Editoriale

 

Prevenire è meglio che imprigionare

 

Ornella Favero

 

Prevenire è meglio che imprigionare: questa frase suona quasi ingenua oggi, con le carceri stracolme e la parola “prevenzione” che è praticamente sparita dal nostro vocabolario, sostituita da “emergenza”, e di conseguenza dalla galera come unica risposta a ogni emergenza. E purtroppo viviamo in un mondo in cui anche i giovani non sono più considerati una ricchezza, ma appunto un’emergenza: emergenza perché bevono troppo, perché usano sostanze, perché sono violenti.

A questa rappresentazione parziale e sgradevole delle giovani generazioni contribuiscono non poco i mezzi di informazione, come quelle trasmissioni televisive che, fingendo di scandalizzarsi per rave party e movida con consumo compulsivo di superalcolici, riversano nelle case immagini ossessive della trasgressione giovanile, e non una parola, mai, su vite di ragazzi vissute diversamente, su un’altra idea dell’essere giovani, che pure da qualche parte esiste.

Così succede che, nel momento in cui sarebbe più utile la prevenzione, in realtà la prevenzione non si fa quasi più perché costa. Costa non tanto economicamente, quanto come dispendio di risorse umane. Che fare prevenzione sia faticoso infatti l’abbiamo capito, lo stiamo capendo giorno dopo giorno: nessun progetto ci succhia energie quanto quello con le scuole. Costa ai volontari, che invece di avere le gratificazioni tipiche del lavoro in carcere, devono imparare a mettere in contatto le persone detenute con il mondo esterno, frequentando quindi non solo le carceri, che hanno sempre una grande forza di attrazione sul volontariato, ma anche le scuole, che da certi punti di vista sono molto meno “attraenti”, anche perché magari tanti di noi le hanno già conosciute in qualità di insegnanti. E in fondo è proprio l’esperienza dell’insegnamento, unita a quella del carcere, che rende così interessante il confronto tra questi due mondi sulla prevenzione. Un confronto straordinario, prima di tutto perché fa irrompere la vita vera, con tutta la sua complessità, nella scuola, spesso ancora così asettica e così lontana dalla realtà: infatti sentir parlare di comportamenti a rischio, di uso di sostanze, di violenza, proprio da chi tutto questo l’ha vissuto in prima persona, i detenuti, è probabilmente un’esperienza sconvolgente, ma segna anche un cambiamento davvero forte e chiaro nella realtà dei programmi scolastici, così come segna un grande passo avanti il fatto che la scuola decida che il carcere è una realtà che non va ignorata, e anzi, che può diventare una tappa importante nel percorso di crescita degli studenti. In tempi in cui le carceri vengono spostate sempre più in periferia, e non si vorrebbe neppure vederle, questa non è una cosa da poco, è una bella manifestazione di lungimiranza da parte della scuola, che così dimostra di capire che nessuno meglio di un detenuto può spiegare a un ragazzo che non sempre “ci pensiamo prima” di commettere delle sciocchezze, e anche cose più gravi, e che la cieca fiducia nel fatto che la nostra razionalità ci viene sempre in soccorso è rischiosa, perché ci fa abbassare la guardia nei momenti del pericolo, che tutti noi prima o poi attraversiamo.

Ma il confronto tra scuola e carcere è straordinario anche per i detenuti: è una specie di allenamento alla sincerità, prima di tutto, perché ai ragazzi è difficile mentire, i ragazzi ti fanno capire che la tua sincerità nel raccontarti dà un senso a tutta la tua testimonianza, e in un certo senso rivaluta anche la tua vita, quella che in carcere qualche volta ti sembra “da buttare”. E poi è il modo giusto per “crescere”: perché spesso la galera “infantilizza”, e invece i ragazzi impongono, con le loro domande dirette, con la loro curiosità raramente morbosa, di assumersi le proprie responsabilità, cioè di diventare finalmente persone adulte.

 

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