto delle vittime, e rispettarle impone di raccontarsi con cautela; perché hanno delle famiglie, che spesso sono altrettanto vittime, che hanno subito la vergogna e l’isolamento di chi ha un padre, una madre, un fratello in carcere. Chi poi ha una storia di galera da raccontare non può non essere tentato di cercare giustificazioni al peggio della sua vita; perché la vita in carcere è sempre, ma lo è in particolare oggi, ai tempi del sovraffollamento, così degradante, che finisce per essere inevitabile sentirsi vittime e innescare un perverso cortocircuito, del “carnefice” che si lamenta di quanto male sta e di quanto lo maltrattano.

L’unico modo per dare un senso alla pena è affrontare il tema della responsabilità, facendo percepire a quelli che stanno fuori e tendono ad assumersi il ruolo del giudice, che una galera più umana è la sola che permette di diventare persone consapevoli del male fatto, e di non nascondersi dietro la solita formula “io ho pagato il mio debito con la giustizia”, fregandosene dei debiti di umanità ferita disseminati insieme ai reati.

 

Chi sta in galera viene consegnato ad un tempo sospeso

 

di Davide Ferrario, regista e scrittore,

autore del film Tutta colpa di Giuda e del romanzo Sangue mio

 

Io la galera ho cominciato a frequentarla nel ‘99 in maniera casuale. Io faccio il regista di mestiere e mi avevano chiesto di presenziare a un corso di formazione professionale a San Vittore. Non avevo nessuna idea di che cosa è la galera, però mi sembrava anche codardo non accettare questa proposta che mi era stata fatta, si trattava solo di un paio di lezioni. E lì sono entrato in questo mondo e ci sono rimasto, nel senso che ho chiesto, dopo queste due lezioni, un articolo 17 che è la forma giuridica per chi deve fare un’attività di volontariato. E da allora, prima a San Vittore per cinque-sei anni, poi alle Vallette di Torino ho continuato a fare delle cose che sono sfociate, dopo una decina di anni, in un film che si chiama “Tutta colpa di Giuda”, uscito nel 2009, girato nel carcere di Torino con dei detenuti veri e del personale di custodia vero, in un carcere vero. E poi questo libro “Sangue mio” che non è un libro sul carcere. Racconta la storia di uno che esce, e incontra una figlia che non ha mai visto, anche se sapeva che c’era.

Ci sarebbero un sacco di cose da dire, ne racconto una sola che si attacca un po’ al discorso che è stato fatto fino ad adesso, anche perché vorrei contribuire andando in qualche modo avanti, e non raccontando solo una storia personale. Io mi ricordo che le prime due o tre volte che sono andato in carcere c’erano queste persone che mi erano, posso dirlo, simpatiche, c’era un rapporto umano che si era creato con questo gruppo di detenuti del penale. Ci stavo bene, si parlava e si ragionava insieme. Dopo qualche settimana arrivò un personaggio che è stato nominato anche prima, Vittorio Sgarbi, cosa ci facesse a San Vittore non lo avevo capito, ma essendo parlamentare lui poteva entrare e fece un giro per le sezioni, da noi iniziò a chiedere a ciascuno: tu perché sei qui, cos’hai fatto.... Che era una domanda che a me non era venuta in mente nelle settimane precedenti, in verità dopo lo chiese anche a me, scambiandomi per un detenuto. Ho detto “Sono dentro perché sono regista”, che era vero, ma, insomma, sì, può essere anche una aggravante, effettivamente. Dico questo perché io credo che ci sia una forte differenza tra l’essere criminale, l’essere deviante, e quanto poi succede dal momento in cui entri in galera, perché da quel momento in poi tu diventi prigioniero. Il che non significa perdonare quello che hai fatto fuori o dimenticarti di quello che hai fatto fuori, ma entrare in una condizione che non ha più niente a che fare con la libertà di cui hai usufruito, di solito male, fuori. Ed è li che per noi che veniamo da fuori inizia il ragionamento, non sul perché uno è finito dentro, ma cosa succede a uno che sta in quella condizione li, cioè in questo limbo.

Io questo ho cercato di raccontare, sia nel film che nel libro, questa percezione della galera non già come forma di pena, di maledizione, ma quest’idea che uno viene consegnato ad un tempo sospeso. Tra l’altro, mi era arrivata, proprio da Ristretti una recensione di un lettore del mio libro, qui detenuto, che diceva, “Non avevo voglia di leggere il libro di Davide Ferrario, perché i libri sulle galere sono sempre la stessa storia, e invece ci ho trovato della roba che considero veritiera”.

Quello che ho cercato di fare in questi dieci anni frequentando il carcere è stato di ascoltare. E ascoltare significa prendere atto anche delle contraddizioni, per esempio. Io devo dire che al discorso di Alfredo Bazoli, che ho ascoltato attentamente, mi sono chiesto perché, e dico adesso una cosa su cui sto riflettendo da dieci minuti, pur essendo un discorso di una persona a cui umanamente mi sento vicino, non sono riuscito ad applaudire sull’idea che i colpevoli debbano chiedere scusa. Quest’idea che, soprattutto quella generazione li di cui faccio parte anch’io, debba in qualche modo pentirsi di quello che ha fatto. Nella mia esperienza di carcere (è un discorso spinoso quello che faccio) non penso che il pentimento sia una chiave del problema..

Stare qui dentro innanzitutto non induce al pentimento così come viene richiesto dall’opinione pubblica, tant’è vero, se ci pensate, che i pentiti, l’idea del pentito storicamente in questi 20-30 anni è associata non all’idea di uno che ha preso atto dei suoi guai, ma all’idea del traditore. I pentiti di mafia e i pentiti di terrorismo sono tutta gente che ha fatto l’infame, diciamocelo con tutta onestà. Credo che ci sia una minima parte di persone che hanno parlato perché credevano di riconoscere un proprio errore.. Io ho parlato una volta con Cesare Battisti, e sapete tutti chi è, quello che sta in Brasile, tralascio il perché. Ci siamo confrontati il nostro background e la storia sua era la storia mia. Solo che ad un certo punto lui ha preso la pistola, io ho fatto il cineforum. Ma partivamo dallo stesso problema nei confronti della società. È evidente che c’è una responsabilità personale, perché uno ha preso la pistola e l’altro si è messo a proiettare i film, e quella è indiscutibile, però siamo tutti figli di quella storia li. Se sono stato Abele e lui è stato Caino veniamo fuori tutti dalla stessa madre e dallo stesso padre. E questo è anche il rapporto che c’è tra i detenuti, quelli che stanno seduti là, sopra la gradinata, e noi che stiamo seduti da questa parte, in questo momento. Cioè credo che ci sia, ahimè, qualcosa di irredimibile una volta che è stata commessa la colpa, e che non possiamo chiedere a loro che lo ammettano, deve essere chiaro a noi certamente, ma loro si difenderanno sempre dall’accusa di avere sbagliato. Anche se dentro di sé sanno benissimo che il peso di quello che hanno fatto c’è, e se lo portano dentro. E’ un crinale molto sottile che rischia di diventare terribilmente ipocrita quando noi, che non abbiamo fatto gli errori che hanno portato loro dentro, gli chiediamo di essere come noi. Credo che dobbiamo essere consapevoli che c’è una forte differenza, ed è li che possiamo cominciare a parlare, a comunicare, altrimenti continueremo ad avere dei preconcetti nostri che non ci consentiranno di capire perché il male si è generato.

 

 

Un libro che mi ha fatto riflettere sul mio ruolo di “padre detenuto”

 

di Sandro Calderoni, Ristretti Orizzonti

 

Il romanzo di Davide Ferrario parla di una figlia e di un padre detenuto, quindi io emotivamente sono un po’ coinvolto in quel libro. La mia riflessione è proprio sul fatto che il carcere toglie tanto a noi, ma ancora di più alle nostre famiglie. La prima difficoltà è quando si fanno i colloqui, e difficilmente si riesce a essere noi stessi, in sostanza i problemi noi non li diciamo ai nostri famigliari, come sicuramente loro a noi diranno ben poco delle sofferenze e delle umiliazioni che devono subire, perché loro non vogliono dare ulteriori disagi a noi che siamo in carcere, e noi ugualmente non vogliamo caricarli di altri pesi. Di questo mi sono accorto quando, fortunatamente, a Pasqua sono andato in permesso in famiglia, dopo tanti anni di lontananza, e quindi sono rientrato in un contesto che è proprio la famiglia, la casa, la vita quotidiana. Ed è lì che ti accorgi che comunque devi ridefinire i tuoi affetti, devi ritrovarti un posto e un ruolo.

Mia figlia aveva un anno quando sono entrato in carcere, quindi ci siamo conosciuti tramite i colloqui, e si può dire a puntate, perché io la vedevo, dopo tre o quattro mesi la rivedevo ma non era più quella che era prima. Adesso ha trent’anni, è una donna, è una persona autonoma, ma io mi accorgo che comunque ci sono state tante mancanze affettive, tante difficoltà nel poter comunicare, ed è difficile poi ritrovare un ruolo, io ad esempio oggi mi domando: che ruolo ho come padre? Come mi posso definire?

Il libro di Davide Ferrario, da questo punto di vista, mi ha dato molto, mi ha stimolato molto, perché, effettivamente, mi ha fatto capire quanto sia difficile riuscire a mantenere un rapporto “normale” in tanti anni in cui ci si vede solo un’ora ogni tanto e in particolari momenti come può essere un colloquio. È proprio lì il problema, il problema sta proprio nella mancanza di qualsiasi condizione di naturalezza nei rapporti con i propri cari in carcere, nella difficoltà di riuscire a mantenere e a far crescere quegli affetti, che comunque dovrebbero essere preservati sempre, perché poi le persone detenute, quando escono, devono contare su qualcosa per poter ricominciare, per poter avere una vita davvero diversa.

 

 

Il giudizio della gente: isolamento, imbarazzo ma anche solidarietà

 

Il racconto di Marina, madre di una giovane donna detenuta

 

 

Chi sono e perché ho accettato l’invito

 

Sono la mamma di Giulia, una giovane donna detenuta, con una condanna di 20 anni di carcere per omicidio. Da 5 anni sono una delle numerose persone che ogni settimana varcano la soglia di un carcere, una delle tante persone che ha avuto la forza di restare accanto ad una figlia “a qualunque costo”, che ha avuto la costanza e la possibilità economica di affrontare viaggi per raggiungerla in città a volte molto lontane.

Io e la mia famiglia non siamo mai comparsi in pubblico, non abbiamo mai rilasciato interviste o partecipato a programmi televisivi e questa, dunque, risulta essere la nostra prima uscita “pubblica”. Ho accettato questo invito perché condivido l’approccio e la pluralità dei punti di vista con i quali l’argomento viene trattato. E poi, forse, inizio finalmente a raggiungere una sufficiente serenità per poterne parlare pubblicamente.

Nell’immaginario collettivo la famiglia del carcerato è brutta, cattiva, ignorante, incapace di dare un’educazione e di amare, magari con una madre prostituta od un padre alcolizzato, in ogni caso si pensa spesso che il “cattivo” faccia parte di una famiglia ”difficile”. Ma in questi lunghi anni, quando sono in attesa di incontrare mia figlia, mi guardo intorno e vedo sempre più spesso madri e padri “normali”, di figli “normali”, provenienti da famiglie “normali”.

 

L’arresto di una persona cara, i sentimenti di confusione, ansia, paura, rabbia, sconforto...

 

Dal giorno dell’arresto di Giulia molte cose sono cambiate non solo nella sua vita ma anche in quella mia e di mio marito, delle nostre famiglie e delle persone a noi vicine. Abbiamo dovuto imparare a convivere ed a dominare sentimenti forti e dolorosi: ansia, paura, preoccupazione, rabbia, sconforto, senso di impotenza. La mente, in quei momenti, è come avvolta dalla nebbia e vi sono decisioni che si prendono in modo “istintivo”. La prima è stata quella di rimanere accanto a nostra figlia qualunque cosa fosse successa, qualunque cosa avesse commesso, perché il nostro amore per lei non era e non è mutato. La seconda è stata quella di non cambiare, nel limite del possibile, la nostra vita, le nostre abitudini, i nostri ritmi. Di non lasciarsi, insomma, travolgere e stravolgere da questo enorme fiume in piena.

La nostra è stata una famiglia fortunata perché ha retto ed è rimasta tutta accanto a Giulia. In questi anni ho avuto modo di conoscere numerosissime famiglie, anche le più famose, e mi sono resa conto che per tutti l’arresto di una persona cara, in modo particolare un figlio, è un evento estremamente traumatico: ho visto genitori separarsi, ammalarsi, morire. Perché per un genitore è estremamente difficile accettare che la propria creatura abbia commesso un reato, soprattutto se grave, e si rischia di fare enormi errori: rifiutare la rea­ltà, cercare attenuanti, rifiutare il figlio… Si provano confusi e forti sentimenti e, tra gli altri, quello che forse è l’unico che ci accomuna ai parenti della vittima: i sensi di colpa. Ovviamente diversi, ma in ogni caso pesantissimi.

 

I mass media: protagonisti e protagonismi

 

Come in generale capita a tutte le persone coinvolte in un atto illegale, ed ancor più in un caso di cronaca nera, Giulia è subito diventata protagonista di due processi: quello nelle aule del Tribunale e quello mediatico, processo quest’ultimo che a parole tutti condannano ma al quale, di fatto, tutti si interessano.

Noi abbiamo scelto di non esternare pubblicamente i nostri sentimenti e le nostre convinzioni. Abbiamo dunque scelto il silenzio, fin dall’inizio, nonostante crescesse in noi il sospetto di trovarci di fronte ad atteggiamenti di pregiudizio e di accanimento nei confronti di nostra figlia. Taciuto anche quando venivano dette o pubblicate illazioni e falsità tali da superare il limite della decenza. Il nostro fine è sempre stato quello di aspettare la verità e di non intralciare il lavoro di chi indagava con inutili polveroni e battibecchi mediatici.

Abbiamo conservato tutto però: parole ed immagini di tutte le persone che hanno rilasciato dichiarazioni e, leggendole ora, con più serenità, ci siamo resi conto di come molte hanno utilizzato i mezzi di comunicazione per soddisfare la propria sete di protagonismo e non per raccontare la verità.

E il non saper riconoscere la differenza, o l’aver voluto far finta di nulla, è una colpa che ai mass media non perdoniamo.

 

La grande difficoltà è mantenere l’obiettività di giudizio e credere nella Giustizia

 

L’opinione pubblica, il giudizio della gente sono senz’altro ciò che spingono spesso le famiglie degli accusati ad isolarsi, a nascondersi, perché si incomincia subito a notare l’imbarazzo della gente, lo schierarsi tra “innocentisti” e “colpevolisti”. Anche in questo caso io e mio marito siamo stati fortunati perché la vicinanza e la solidarietà delle nostre famiglie e quella che moltissime persone ci hanno dimostrato, al di là della loro convinzione sulla innocenza o colpevolezza di Giulia, ci hanno infatti permesso di andare avanti, continuando il più possibile la vita di sempre e progettando il futuro. Questa dolorosa esperienza, come ho detto prima, ci ha comunque cambiati. Ora è come se avessimo tra le mani un grande setaccio attraverso il quale, ogni giorno, filtriamo persone ed eventi: tutto ciò che è piccolo, insignificante, superfluo scivola via e restano solo le persone e le cose grandi ed importati.

Ognuno di noi è abituato a commentare gli eventi di cronaca nera, ad esprimere giudizi, ad immaginare soluzioni, ma quando si entra in contatto con la Giustizia in modo cosi emotivamente coinvolgente le prospettive cambiano ed è estremamente difficile mantenere equilibrio ed obbiettività. Spesso, infatti, il nostro istinto ci fa pensare che la Giustizia sbaglia o sia esagerata quando condanna un nostro caro e sia giusta quando lo assolve od è “morbida”.

Personalmente sono convinta di una cosa: la Giustizia umana non sarà mai in grado di arrivare alla totale verità perché questa è conosciuta soltanto dai protagonisti. Dunque non chiedo a chi indaga ed ai giudici di essere assolutamente giusti. Pretendo però che sappiano liberare la loro mente dalle facili soluzioni, dalle superficiali impressioni, dai “sentito dire” non verificati, dai propri pregiudizi e dalle proprie aspettative personali, in modo da arrivare alla più realistica, obbiettiva, ragionevole ed umana conclusione. Sono convinta che solo così i parenti delle vittime e dei colpevoli possono continuare a credere nella Giustizia ed accettare la sentenza. E solo così i colpevoli possono arrivare a quella serenità che permetterà loro di affrontare la detenzione come una conseguenza giusta del loro comportamento, durante la quale prendere coscienza degli errori fatti.

 

Il carcere: un grande “contenitore”

 

Sono entrata in molti carceri in questi anni ed ognuno è un po’ un mondo a sé. E’ vero che esistono regole comuni (il numero di ore mensili di colloquio o di “pacchi” che si possono consegnare al detenuto, ad esempio…) ma nella realtà ogni volta si devono imparare regole e percorsi nuovi. Differenti sono anche le strutture, il rapporto con il personale, il modo di affrontare i problemi più importanti: la salute, le attività educative, la scuola, il lavoro… Potrei raccontare tantissimi aneddoti ma preferisco riassumere in una frase la mia impressione: fatte salve rare eccezioni, il carcere è un enorme “contenitore” con pochissimi strumenti, umani e materiali, a disposizione ed un enorme contributo, tra mille difficoltà, di coloro che vi operano.

Durante un colloquio, mia figlia mi ha detto che la carcerazione “fa uscire la parte peggiore di una persona…”. Credo che abbia individuato uno dei principali problemi, perché fino a quando i detenuti si sentiranno “cattivi ed arrabbiati” e vivranno in condizioni disagiate (penso al sovraffollamento, alle disastrose condizioni delle strutture, ai problemi economici che frenano le attività…), sarà facile per loro assumere un ruolo di “vittime” sensazione che troppo spesso le famiglie avvallano. Questo vuol dire che il carcere non riesce, se non raramente, a raggiunge il suo principale obiettivo: restituire alla società una persona migliore, consapevole del proprio errore e fiduciosa nel proprio futuro.

 

Mi permetto di concludere con un pensiero inerente il mio caso personale: io sono la madre fortunata perché posso ancora abbracciare mia figlia e pensare ad un futuro per lei.

 

 

Marina ci ha scritto, dopo il convegno

Il difficile non è parlare, ma decidere di farlo

 

Quando mi è stato chiesto di partecipare al convegno “I totalmente buoni e gli assolutamente cattivi”, organizzato nel carcere di Padova lo scorso 20 maggio, ammetto di aver avuto qualche dubbio e direi anche un po’ di paura. Sono la madre di una giovane donna condannata a 20 anni di carcere per omicidio e raccontare la mia esperienza ed il mio sentire non è una cosa facile.

In realtà, già da tempo pensavo di non tenere più dentro di me questo dolore e quando esso si è trasformato in ciò che comunemente viene chiamato un “brutto male” (come se non nominarlo possa in qualche modo allontanarlo...) ho deciso di guardarlo in faccia e dargli voce.

Il primo strumento che ho trovato lungo il mio faticoso cammino è stata la rivista Zona 508, con la redazione della quale mia figlia stava collaborando. Ho così iniziato a scrivere il mio punto di vista ed il mio sentire, quelli cioè di chi ama una persona in carcere, di chi ha il cuore “dietro le sbarre” pur non essendo recluso. Ora collaboro con due riviste (Zona 508 e Ristretti Orizzonti) ma scrivere è una cosa, parlare davanti a centinaia di persone (non pensavo ce ne fossero così tante al convegno di Padova...) è ben altro. Di qui i miei dubbi di non avere nulla di utile da comunicare o, peggio ancora, di rischiare di personalizzare troppo il mio intervento.

Oggi, però, posso dire di essere grata agli organizzatori ed a tutti coloro, relatori e pubblico, che hanno partecipato a tale appuntamento. Grazie a loro, infatti, ho vissuto un’esperienza molto forte e ricca, scoprendo che anche in un carcere l’ascolto ed il rispetto dell’altrui esperienza è una cosa che si può realizzare.

Io continuerò a percorrere questa strada con la speranza di farlo insieme ad un sempre più ampio numero di persone che, purtroppo, vivono la mia triste esperienza. Perché il difficile non è parlare: è decidere di farlo.