Testimonianze di vittime

 

La strage di Piazza della Loggia non ha ad oggi alcun colpevole

La perdita di fiducia nell’altro

È la prima reazione quando si subisce un reato, non credere più negli altri

Ed è importante allora decidere di assumersi il ruolo di un testimone, che ogni

giorno trova nel senso e nell’indispensabilità del “trasferire memoria”

di una esperienza le forme di una ripresa della vita

 

di Manlio Milani

presidente dell’associazione famigliari

delle vittime di Piazza della Loggia

 

Io vi ringrazio molto, ringrazio molto i detenuti che sono intervenuti per questo invito, ho sentito delle cose importanti che possono esserci estremamente utili e opportune, solo che, come dire?, io mi trovo in una situazione un po’ imbarazzante, nel senso che una delle prime reazioni che ho avuto, immediatamente dopo quella strage, o meglio se volete il giorno dopo, è stata quella che si vede in un filmato, dove sono purtroppo ripreso che continuo a picchiarmi un pugno in testa, perché continuavo a dirmi che era assurdo, era tutto assurdo ciò che stavo vivendo. E la cosa che, dopo 34 anni dal fatto, mi succede è ancora questa, che io non conosco nessun colpevole. La strage di Piazza della Loggia che avviene il 28 maggio del 1974, non ha ad oggi alcun colpevole, non esiste, siamo alla vigilia di un ennesimo processo, che inizierà il 25 novembre, ma a tutt’oggi il fatto è completamente cancellato. E questo ha un peso enorme su noi stessi, ce l’ha in senso generale, e ce l’ha perché a volte mi trascino anche dei sensi di colpa.

Avevo vicino a me questa mattina Silvia Giralucci, e le dicevo una battuta di questo genere: noi non ci siamo mai conosciuti, eppure siamo legati da quel fatto, perché suo padre, assieme ad un’altra persona, pochi giorni dopo la strage di Piazza della Loggia, viene ucciso, e io credo, so da quello che ho letto, che la cosa avviene come vendetta nei confronti della strage di Piazza della Loggia. In una certa misura ci siamo trovati vicini, la differenza di fondo è che lei può avere una possibilità di parlare, se lo riterrà opportuno, al termine di una sua ricerca, di un suo percorso, di potersi anche confrontare direttamente con chi ha prodotto quel fatto, e quindi affrontare dentro di sé un percorso preciso, io invece sono costantemente costretto a continuare a cercare di spiegarmi quell’assurdo che prima dicevo.

Dov’ero io quel giorno? La sera prima ero a cena con mia moglie, aveva 32 anni, e con alcuni amici, tra cui i coniugi Trebeschi, carissimi amici che sono morti, lasciando un ragazzo di un anno e mezzo, la sera prima dunque eravamo a cena come capita ad un gruppo di amici che fanno tante cose insieme, e per esempio quella sera dovevamo anche parlare del giorno dopo, perché il giorno dopo a Brescia era una giornata particolare. La strage di Brescia, infatti, avviene nel corso di una manifestazione antifascista, organizzata da tutti i partiti dell’arco costituzionale. C’è inoltre lo sciopero generale che faciliterà questa partecipazione, è un evento estremamente importante che è stato dettato dalla necessità di respingere la violenza che si respirava in quei giorni, quindi andare in piazza significava scegliere di esserci, partecipare, e affermare con la nostra presenza un dato fondamentale: la violenza la si sconfigge con la democrazia, e la democrazia è sempre più forte nella misura in cui è partecipata e sa riconoscere quanto sta avvenendo.

La mattina dopo noi andiamo in piazza, io e mia moglie, contenti di esserci, e responsabili per ciò che tutto questo significava, vediamo i nostri amici, stiamo andando da loro, in quel luogo dove era posta la bomba, nel momento in cui siamo a pochi metri, io vengo fermato per una casualità, una domanda a cui dovevo dare una risposta, lei si avvicina ai nostri amici, io saluto chi mi aveva bloccato, mi avvicino a loro, ci guardiamo in faccia, ci salutiamo, in quel momento lo scoppio, e quindi mi trovo immerso immediatamente nella ricerca di una persona, perché in realtà mi dimentico di tutti gli altri, di quella persona che fino ad un minuto prima era insieme a me, e insieme continuavamo a sognare i nostri progetti.

Cosa avviene in quel momento, qual è la reazione che io ho avuto in questa situazione? Il primo momento è un senso egoistico, quando tu vedi una persona colpita, o tante persone colpite, ciò che speri è che la tua persona, chi era con te non sia colpita, e dimentichi completamente gli altri. Quello a cui in sostanza quest’egoismo ti porta è ad avere l’istinto di dire: devo difendere solo ed esclusivamente quello che riguarda me stesso e interessa me stesso. Il secondo elemento che io ho provato è stata la perdita di fiducia, perché, consapevole ormai di quanto era avvenuto, ho provato proprio una perdita di fiducia nell’altro. La perdi totalmente, perché perdi il senso della vita, il senso comune, perdi soprattutto il senso del valore della relazione con gli altri. Il terzo elemento è un senso di colpa, ti viene il senso di colpa che è duplice, e dici: perché è accaduto proprio a lei e non a qualcun altro? Quindi scarichi, cerchi di scaricare il problema sugli altri, ignorando la realtà che stai vivendo, nello stesso tempo la paura di dover affrontare una nuova dimensione di vita ti porta a pensare, o mi ha portato a pensare: ma perché doveva morire proprio lei, e invece non morire io? È la presa di coscienza in quel momento di quanto sei stato profondamente e radicalmente trasformato nella tua vita, nelle tue modalità di vita, ecco questi sono i punti di partenza di un percorso che ho seguito nel tempo. Intendiamoci bene, io sto parlando anche di un reato particolare, il reato di strage, quindi un reato profondamente politico, che ha immediatamente conseguenze non solo sulle soggettività, ma sulla società nel suo insieme, quindi immediatamente tu hai questo tipo di dimensione.

 

Vorrei capire quali sono i meccanismi che portano qualcuno ad uccidere

 

Lì ho iniziato un percorso dentro questo fatto, e la prima svolta l’ho avuta praticamente poche ore dopo, io ero all’obitorio, a un certo punto nel pomeriggio, la strage avviene alla mattina, nel pomeriggio io non posso più restare in quell’obitorio, davanti a questi corpi con cui fino alla sera prima avevo trascorso tante ore della mia vita recuperando tanti progetti e tanti sogni. Io devo rientrare, e non voglio rientrare a casa, a casa ci rientrerò, starò anni con la luce accesa, perché non potevo dormire da solo, ritornerò invece in piazza, e qui avrò un problema molto importante. Nel momento in cui rientro in piazza e sono riconosciuto, che cosa avviene? Avviene che intorno a me si sviluppa una solidarietà, ma che ha un duplice senso, una solidarietà di te persona particolarmente colpita, ma una solidarietà che esprime nuovamente il senso di esserci trovati insieme, di essere nuovamente pronti a rispondere, in quel caso specifico a quel tipo di violenza, ecco questo sarà per me un elemento di svolta, perché da quella solidarietà comprenderò il mio nuovo ruolo, il ruolo di un testimone, che ha trovato poi nel senso e nell’indispensabilità del “trasferire memoria” di una esperienza le forme di una ripresa della vita. Ecco, questi io credo siano stati gli elementi più importanti, però questo non può bastarmi, e non mi basta assolutamente.

Io credo che oggi il mio percorso sia la ricerca di qualche cosa di più, di qualche cosa per capire quali sono i meccanismi che portano qualcuno ad uccidere e gli altri a subirne le conseguenze, per questo ci siamo riuniti come famigliari delle vittime delle stragi in particolare in associazioni, per questo conduciamo una certa lotta.

Noi recentemente abbiamo presentato al Parlamento la modifica dell’articolo 111 della Costituzione, dove viene inserita la figura della vittima, ma abbiamo anche proposto una modifica al Codice di Procedura penale, che a mio avviso è estremamente importante, e cioè abbiamo posto il tema della uguaglianza, della parità all’interno del processo penale della parte civile con l’accusa. Oggi la parte civile è completamente esclusa, e questo badate bene è un elemento di straordinaria importanza, perché io mi sono convinto nei vari iter processuali, che il primo luogo dove avviene il confronto, o può avvenire il confronto, tra vittima e colpevole è il processo, ma questo reclama appunto parità dei soggetti. Se io ho parità anche con il colpevole, posso, nel corso del processo, partire dal concetto che lui non è colpevole, o posso accettare un presupposto di questo tipo, e questo deve avvenire in termini diversi e rovesciati, cioè anche il colpevole può partire dal presupposto che potrà essere assolto, ma potrà essere condannato, questa parità in sostanza che cosa determina nel dibattito pubblico? Il primo confronto vero, io credo, tra vittima e presunto colpevole o colpevole, io credo che questo sia uno dei principi fondamentali che noi dobbiamo portare avanti. Questo chiude il cerchio, o meglio no, non chiude il cerchio.

 

Guai se impostiamo una società che rifiuta la possibilità di un recupero

 

Io sono convinto oggi che innanzi tutto c’è un percorso da seguire e c’è soprattutto da rompere un clima, che corre il rischio di coinvolgere anche i famigliari delle vittime, o le vittime stesse, nel senso che oggi si sta sempre di più affermando un principio, attraverso la questione della certezza della pena che è intesa come una sorta di slogan, in realtà passa un discorso in cui si dice “prendiamo la chiave e buttiamola via”, e quindi si nega quel principio profondamente costituzionale del recupero dei soggetti, recupero dei soggetti che a mio avviso è assolutamente fondamentale, guai se noi impostiamo una società che rifiuta questa possibilità di recupero.

Credo che i recenti avvenimenti, anche di questi giorni, con le relative proposte che vengono avanti, esprimano invece un concetto in cui davvero la società sta scivolando sempre di più verso una idea di separazione, di esaltazione del nemico, con tutte le conseguenze che da essa emergono. Abbiamo però bisogno che chi è stato condannato per questi reati, sappia assumersi alcune responsabilità fino in fondo. Io sono personalmente d’accordo nel dire che la pena non può essere intesa solo ed esclusivamente come una sorta di monetizzazione, e quindi non vorrei più sentire quella frase “Ho pagato il mio debito”. La pena ovviamente deve essere conforme a quelle che sono le indicazioni della legge, e quindi, a mio avviso, va in questo senso specifico affidata alla responsabilità dello Stato e alle sue leggi, ciò che vorrei eventualmente sempre sentire è l’assunzione di responsabilità da parte di chi ha commesso il reato, il quale può pagare attraverso la pena, ma non può mai dimenticare ciò che ha prodotto, perché per le vittime dei fatti che prima ricordavo, nella tragicità di questi fatti politici, per noi davvero il fine pena non esiste mai, questo è il dato di fondo.

Però se io sento che, al di là della pena subita e scontata, esiste in chi ha commesso il reato quel senso di responsabilità di ciò che è accaduto, davvero si aprono strade nuove per un confronto, che deve avere come presupposto di fondo il capire perché determinate cose avvengono, quali sono i meccanismi, che non sono solo ed esclusivamente meccanismi di natura personale. Ma il capire attraverso questo dialogo, questo confronto, ciò che è avvenuto, ciò che l’ha determinato, permette alla società nel suo insieme di potersi evolvere.

Ecco io faccio un esempio, quando si parla di Sergio D’Elia che è stato in Parlamento, io sono completamente d’accordo che sia stato eletto, non sono stato d’accordo però quando, dopo aver assunto quella responsabilità (e gliel’ho scritto, ma non mi ha risposto), chiedevo che cinque minuti dopo aver assunto una responsabilità di quel genere si dimettesse, lui doveva dimettersi dicendo: io mi devo dimettere da questa funzione particolare per rispetto di quanto ho prodotto. Credo che questo sarebbe stato un gesto di straordinaria importanza e di straordinario valore, e avrebbe aperto strade nuove, strade nuove alle quali io comunque non voglio rinunciare. Io sono alla ricerca di poter dialogare, so che non posso dialogare con chi ha commesso la strage di Piazza della Loggia, ma sono pronto a discutere, a dialogare, a cercare di capire con altre persone che hanno commesso quei delitti, che hanno prodotto così tante conseguenze. E ripeto, sul piano personale e sul piano sociale, io questo percorso voglio percorrerlo, voglio percorrerlo fino in fondo, nella reciprocità del rispetto e nelle rispettive assunzioni di responsabilità. Voglio semplicemente capire, e per me capire significa anche capire le ragioni e il perché qualcuno ha operato determinate scelte. Grazie.

Chiedere un po’ di riserbo a coloro che hanno finito di scontare una pena

Ci sono ferite che rimangono aperte in un modo particolarmente doloroso

Succede se ti uccidono qualcuno, io però non ho alcun desiderio di intervenire in qualunque maniera su quello che riguarda l’esecuzione della pena, che è una faccenda fra lo Stato con le sue leggi, e la persona “dichiarata colpevole”

 

di Andrea Casalegno

giornalista del Sole24ore, le Brigate Rosse nel 1977 gli uccisero

il padre, Carlo Casalegno, giornalista del quotidiano “La Stampa”

 

Io sono un giornalista, quindi mi occupo essenzialmente di parole, allora partirò da questo: parlare di vittime è un po’ come parlare di detenuti, è un concetto un po’ vago; le vittime sono una categoria, le persone colpite da un reato, i detenuti invece sono le persone che stanno in carcere o in attesa di giudizio per scontare una pena, queste persone sono accumunate da questa loro condizione ma sono tutte diverse, profondamente diverse, io confesso per esempio che mi sento pochissimo vittima. La difficoltà è mettere insieme i casi individuali che sono tutti diversi, e certe volte l’esperienza può essere addirittura opposta. Io penso ad esempio all’esperienza di una persona che ha perso il padre quando aveva 3/4 anni, penso all’esperienza di una persona che ha perso il suo compagno, o la sua compagna di vita: queste sofferenze, usiamo pure la parola giusta, queste sofferenze sono completamente diverse dalla mia, che ho perso il padre a 33 anni, quando ero un adulto, avevo una mia famiglia, due figli. È evidente allora che le sofferenze non si possono paragonare, ciascuno ha le sue.

Mio padre è stato ucciso nel novembre del ‘77, io fino ai primi mesi del ‘77 facevo parte di un gruppo della sinistra extraparlamentare, Lotta Continua, quindi pur non condividendo i modi usati da coloro che hanno ucciso mio padre, che appunto avevano scelto questa caricatura di rivoluzione che chiamavano lotta armata, facevo parte di un gruppo che, essenzialmente, faceva politica intervenendo davanti alle fabbriche, distribuendo volantini agli operai, nel mio caso gli operai di Mirafiori, discutendo con gli operai la vita della fabbrica e le lotte che andavano fatte, e partecipando a queste lotte dall’esterno, per esempio ai picchetti, quando c’era uno sciopero, noi eravamo il picchetto. Il picchetto è in se una cosa violenta naturalmente, perché impedisce di entrare con la forza, però può essere una violenza che si limita a sbarrare la via, allora pur facendo parte di un gruppo che non aveva come suo strumento principale atti di violenza, in un certo senso condividevo con il gruppo armato che erano le Brigate Rosse la meta finale, la rivoluzione comunista. Che cosa fosse poi questa meta finale non lo sapeva nessuno, perché il nostro obiettivo non era realizzare la stessa società che c’era nei paesi cosìddetti socialisti, anzi quella raffigurava una forma di capitalismo di stato, quindi questa società comunista che volevamo costruire in realtà, se esisteva, esisteva solo nella nostra testa e in modo piuttosto confuso. La mia posizione è quindi completamente diversa da quella della persona che mi ha preceduto, Manlio Milani, io porto un’esperienza diversa, e diciamo anche che le mie esigenze sono di tipo profondamente diverso, io per esempio non ritengo che le persone colpite da reato debbano dire la loro in tutto ciò che riguarda la pena e l’esecuzione della pena, e anche il comportamento dopo la pena, è un principio fondamentale del nostro diritto. A differenza per esempio del diritto islamico, dove c’è il preciso dovere della famiglia di esercitare una forma di vendetta, e quindi di dire sì o no anche rispetto all’esecuzione della pena, nel nostro diritto è lo Stato, cioè la collettività, che si incarica di punire i comportamenti delittuosi (non è bene che lo facciano le persone colpite), anch’io mi sono costituito parte civile nel processo che ha riguardato l’assassinio di mio padre, ma, come voi sapete, la costituzione di parte civile è prevista dalle nostre leggi per tutelare il danno economico subito dalle vittime, solo per questo.

È chiaro che in molti casi, e quasi tutti i casi di omicidio, per di più in un omicidio politico, costituirsi parte civile diventa una sorta di intervento morale nel processo, ma è soltanto un dichiararsi, un esporsi, un contrapporsi, con questo significato e basta, quindi non ritengo, anzi riterrei una mostruosità giuridica per essere molto chiaro (e di solito mi esprimo con parole piuttosto brutali, odio le reticenze, le ipocrisie) qualsiasi conseguenza, per quanto riguarda l’esecuzione della pena, richiedesse l’autorizzazione delle persone colpite. Non ho alcun desiderio di accorciare, allungare, o intervenire in qualunque modo su quello che riguarda l’esecuzione della pena, che è una faccenda fra lo Stato con le sue leggi, e la persona “dichiarata colpevole”, e non dico “colpevole”, perché noi sappiamo che dobbiamo attenerci alla verità giudiziaria e non possiamo andare oltre. Allora tutto questo avviene ovviamente senza odio, l’odio non c’entra niente, il magistrato che condanna, il giudice di sorveglianza, la guardia carceraria, non ha alcun odio nei confronti delle persone detenute. Per quanto riguarda le vittime, anche se questa parola comincia a diventarmi molto antipatica, le vittime spesso odiano.

 

Non ho alcun desiderio di dialogare con gli assassini di mio padre

 

Io sono venuto a partecipare ad un convegno che si chiama “Sto imparando a non odiare”, ora apprezzo molto queste parole perché vengono da una persona reale, Antonia Custra, la figlia di un poliziotto assassinato da giovani completamente “privi di intelligenza”, per usare un’espressione che le riassume tutte, perché la bontà è una forma di intelligenza, e quindi la parola intelligenza secondo me ha anche un significato morale, non solo razionale, in questo senso apprezzo queste parole, direi le ammiro, però la mia esperienza è completamente diversa, io non provo e non ho mai provato alcun odio. L’esperienza dell’odio è una esperienza strettamente personale, io non conosco personalmente le persone che hanno ucciso mio padre, ne conosco i nomi ma non le conosco di persona, ho letto però l’intervista a una di queste, tra l’altro quella che ha materialmente premuto il grilletto della pistola che ha ucciso mio padre, sappiamo che la responsabilità è perfettamente identica per tutti coloro che hanno partecipato al delitto, ma in questo caso è proprio quello che ha premuto il grilletto di questa rivoltella cecoslovacca, la Nagant, che trent’anni fa era molto celebre perché ha ucciso molte persone. Questa persona, intervistata da un giornalista, ha dichiarato, e le sue parole sono contenute in un libro intitolato “L’ultimo brigatista”, che nei confronti di mio padre non aveva nulla di personale. Ci mancherebbe altro!, avendolo visto in faccia per la prima volta nel momento in cui gli ha sparato, era piuttosto difficile che avesse qualcosa di personale, quindi certamente non lo odiava, per lui era un obiettivo. Allora siamo proprio sicuri che uccidere senza odio sia meglio che uccidere con odio?

No, io ritengo che sia molto peggio, se una persona uccide con odio in qualche modo riconosce l’umanità di colui che sta aggredendo, il classico delitto con odio è il capovolgimento dell’amore, uccido la persona che mi ha tradito, cioè quella che amavo di più. Non dico che questo sia bene, ritengo che sia malissimo, però siamo nella gamma dei sentimenti umani, tutti noi siamo pieni di sentimenti di amore, di odio, di avversione, ma la persona che uccide senza odio commette un’azione incomparabilmente più orribile, sia che si tratti dell’attentatore che ha messo la bomba in Piazza della Loggia, o sul treno Italicus, nella Banca dell’Agricoltura, alla stazione di Bologna, che naturalmente non odiava minimamente tutte le persone, uomini, donne, bambini, che ha sterminato, le erano semplicemente del tutto indifferenti, sia che si tratti dell’estremista sedicente rivoluzionario, che ha assassinato delle persone del tutto innocenti, con un obiettivo totalmente irrealizzabile, perché qualsiasi persona dotata di senso capisce che può ammazzare quante persone vuole, ma tutto questo alla rivoluzione non l’avvicina nemmeno di un millimetro, e quindi sta letteralmente giocando, giocando a fare il rivoluzionario. Allora questa persona commette un’azione incomparabilmente più orribile di una persona che uccide con odio, quindi mi terrei il più lontano possibile dai luoghi comuni. L’odio è sempre male? Nei confronti di una persona sì, certamente nei confronti di un’azione no, odiare l’ipocrisia è molto bene. Inoltre io ritengo che l’odio sia, tutto sommato, con tutta la sua violenza, un sentimento abbastanza raro.

Io però, a differenza di altre persone dolorosissimamente colpite, non ho alcun desiderio di dialogare con gli assassini, nel mio caso sono persone perfettamente conosciute tutte, nome e cognome, e lo erano anche prima, perché tra le quattro persone che componevano il commando che uccise mio padre ce n’era una, Patrizio Peci, che è stato il primo cosiddetto pentito, la prima persona che ha collaborato con la giustizia più a fondo e prima di tutti, e quindi ha descritto per filo e per segno tutto su tutti gli attentati a cui ha partecipato, compreso quello di mio padre. Quindi se volessi andarli a cercare, potrei farlo, so chi sono, ma non ho alcun desiderio di dialogare con loro, anzi alcun desiderio di incontrarli, assolutamente mi tengo ben lontano.

 

Chi calpesta i sentimenti altrui necessariamente disprezza anche i propri

 

Per quanto riguarda gli autori delle stragi, provatevi un po’ a dialogare con loro, perché sono quasi tutti liberi, oppure del tutto sconosciuti e dubito che verranno fuori; questo rende la ferita delle stragi assolutamente non rimarginabile, perché fino a che non si conosce la verità su un fatto non si può, non dico riconciliarsi, ci mancherebbe altro che ci riconciliassimo con cose così terribili come le stragi, ma cominciare a curare le proprie ferite. Le ferite non si chiudono mai, ma in questo caso rimangono aperte in un modo particolarmente doloroso, quindi c’è dialogo e dialogo, il dialogo è una scelta, si può scegliere di dialogare o di non dialogare, questa è una mia posizione del tutto personale, ci sono altre persone, che io tra l’altro ammiro moltissimo, come Sabina Rossa, figlia di Guido Rossa operaio dell’Italsider, che è stato assassinato nel gennaio del ‘79, quando Sabina aveva se non ricordo male 14 anni, che hanno fatto scelte diverse. Adesso Sabina è una parlamentare, lei per lungo tempo ha completamente negato questa tragedia, non partecipava a nessuna commemorazione, non voleva più parlarne, poi ad un certo punto non molti anni fa ha condotto una vera e propria indagine sull’assassinio di suo padre, ne è venuto fuori un libro, che è stato scritto con una persona che è qui tra l’altro, e lei è andata a cercare proprio le persone che avevano sparato a suo padre, uno dei due del commando è ancora dentro, l’altro è stato ucciso in un conflitto a fuoco a Genova, allora io ritengo che ogni soluzione sia pienamente legittima.

Le vittime sono delle persone esattamente come lo sono i detenuti in carcere, le persone che hanno colpito non è che siano persone diverse da noi, sono persone esattamente come noi, quindi il rispetto deve esserci per tutti, quando noi chiediamo un po’ di riserbo a coloro che hanno finito di scontare una pena e scrivono libri, vengono intervistati, e assumono incarichi anche istituzionali, io lo chiedo più per loro che per me, ritengo che non facciano una bella figura ad esprimersi in un modo che chiarisce a chiunque che non hanno fatto i conti fino in fondo con la loro storia, anche se i conti fino in fondo non si fanno mai, ma nemmeno li hanno fatti in piccola parte, quindi piuttosto che tirino fuori frasi piene di reticenza, frasi talvolta false, sarebbe meglio a volte stare zitti, ma ripeto sono fatti loro, mi guardo bene dal commentare. L’ho anche scritto sul mio giornale, Il sole 24ore, quando mi hanno chiesto di commentare le parole del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha invitato appunto a non procurare ribalte a simili figuri. Io ho sostenuto che certo nessuno può limitare i diritti costituzionali di una persona, non chiediamo che ci sia un regime più severo per coloro che hanno commesso delitti di terrorismo rispetto a coloro che hanno commesso altri tipi di delitti, e quindi è assolutamente fermo il loro diritto di parlare, come il diritto di chi li interroga di ascoltarli.

Quello che vorrei è forse un uso di questo diritto più rispettoso dei diritti propri e altrui, perché chi calpesta i sentimenti altrui necessariamente disprezza anche i propri, è una persona che ha un cattivo rapporto con la sfera dei sentimenti, che è l’unica che ci permette un contatto con la realtà. La realtà è fatta solo di questo, la persona che uccide è una persona che astrae, no?, perché se no come faresti ad uccidere, astrae dalla realtà della persona che colpisce, non è che non ci pensa, non ci vuole proprio pensare, che questa persona ha un padre, una madre, una compagna, dei figli, degli amici, tutta una serie di legami affettivi che sono a loro volta distrutti, calpestati, torturati, allora lo sa perfettamente, semplicemente non ci vuole pensare, e quindi in un certo senso agisce nell’irrealtà. Sono persone che spesso restano abbarbicate all’universo mentale che le ha condotte a uccidere, continuano a vivere nell’irrealtà, a pensare che hanno fatto benissimo, che sono state sconfitte solo militarmente, ma che in realtà avevano assolutamente ragione. Naturalmente ognuno è padronissimo di pensare quello che vuole, però mi sembra chiaro che per tutte le persone dotate di buon senso, questo significa rifugiarsi in un mondo a parte, in una prigione mentale, cioè uno può uscire dal carcere, ma può restare prigioniero di una sua visione completamente falsa, oppure far finta, proclamare che è così semplicemente per salvarsi la faccia, se questo si può chiamare salvarsi la faccia.

Vittima di un sequestro feroce

In tanti mi dicono: ma tu hai perdonato?

Il sentimento dell’odio è sentimento montante che fa solo male a chi ce l’ha nell’animo

 

di Giuseppe Soffiantini

vittima di un sequestro che è durato 237 giorni

 

Anch’o vorrei esprimere i complimenti agli organizzatori di questo convegno, e mi auguro possano seguirne altri per poter parlare e approfondire questi argomenti, credo che siano molto importanti per la convivenza sociale. Io poi sono forse un testimone un po’ particolare, perché ho vissuto una terribile esperienza, ho vissuto una violenza, ho subito una violenza terribile in questi 237 giorni di sequestro, e con tutti i problemi e le vicissitudini che si sviluppano in situazioni di questo genere. Veramente una cosa inaudita perché è una violenza che dura nel tempo, e però nello stesso tempo io ho avuto la fortuna di essere qui a raccontare, quando invece qui ci sono molti testimoni che hanno perso le persone care, e quindi la mia voce forse è un po’ diversa.

Vorrei subito raccontarvi un fatto che è avvenuto proprio il secondo giorno che mi trovavo in quella terribile situazione. Io mi lamentavo perché, avendo subito un intervento a cuore aperto, e avendo avuto un intervento alla valvola mitralica, ho la protesi meccanica alla valvola mitralica. Avevo avuto questo intervento quattro anni prima del sequestro e dovevo prendere dei farmaci, la seconda sera io mi lamentavo e dicevo: se voi non mi procurate le pastiglie salvavita del Sintrom o Coumadin, comunque questa pastiglia che il mio cardiologo mi diceva sempre “Mi raccomando Giuseppe, tutte le sere prendi la tua pastiglia se no rischi la vita”, se non mi procurate questa pastiglia voi non raggiungete nessuno scopo, e io muoio, quindi mi lamentavo. Ad un certo punto il carceriere mi dice “Ma piantala!” bestemmiando, “sapessi cosa ho sofferto io nella mia vita, altro che la tua condizione”. E lo dice con parole diverse ma molto più cattive, e allora io gli ho risposto: “Cosa hai detto? Fermati un momento, tu hai potere di vita o di morte su di me, però non ti permetto di paragonarti a me, perché io sono una persona che ha sempre lavorato, mi sono sempre comportato bene, e tu sei un feroce bandito, per di più pazzo, perché solo un pazzo può fare quello che tu stai facendo a me”.

Allora ero all’inizio della carcerazione, poi ho avuto 237 giorni per pensare a tante cose, e a questo proposito vi dirò, quando si è in pericolo di vita da un momento all’altro, come tutti noi in qualche occasione abbiamo sperimentato, capita che si pensa con una velocità incredibile, tante volte in un minuto secondo, si pensa quello che in una condizione normale si riesce a fare in tutta la vita, quindi in 237 giorni si ha tempo di pensare a tutto. Io allora mi sono fatto questa domanda: ma un po’ di ragione non ce l’avrà anche questo qui? Come ha fatto ad arrivare a diventare così? Probabilmente, e questo lo vedevo dagli scarponi, sarà un pastore, da giovane è stato mandato sui monti, magari il padre qualche sera ha dovuto scendere in paese per fare le spese, lui si è trovato solo e ha dovuto dimostrare a se stesso che era forte e coraggioso per vincere l’istinto della paura. Quando poi magari a 16-17-18 anni, quando il fuoco della vita comincia a bollire dentro al giovane, è sceso al paese, che cosa ha trovato? Ha trovato che i suoi coetanei magari lo schernivano, guarda quello lì, non è capace neanche di camminare, di vestirsi, e di parlare. E lui si sentiva invece di non essere così negativo, quindi ha cominciato a fare delle bravate per poter dimostrare che lui era forte e intelligente, bravate su bravate, violenze poi su violenze, ma forse anche qualche violenza subita, se non altro dall’indifferenza dei suoi coetanei e da altre persone, che in una mente debole pesano di più.

Certamente questo non giustifica nessuno a commettere questi reati, però bisogna capire che tante volte anche noi possiamo essere complici di una indifferenza nei confronti delle persone, e invece magari in un momento o con una parola si potrebbero evitare tanti guai. Però oggi, oggi siamo qui in un carcere e so che ci sono anche dei detenuti, e non è per fare il buonista, ma vorrei esprimere questo concetto: chi sbaglia deve pagare, la pena deve essere immediata e certa, però poi quando queste persone sono in prigione, lì è il momento più opportuno per lavorare per il cambiamento.

 

La vera libertà è capire che non bisogna fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te

 

È per questo che ringrazio gli organizzatori di questo convegno, è il momento più opportuno per dare dei messaggi positivi, e cercare di far capire a queste persone che hanno sbagliato, che la vera libertà la raggiungeranno, la troveranno, non quando usciranno di prigione, ma quando capiranno che non bisogna fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.

Qui oltretutto, siccome io sono un imprenditore, vedo anche il discorso della convenienza: se noi riusciamo a chiedere con forza alle istituzioni, ai nostri governi di investire nei sistemi penitenziari, avremo ottenuto che molte di queste persone che hanno sbagliato si recupereranno e quando usciranno di prigione avranno la possibilità di inserirsi a pieno titolo nella società, riducendo quindi, scusatemi la cosa sarà banale ma è importante anche questo, riducendo i costi di mantenimento e riportando anche la polizia penitenziaria ad una vita più dignitosa.

Io sono stato in qualche carcere e quello che mi ha impressionato di più è la tristezza dei carcerati, perché chi ha provato come me la mancanza di libertà, sa bene cosa vuol dire “mancanza della libertà”, anche se io in più ero completamente incolpevole, ma comunque sempre mancanza di libertà. Alcune carceri poi sono davvero fatiscenti, sovraffollate, ed è importante aiutare chi sta dentro a ritrovare, tramite la scuola, e possibilmente anche il lavoro, dignità.

E siccome noi siamo esseri umani e abbiamo bisogno di vivere insieme, immaginate, immaginiamo come potremmo vivere isolati da tutti gli altri, è impossibile. Quindi abbiamo bisogno di vivere insieme, per vivere insieme dobbiamo stare alle regole, e per stare alle regole bisogna, come diceva papa Wojtyla, lavorare per la costruzione del villaggio globale, e nelle carceri è il punto più sensibile e importante dove fare qualcosa. E nessuno di noi può esimersi da questo impegno sociale, anche per convenienza personale.

 

In tanti mi dicono: ma tu hai perdonato?

 

Cosa vuol dire perdonare? Cominciamo a dire cosa vuol dire perdonare. Quando per esempio si sente che succede qualcosa come è capitato a me, subito mi vengono vicino con il microfono per chiedermi: ma lei ha perdonato? Ripeto, cosa vuol dire perdonare? Se vogliamo dire che continuo a odiare, io mi auguro di no, perché il sentimento dell’odio e della vendetta è un sentimento montante che fa solo male a chi ce l’ha nell’animo. Il prendere le distanze dall’odio, o se vogliamo dire perdonare, tanto per semplificare, non è un atto di generosità, è una necessità per quanto mi riguarda. Forse io lo vedo sotto un punto di vista un po’ personale, ma questi pensieri sappiate che li ho fatti ancora quando ero là prigioniero, quando ero là pensavo: se avrò la fortuna di venir fuori da questa terribile esperienza, non starò zitto, perché queste riflessioni cercherò di portarle anche agli altri, non starò zitto anche perché forse, se l’opinione pubblica è sensibile su certi reati, probabilmente si trova anche la possibilità se non di debellarli, almeno di attenuarli.

Ecco io voglio dare questo messaggio: dovremmo, vi prego rifletteteci, dovremmo tutti fare la nostra parte sul versante dell’esecuzione penale e del reinserimento dei condannati, se ognuno di noi fa la sua parte probabilmente le cose davvero possono migliorare.

C’è più attenzione per i diritti degli ex detenuti, che per i diritti delle vittime?

Ci sono debiti che non si possono saldare

Sono i “debiti” di chi ha deliberatamente ucciso un altro uomo. Io sono felice se gli ex terroristi, che hanno finito di scontare la propria pena, si danno da fare per aiutare gli ultimi, ma credo che un ex terrorista rimanga comunque un assassino

 

di Silvia Giralucci

suo padre è stato ucciso dalle Brigate Rosse a Padova

 

Sono entrata in questo carcere, al Due Palazzi, in altre due occasioni della mia vita. La prima volta nel 1990 stavo preparando l’esame di maturità, e nell’aula bunker si celebrava il processo per l’omicidio di mio papà, Graziano Giralucci. È stato ucciso dalle Brigate Rosse quando avevo appena compiuto 3 anni e non ne ho nessun ricordo diretto. La sua morte, a 29 anni, è stata una tale devastazione nella famiglia, che mia madre, per trovare in qualche modo la forza di andare avanti, ha scelto di chiudere dentro di sé il suo dolore, e di non parlare più di lui.

Io vedevo girare ritagli di giornale, afferravo mezze frasi, e non comprendendo che cosa questo alone di mistero dovesse nascondere, pensai che quel papà di cui non si poteva parlare ad alta voce non fosse davvero morto, ma che mi avesse abbandonata. Avevo otto anni quando mia madre mi ha spiegato, nella maniera in cui si può spiegarlo ad un bambino, che papà era stato ucciso per le sue idee. Ma ci sono voluti ancora anni, tanti, per accettare la sua morte, e anche oggi, dentro di me rimane sempre un senso di attesa, un desiderio fortissimo di vederlo in qualche modo tornare.

Il processo è stato il primo contatto reale con quello che era accaduto. Mi ricordo l’aula bunker: enorme e vuota. Questa storia aveva riempito i telegiornali, le pagine dei giornali, eppure quando si è celebrato il processo non interessava più a nessuno. Non c’erano gli amici di mio padre – e mi dicono che ne avesse tantissimi – non c’erano nemmeno i suoi fratelli. C’eravamo noi e qualche amico dei brigatisti. Quando uscivamo dall’aula, vedevo i brigatisti salire nelle loro auto e mi colpiva che queste persone avessero una vita normale, quando la nostra, la mia vita normale non era stata proprio per niente.

Arrivò il giorno della sentenza. Quando i giudici popolari entrarono in aula mi guardavano sorridendo. Non so se immaginai, ma nei loro occhi lessi che avevano compreso il nostro dolore e che volevano dirci che giustizia, finalmente, era stata fatta. Tecnicamente, dal punto di vista della pena detentiva, quella condanna per gli imputati significava ben poco. Per quasi tutti non aggiungeva nulla agli anni che già dovevano scontare per altri reati dello stesso tipo. Ma per noi era importante. Mia mamma, che è una persona poco incline a mostrare i propri sentimenti, alla lettura della sentenza si commosse. Mi raccontò che quando i giudici stavano entrando nell’aula si era voltata e aveva visto mio padre, appoggiato allo stipite della porta, che le sorrideva, come se anche lui avesse trovato finalmente giustizia per quello che gli era capitato.

La seconda volta che sono entrata al Due Palazzi l’ho fatto per lavoro. Da giornalista dovevo seguire un progetto di teatro carcere del “Tam Teatromusica”. Sono entrata qui con un atteggiamento direi presuntuoso: ero convinta che il carcere fosse il posto dove stanno gli assassini, e che fosse bene tenerli lì, in modo da liberare la nostra società da queste presenze indesiderate. Entrando in carcere però ho trovato delle persone, delle persone che valevano, che avevano anche molto da insegnarmi, e ho capito che sarebbe stato davvero un peccato che la società si privasse di ciò che avevano da dare. Sono diventata amica di uno di loro, un mio coetaneo che a 18 anni aveva ucciso un gioielliere, che in quel periodo aveva la sua prima semilibertà. Il confronto tra noi era complicato da gestire, perché lui metteva in crisi tutte le mie certezze, però credo che alla fine sia stato proficuo per entrambi.

Il laboratorio di teatro carcere del “Tam Teatromusica” prevedeva che l’esperienza si aprisse alla città. Venne organizzata una serata al teatro delle Maddalene. I detenuti, con uno speciale permesso premio, presentarono il loro spettacolo ai padovani. Ero con loro alle prove, quando mi accorsi che nel cortile antistante il teatro c’era uno dei detenuti attori che anziché fare le prove, perdeva tempo a giocare tra i bambini. Lo trovai strano, forse anche poco corretto, e chiesi informazioni. Rimasi di sasso quando mi spiegarono che quei bambini avevano per la prima volta la possibilità di vedere il loro papà fuori dal carcere e di giocare assieme a lui. Mi sono resa conto che la nostra società, la società dei giusti, stava infliggendo a quei ragazzini la stessa pena che era stata inflitta a me, e che anche loro, assolutamente innocenti, avrebbero portato i segni di quella privazione per il resto della loro vita. Quella prospettiva ribaltata non mi ha più abbandonato. Questa esperienza è stata, come dire, fondante in quello che ho cercato di essere e di fare. Anche nel lavoro, cerco sempre di scavare le ragioni profonde, e di comprendere anche le motivazioni di chi sento diverso da me.

 

Un assassino, che ha scontato la pena, non può considerarsi comunque a posto con la società

 

Non credo di aver mai odiato i terroristi, non trovo proprio dentro di me il sentimento dell’odio. Devo dire però che quel che ho sentito spesso in questi anni è il desiderio di essere lasciata in pace. Credo di non aver mai avuto il tempo, nonostante siano passati 34 anni, di avere un momento privato in cui elaborare il mio lutto, perché questo lutto è finito continuamente sui giornali: nei momenti importanti della mia vita, quando avrei voluto essere solo me stessa, ero sempre la figlia di mio padre. Sembra incredibile ma persino nella laurea è entrata questa storia. La discussione è stata fissata il 17 giugno, il giorno dell’anniversario dell’omicidio. Per evitare di mescolare la mia festa con le manifestazioni che la destra ogni anno organizza per il mio papà, ho dovuto chiedere alla relatrice di allungare la discussione. Mi rimangono diverse foto con la corona di alloro al collo e le camionette della polizia sullo sfondo. Ogni anno la cerimonia di commemorazione viene presidiata da uno schieramento di polizia in assetto anti sommossa, con i caschi e gli scudi, strade limitrofe bloccate e camionette blindate nei punti strategici. È una scena che non mi piace per nulla, mi chiedo se sia la cerimonia di ricordo di due vittime del terrorismo o siamo ancora comunque dei bersagli.

 

Tornando ai miei sentimenti nei confronti degli assassini di mio padre, devo dire che il tentativo costante di comprendere anche le ragioni di chi è diverso da me è stato messo a dura prova l’anno scorso. Nel tempo ci sono stati diversi episodi che mi hanno ferita, segnata. Dalle parole, a volte inconsapevoli, di chi mi sta intorno, fino all’assurdo di un Presidente della Repubblica che voleva graziare uno dei terroristi responsabili della morte di mio padre, Renato Curcio, prima ancora che arrivasse la sentenza definitiva di condanna.

L’anno scorso, dicevo, una degli assassini di mio padre, Susanna Ronconi, è stata nominata dal ministro Ferrero consulente nel forum droghe. Io so che qui in sala ci sono persone, anche la stessa Ornella, che hanno difeso quella scelta. A Padova c’è stato un intenso dibattito, che prendeva, secondo me, spunto da questa vicenda per discutere sul passato di questa città. In ogni caso quel dibattito mi ha ferita moltissimo. Non credo sia il caso di entrare nel merito di quello che penso dell’atteggiamento di Susanna Ronconi, al processo e dopo. Ma se riesco a comprendere perché un ex terrorista rifiuti di accettare il peso della responsabilità che si porta dietro, mi ferisce vedere che quella parte della società cui mi sento più vicina non abbia per i diritti delle vittime la stessa attenzione che ha per i diritti dei detenuti.

Io sono felice se gli ex terroristi, che hanno finito di scontare la propria pena, si danno da fare per aiutare gli ultimi, ma credo che un ex terrorista rimanga comunque un assassino. Non è che sia così perché lo dice una vittima rancorosa, è semplicemente una condizione frutto di una scelta irreversibile. Non è retorica dire che le vittime portano ogni giorno e ogni notte il peso delle conseguenze di quella scelta. E non vedo proprio come un assassino, una volta scontata la pena, possa considerarsi “ripulito”, a posto con la società. Non è che sono i parenti delle vittime a chiedere una pena senza fine per chi ha ucciso i loro cari. È che chi ha deliberatamente ucciso un altro uomo non può pensare che il debito si possa saldare.

Ornella in un suo intervento ha scritto che gli ex terroristi dovrebbero avere la delicatezza di rientrare nella società in punta di piedi. Io sarò molto più dura, io direi “a testa bassa”, perché quello che mi aspetto io da un assassino è che tutte le mattine alzandosi si chieda: “Che cosa ho fatto?”, che consideri ogni giorno della sua vita regalato rispetto a quello che ha tolto, e che si comporti di conseguenza. Mettendo sulla bilancia il diritto di un ex terrorista a vivere una vita piena, e il mio diritto a vivere tranquilla, ecco credo che il mio diritto sia prevalente, e che l’ex terrorista debba adeguarsi. È pesante, me ne rendo conto, però la condizione di ex terrorista è frutto di una scelta - compiuta nel passato, ma comunque una scelta - mentre io la mia condizione non l’ho scelta assolutamente.

Devo dire che il fatto che tra le persone con cui io mi sento di condividere molto questo non venga compreso, che ci sia più attenzione per i diritti degli ex detenuti, che per i diritti delle vittime, è una cosa che mi ferisce ancora oggi moltissimo.

Bisogno di verità, giustizia e riconciliazione

Ho sentito che dovevo essere portatrice di una parola di ragionevolezza

Ho avuto la fortuna di non bere il veleno dell’odio, e di non desiderare

la morte di altri, di non voler colpire al cuore nessuno

 

di Olga D’Antona

vedova di Massimo D’Antona, giurista ucciso dalle Brigate Rosse

 

È la seconda volta che mi trovo nel carcere di Padova, in due circostanze molto diverse l’una dall’altra. La prima volta io ero in una piccola stanza con circa 40 detenuti, la redazione di Ristretti Orizzonti. In quell’occasione le persone detenute hanno riconosciuto la mia sofferenza e il mio dolore, ma io ho potuto riconoscere la loro sofferenza e il loro dolore. Da quella esperienza siamo usciti cambiati, forse arricchiti tutti noi, come credo che, anche da questa esperienza di oggi, usciremo cambiati e arricchiti tutti noi. Venendo qui oggi, come del resto la prima volta, non sapevo che cosa avrei detto in questa circostanza perché mi sembra utile che da questi nostri incontri scaturisca una riflessione collettiva, libera da stereotipi o discorsi preconfezionati. La nostra riflessione si è soffermata sul tempo che non sempre lenisce il dolore. Nel mio caso il tempo è stato di aiuto perché è stato un tempo di elaborazione ed io oggi mi sento serena. Credo che questo lo debbo al fatto di non aver mai rinnegato il dolore, di averlo affrontato, averlo vissuto, ma soprattutto di averlo condiviso. Ho capito da subito, essendo stato l’atto di violenza, che la mia famiglia ha subito, un atto di violenza politica, che non era soltanto un lutto personale, che non apparteneva soltanto a me, e che per questo andava condiviso.

In me non è mai stato presente, cosa che ho visto soprattutto in associazioni di vittime del terrorismo, un’esigenza risarcitoria, io ho sentito dentro di me crescere una responsabilità. Non mi aspettavo che la società dovesse qualcosa a me, ma paradossalmente sentivo che dovevo essere io ad impegnarmi nei confronti della società. Proprio per la responsabilità che assieme al lutto cadeva su di me, io dovevo essere portatrice di una parola di ragionevolezza, di consapevolezza, di testimonianza soprattutto nei confronti di tanti giovani. Il tema di oggi è superare l’odio. Mi sono segnata su questo foglietto, nel corso di questa nostra riflessione, delle parole chiave. La prima parola chiave di oggi è stata odio, ecco posso dire che io ho avuto la fortuna di non bere quel veleno, e di non desiderare la morte di altri, di non volere colpire al cuore nessuno. Io ho vissuto l’evento più che la ricerca del colpevole. All’inizio non sapevo da che parte mi venisse l’aggressione, quindi c’era il fantasma dell’aggressore, ma immediatamente ho sentito il bisogno di conoscerne l’umanità.

Il mio primo pensiero, la mia ossessione, era l’irreversibilità dell’accaduto: anche se quella persona, e io non sapevo chi fosse, si fosse pentita fino al dolore più profondo per l’atto compiuto, quel pentimento non avrebbe potuto portare l’orologio indietro. Non c’era atto, non c’era ravvedimento che potesse sanare la gravità di quel delitto. Ma anche questo, se volete, era un modo di cercare l’umanità dell’aggressore, l’umanità di quella persona che aveva cambiato per sempre non soltanto la mia vita ma anche la mia persona. Sì, perché io non sono più la persona di prima. Per questo ho scelto di cambiare anche il mio cognome. Non porto più il mio nome da ragazza, ho scelto di portare, come segno di testimonianza, il cognome dell’uomo che avevo sposato, del compagno della mia vita che mi era stato sottratto. A questo poi, non vi sembri contradditorio, ha corrisposto la consapevolezza dello stigma che viene invece messo addosso alle donne che restano vedove. È una riflessione che ho cominciato a fare in pubblico, perché sono convinta che sia necessario acquisire consapevolezza anche su un tema che credo sia ancora inedito: se un uomo rimane vedovo non è vedovo a vita, è vedovo per un po’, ma se è una donna a rimanere vedova quella donna è vedova per sempre. Io questo lo vivo sulla mia pelle.

Oggi sono qui a portare una testimonianza, quindi è giusto che domani appaia sul giornale che la vedova D’Antona era qui; ma se io dopo nove anni dalla perdita di mio marito vado una sera a teatro, o a una sfilata di moda, o sono nel pieno svolgimento della mia attività lavorativa, allora è giusto che, ogni volta, io debba apparire sul giornale come la vedova D’Antona? Non è un modo di metterci sulla pira come le vedove indiane o, come qualcuno ha detto, di chiuderci nella tomba insieme ai nostri mariti?

L’altro elemento che io voglio portare ad una riflessione, di cui ho acquisito consapevolezza in questi anni, è quanto noi tutti non siamo stati educati a rapportarci con il dolore e la sofferenza degli altri. Siamo goffi, maldestri, incapaci di non ferire le persone con l’apparente intento di consolarle. Badate bene, le ferite più fastidiose mi sono venute dalle persone benpensanti, dalle tante persone per bene: ma come ti sei ripresa!, ma come stai bene!, ma sono contenta di vedere che finalmente stai bene! Ti inchiodano lì, a quel giorno, a quella mattina del 20 maggio del ‘99, tu non sei altro che quella cosa lì, quella vittima, quella persona che deve dare mostra di sé ogni giorno, ogni momento, per soddisfare quella morbosità voyeuristica che c’è in ognuno di noi, badate bene in ognuno di noi. Questa mia denuncia non vuole essere né accusatoria né vendicativa, voglio invece introdurre un argomento di consapevolezza e di riflessione sull’incapacità di relazione e sul disagio che le persone vivono quanto incontrano qualcuno colpito da un evento doloroso. Io non parlo soltanto di vittime di atti violenti, io parlo di dolore in genere, non siamo stati educati ad affrontarlo, non lo sappiamo fare, non sappiamo da che parte prenderlo, come rapportarci, e feriamo le persone. È giusto che io, dopo nove anni dalla morte di mio marito, non possa scendere ancora a comperare un giornale sotto casa all’edicola, senza che il giornalaio mi ricordi che cosa stava facendo la mattina del 20 maggio del ‘99, a quell’ora in quel momento, che cosa ha provato? È giusto che io non possa andare in un bar del mio quartiere a prendere un caffè senza che mi venga ricordato quel giorno?

Ecco, io ho cominciato, dopo nove anni dalla morte di mio marito, l’8 marzo, il giorno dedicato alle donne, in un pubblico dibattito a parlare di questo. C’è voluto un tempo molto lungo a capire quanto costa, quanta fatica costa tutto questo, e quanta sofferenza, e siccome non sono l’unica donna rimasta vedova e non sono l’unica donna colpita dal dolore, io credo che questa consapevolezza debba essere acquisita. Vedete, io ho imparato faticosamente a mettere a disagio le persone che mettono a disagio me, a non farne passare più una liscia. Certo però educarne uno alla volta è faticoso, e io quindi chiedo aiuto a voi, a questi momenti collettivi di dibattito, per ragionare anche su questo: quanto sottile è l’inconsapevole aggressività delle persone per bene.

C’è un’altra parola che suona spesso in questi nostri incontri, ed è la parola perdono. Ogni volta che vengo interrogata su questo tema, io mi sento a disagio, la parola perdono mi mette a disagio, perché io non so come funziona, non so da che parte si prende, non la so utilizzare, non mi appartiene. Io sono qui, come l’altra volta in cui ho incontrato i detenuti, a riconoscere l’umanità dell’altro, a guardarci negli occhi e a cercare di capire l’uno le ragioni dell’altro, non sono cattolica, non sono educata al perdono, non so che cos’è, forse perché non conosco l’odio non posso conoscere il perdono. Però c’è una frase di Giovanni Bachelet che io ho apprezzato, e che in qualche modo mi aiuta un po’ forse a capire la forza del perdono: quando lui dice “Il perdono è un’arma potente, che sconfigge l’aggressore”, e forse in questo posso dargli ragione, nel senso che, nel momento in cui noi mostriamo la disponibilità a capire l’altro, diventiamo automaticamente più forti, e nel momento in cui noi tendiamo la mano, e riusciamo a recuperare l’altro, e a portarlo verso di noi, noi abbiamo vinto la nostra battaglia.

 

Sento di avere vinto quando recupero l’altro

 

Io non sono fra quelli che intendono mettere il marchio a vita alle persone, neanche a quelli che compiono i delitti più efferati, perché se io mettessi il marchio a vita a quella persona mi sentirei sconfitta. Sento di avere vinto quando recupero l’altro, quando lo porto ad un ravvedimento vero, profondo, sincero, quando lo porto alla consapevolezza dell’errore. In ognuno di noi ci sono molteplici aspetti della personalità, la parte buona, la parte cattiva, l’amore, l’aggressività, e allora quali di queste parti noi vogliamo alimentare, questo è il punto, quali parti di noi scegliamo di alimentare? E allora se insieme riusciamo a fare in modo che più persone siano dalla nostra parte a dare alimento alla parte buona delle persone, al senso di solidarietà, a darsi la mano l’un l’altro, ma soprattutto a riconoscersi l’un l’altro, ecco, in questo senso, io credo che il perdono possa essere un’arma potente. Io lo chiamo in un altro modo, lo chiamo riconoscimento dell’altro, lo chiamo ricerca dell’altro, lo chiamo ritrovarsi, parlarsi, ma se lo vogliamo chiamare perdono è una convenzione che possiamo scegliere insieme per dare forza a questo concetto.

Un’altra delle parole di oggi è verità, parola che metterei insieme a giustizia e riconciliazione. La giustizia non è un fatto che mi riguardi personalmente, io sono d’accordo con chi dice che la vittima può anche essere espropriata della giustizia che, in una società democratica evoluta, appartiene allo Stato, ma la verità sì, la verità ci riguarda, perché la verità ci aiuta, ci serve. Per me è stato fondamentale dare un volto e un nome agli aggressori, perché finalmente sapevo con che cosa dovevo fare i conti: chi? come? perché? Sono domande che pretendono risposta, quindi io capisco fortemente il disagio, il dolore, lo sconcerto dei parenti delle vittime delle stragi, che in questo paese ancora non conoscono la verità, perché i fantasmi fanno più male delle persone in carne ed ossa. Però io credo che proprio la mancanza di verità abbia prodotto la mancanza di una memoria condivisa, in questo mi riferisco alla violenza politica che è stata un germe malefico, un virus malefico in questo paese. Io credo che la memoria condivisa senza verità non può essere riconosciuta. Ho avuto occasione di dirlo altre volte: se non c’è una memoria condivisa come può esserci riconciliazione? È un percorso che questo Paese deve fare, deve fare i conti con un pezzo della sua storia. Il segreto di Stato ora, almeno su una parte di quello che resta delle carte di Moro, è stato tolto. Nel mio lavoro di parlamentare, sono fra quelli che ha lavorato nella commissione che si è occupata della riforma dei servizi segreti, e la regolamentazione del segreto di Stato. Abbiamo imposto un limite, trent’anni sono passati dall’uccisione di Moro, quei carteggi sono accessibili, ora gli storici e la magistratura hanno un lavoro da compiere, perché davvero con quel pezzo di storia di questo Paese dobbiamo fare i conti.

Però credo che qui oggi stiamo facendo qualcosa di più, perché il nostro lavoro non è circoscritto alla violenza politica, questo è un lavoro che fa un passo in avanti: noi stiamo parlando della violenza in generale. Come superare l’odio per sconfiggere la violenza. Stiamo, tutti insieme, io credo, facendo un lavoro straordinario. Ringrazio Ornella di questo, come ringrazio tutte le persone che sono qui, perché qui ci sono sì i detenuti, gli autori di reato, che già nell’essere qui vuol dire che hanno fatto un percorso impegnativo e apprezzabile, ma qui ci sono anche le tante persone che rappresentano un ponte, tra quelli che sono fuori e quelli che sono dentro, tra i buoni e i cattivi anche se, secondo me, i buoni e i cattivi sono dentro e sono fuori. Qualcuno lo ha detto prima di me, gli autori di reato sono persone, come persone sono le vittime, ognuno reagisce in un modo diverso, ognuno ha un modo diverso di sentire e acquisisce diversa consapevolezza via via negli anni di riflessione. Io guardo con grandissima attenzione e apprezzo tutti i casi in cui il carcere non è soltanto il luogo di detenzione e di pena, ma diventa il luogo della riflessione, il luogo della consapevolezza. Oggi è la prima volta che partecipo ad un evento di questo genere, così grande, così partecipato, e vivo questa occasione con la consapevolezza che stiamo facendo qualcosa di importante, di utile, e credo che dovremmo proseguire su questa strada, per questo grazie a tutti voi, e vi dico arrivederci.

Un libro che tiene giustamente aperte certe ferite

I silenzi degli innocenti e il chiasso assordante di certi colpevoli

Testimonianze di vittime colpite due volte, la prima dal piombo,

e la seconda dal silenzio,dalla solitudine, dall’emarginazione

 

di Giovanni Fasanella

giornalista, autore del libro “I silenzi degli innocenti”

 

“I silenzi degli innocenti” è un libro nato per contrapporsi al chiasso assordante dei colpevoli, ma prima di raccontare la storia di questo libro io sento il bisogno di dire due parole su questo incontro. Questa mattina, entrando qui dentro, ho conosciuto tanti nuovi amici, perché tali li considero a cominciare dai redattori di questa rivista, che hanno organizzato questo appuntamento. Uno di loro mi ha detto “Sono terrorizzato, sono preoccupato perché per noi questa giornata sarà una giornata all’insegna di una sofferenza atroce, però abbiamo fatto bene ad organizzare questo incontro anche se per noi sarà un passaggio estremamente difficile, ma anche utile”. Utile sì, è così, avete organizzato una cosa bella e utile, non trovo altre parole per definirla, e spero che non rimanga una iniziativa isolata ma che sia l’inizio di un percorso di cui non solo voi, non solo le vittime dei reati hanno bisogno, il Paese, noi tutti abbiamo bisogno di iniziative come queste, che ci costringano a fare i conti con una storia troppo a lungo rimossa.

E vengo al libro, ma prima devo dire un’altra cosa: io non sono mai entrato in un carcere, e da quando ho accettato l’invito a partecipare a questa iniziativa, sono stato tormentato per giorni da una domanda: ma come devo parlare? Che parole devo usare, per non ferire nessuno? Allora mi avete aiutato voi stessi a risolvere questo dilemma, e io penso che se oggi inizia un qualcosa di nuovo, un percorso tra persone che vogliano dialogare, credo che la cosa migliore sia usare le parole della verità, quello che io farò parlando di questo libro.

Io avevo un amico, si chiamava Maurizio Puddu, era, dico era perché è morto di recente, un dirigente della Democrazia Cristiana a Torino. Io ero un cronista della redazione torinese dell’Unità, lui era una delle mie fonti privilegiate, e quindi era nato un rapporto di amicizia e di fiducia tra noi. Un giorno di aprile del 1977, mentre rientrava a casa verso l’ora di pranzo, un commando di brigatisti rossi gli spararono alle gambe, una pallottola gli prese l’arteria femorale, ma per fortuna quella pallottola non uscì, rimase lì bloccata, fece da tappo, e quei pochi minuti che la pallottola rimase lì furono provvidenziali per Puddu, che così non morì di emorragia e dissanguato, perché quando una pallottola ti prende l’arteria femorale non ci si salva.

Dopo diverso tempo, perché ci eravamo persi di vista, io intanto mi ero trasferito a Roma, tornando a Torino ero andato a trovarlo e gli avevo detto: “Maurizio, raccontami un po’ la tua storia dopo l’attentato”. Lui allora ricordo che mi disse: “Ma sai, è strano, perché quando sei in ospedale vivi quasi una situazione di euforia, sei quasi contento, perché hai tutti gli occhi del mondo addosso a te, vengono le televisioni, vengono i giornalisti vengono le autorità, il prefetto, i partiti, poi improvvisamente non viene più nessuno e resti solo, solo con te stesso, e allora che cosa succede? In quel momento, quando tu resti solo con te stesso, succede…”. Aveva quasi pudore a dirlo, non voleva dirlo, mentre io, anche perché lo ritenevo un amico, mi sentivo in qualche modo autorizzato ad incalzarlo, per capire cosa succede quando si resta soli. “Succede una cosa terribile, succede che la solitudine ti fa cadere in una depressione profonda, e a volte hai anche voglia di farla finita, perché non si può vivere da soli un dramma di queste proporzioni. Ma io, dopo aver partecipato a tante assemblee contro il terrorismo, a tanti dibattiti pubblici, ad un certo punto decisi che per vincere la depressione dovevo iscrivermi all’università e laurearmi in scienze politiche”. “Bene”, ho detto allora io, “e ce l’hai fatta?”, “No, no, adesso ti racconto che cosa è successo. È successo che andai all’università per iscrivermi alla sede delle facoltà umanistiche in via Ottavio a Torino, e trovai ad attendermi due ali di giovani, e io con il bastone arrancavo, cercavo di salire quei gradini, e quei giovani da una parte e dall’altra mi lanciavano monetine, mi lanciavano sputi, mi gridavano fascista, venduto, traditore. Io non ce l’ho fatta ad arrivare fino in fondo, ho ridisceso i gradini che ero riuscito faticosamente a salire e me ne sono tornato a casa, e ho dovuto cambiare città, addirittura ho dovuto andare a Trieste, a iscrivermi alla facoltà di Scienza Politiche di Trieste, dove finalmente sono riuscito a prendermi una laurea”.

Ma chi erano quei giovani da una parte e dall’altra? Lui cominciò a snocciolarmi un elenco, un elenco impressionante: uno era diventato nel frattempo un regista, un altro era diventato uno scrittore famoso, un altro ancora era diventato un dirigente politico, bÈ vedete voi che siete detenuti pagate un prezzo per i vostri errori, e lo fate anche con molta dignità, perché avete il coraggio di organizzare iniziative come queste, ma quei giovani che sputarono addosso a un uomo colpito, a un uomo innocente colpito, non avevano pagato nessun prezzo per quello che avevano fatto, per l’appoggio che avevano dato alla lotta armata e ai terroristi, e molti avevano poi fatto carriera.

 

Un libro che dà la parola alle vittime del terrorismo

 

Io sono felice se uno che ha sbagliato e ha pagato un prezzo, riesce a tornare a una vita normale, anzi noi dobbiamo fare di tutto per aiutarlo a ricostruirsi una vita normale, ma non per chi non ha pagato alcun prezzo, e ha fatto carriera, e ha occupato i posti di potere in modo particolare nel mondo dell’informazione, della cultura e dell’industria editoriale, perché molti di quei giovani erano in posti chiave, avevano occupato gli spazi della memoria da dove potevano decidere a chi dare diritto di parola e a chi no, mentre Maurizio Puddu era stato costretto a lasciare la sua città, prima colpito dalle pallottole, e poi umiliato con il lancio delle monetine e degli sputi.

Fu quel giorno in cui sentii quel racconto, 12 anni fa, che decisi che si doveva fare un libro per raccontare questa tragedia delle vittime colpite due volte, la prima dal piombo, e la seconda umiliate o colpite dal silenzio, dalla solitudine, dall’emarginazione. Io ho scritto una decina di libri sulle vicende della violenza politica e sul terrorismo in Italia, belli o brutti non lo so, ma non è la qualità che adesso ci interessa, dieci libri, e questo, “I silenzi degli innocenti”, doveva essere il primo, invece è stato pubblicato per ultimo, perché non sono riuscito a trovare un editore che pubblicasse un libro in cui, finalmente, si dava la parola alle vittime del terrorismo. E quando, passando in pellegrinaggio da una casa editrice all’altra, il testo veniva dato da leggere per valutarlo, una casa editrice, non voglio fare il nome naturalmente, perché non ha senso, il problema è puntare il dito contro una mentalità, che ha provocato danni e guasti, spero non irreparabili, dopo aver letto il progetto ha detto: “Ma cosa vuoi che gliene importi ormai alla gente di queste cose, queste storie hanno ormai rotto i c.”. Il fatto è che quel progetto fu fatto leggere ad un ex simpatizzante della lotta armata, e il responsabile di quella casa editrice era un altro che arrivava da quella esperienza, alla fine comunque per fortuna questo libro sono riuscito a portarlo in porto.

“I silenzi degli innocenti” dunque, in contrapposizione al chiasso assordante dei colpevoli. Io, lo ripeto, non sono per negare la parola agli ex terroristi, anzi io stesso ho fatto un libro con un ex terrorista, con il fondatore delle Brigate Rosse, e sono felice di averlo fatto perché da quell’incontro ho capito molte più cose di quanto io abbia capito leggendo i giornali italiani, o guardando la televisione, oppure leggendo i libri di tanti intellettuali. Io sono per dare la parola a chi ha qualcosa da dire, e soprattutto ha voglia di dirla, ma per decenni, mentre alle vittime veniva negato persino il diritto di iscriversi all’università, abbiamo visto la storia di quegli anni di piombo raccontata quasi esclusivamente dai protagonisti negativi di quella esperienza negativa, con versioni di comodo. Allora abbiamo dato voce ai silenzi, i silenzi al plurale, perché ci sono vari modi di rimanere silenziosi, c’è per esempio il silenzio autoimposto, di quel signore che aveva perso una persona cara nella strage di Piazza Fontana, che ha dato inizio a tutta questa storia. Quando lo chiamai per chiedergli se potevo incontrarlo e intervistarlo, due o tre giorni dopo l’ultima sentenza che mandava assolti definitivamente tutti gli imputati, lui mi disse: “Ma che storia vuole che le racconti?”. “Come che storia voglio lei mi racconti? La storia di un famigliare della vittima della strage di Piazza Fontana, naturalmente”, gli risposi. E lui: “La strage di Piazza Fontana? Ma perché, c’è stata una strage in Piazza Fontana? No non sto scherzando, non c’è stata nessuna strage, perché lo Stato italiano lo ha stabilito mandando per l’ennesima volta assolti tanti responsabili di quella vicenda”.

Ma ricordo anche il silenzio autoimposto, o in parte imposto, dell’altra vedova di Piazza Fontana. Quel pomeriggio del 19 dicembre, il marito era entrato per risolvere alcune questioni d’affari nella banca, ed era stato coinvolto nell’esplosione, aveva subito soltanto delle ferite, all’apparenza non gravi. Dopo un periodo relativamente breve in ospedale, la donna lo aveva portato a casa, dove è iniziato un calvario durato 12 anni. Quell’uomo era sofferente, aveva dolori continuamente, allora la donna andava a bussare a mille porte, dai medici, dagli ospedali, chiedendo di essere aiutata a capire che problema aveva, andava a bussare anche alle porte delle autorità, del sindaco, del prefetto, e immancabilmente le porte le si chiudevano in faccia, finché il marito, dopo 12 anni di sofferenze atroci, morì, e quando lo aprirono gli trovarono le schegge a centinaia che aveva in corpo tutte calcificate, e lui aveva vissuto per 12 anni con quel problema dentro di sé, e i medici non erano stati capaci di capirlo. Quella donna, quando il marito morì, disse: “Finalmente, sì finalmente è morto, comunque una battaglia sono riuscita a vincerla, perché sono riuscita a farlo dichiarare dopo tanti anni diciassettesima vittima della strage di Piazza Fontana”. L’intervista che le avevo fatto l’ho poi trasformata in un racconto, e quando lei l’ha letto è stata male, ha avuto un attacco cardiaco, perché non aveva mai parlato, non aveva mai raccontato a nessuno di questa sua storia terribile, e quando l’aveva vista nero su bianco, aveva realizzato che era stata davvero una storia terribile e non aveva retto.

 

Abbiamo bisogno di parlare, hanno bisogno di parlare soprattutto le vittime

 

E ancora ricordo il silenzio scelto così, come soluzione estrema, di protesta nei confronti di uno Stato che non riusciva a fare il proprio dovere di un genitore di una povera donna di Bari, che un giorno con l’intera famiglia aveva deciso di andare in vacanza non in macchina, perché in macchina era pericoloso, ma avevano deciso di andare in treno, stavano andando a Modena in treno e si sono fermati alla stazione di Bologna, ed erano scesi dal treno proprio nel momento in cui esplodeva la bomba. Alla donna morirono due figlie e una sorella incinta, e qualche tempo dopo il padre si suicidò gettandosi da un balcone, per protesta verso uno Stato che non riusciva a trovare i responsabili di quella strage, e dopo che li aveva trovati, processati e condannati, oggi noi sappiamo che con ogni probabilità sono perfino vittime di un errore giudiziario.

E infine ricordo il silenzio di un vostro corregionale, il silenzio, imposto da un ambiente ostile, di Adriano Sabbadin. Suo padre Lino è il macellaio, ucciso nel suo negozio in provincia di Venezia, a Santa Maria di Sala, proprio sotto gli occhi del figlio che aveva 17 anni. Io andai a trovarlo a casa, e lui non riusciva a parlare, non aveva mai incontrato una persona che gli avesse chiesto: “Adriano, mi vuoi raccontare che cosa ti è successo e come hai vissuto questa esperienza?”. Non riusciva a parlare, balbettava, l’intervista durò una giornata intera, e così, tirandogli fuori le parole a forza, è riuscito a raccontarmi una storia terribile di emarginazione sua e della sua famiglia da parte di una comunità che li aveva fatti sentire perfino in colpa, perché gli dicevano: “Se è morto, se è stato ucciso qualche cosa avrà fatto…”. Lui mi ha parlato della sua solitudine, della malattia, perché c’è anche una malattia professionale, il cancro che spesso colpisce le vittime e i loro famigliari. Adriano Sabbadin mi disse anche che per 27 anni non c’è stato nessuno in questo paese che gli abbia rivolto la parola, mai una volta che il 14 febbraio, giorno dell’assassinio del padre, il padre venisse commemorato con un fiore, una parola del sindaco, niente. E allora, qualche mese dopo l’uscita del libro, Adriano mi telefonò e mi invitò al suo paese, perché per la prima volta, il 14 di febbraio, il parroco e il sindaco avevano organizzato una commemorazione di suo padre. E io andai a Santa Maria di Sala, ci fu una commemorazione bellissima, c’era tutto il paese quel giorno, il parroco, il sindaco, tutti a battersi il pugno sul petto e a cospargersi il capo di cenere.

Ma l’esperienza che Adriano aveva vissuto, l’incapacità di entrare in rapporto con gli altri, aveva avuto anche un altro prezzo, lui in tutta la sua vita, da quando aveva 17 anni e gli avevano ammazzato il padre, non aveva mai avuto una donna, e aveva ora più di quarant’anni, mai avuto un rapporto con una donna, ma quel giorno mi chiamò e mi presentò una donna con un bambino in braccio, e mi spiegò: “Giovanni, aver fatto questo libro, essere riuscito a raccontare questa storia, mi ha permesso di tornare lentamente a una vita normale, ora mi sono sposato, ho un bambino. Alla fine, guardi, l’assassino di mio padre, Cesare Battisti (quello che poi scappò in Francia e venne coccolato da tutti gli intellettuali francesi) vuole sapere una cosa? Che Battisti oggi sia in galera o meno non me ne importa niente, mi basta soltanto che, se proprio deve andare in televisione, dica semplicemente: ho sbagliato, chiedo scusa alla famiglia di Adriano Sabbadin. Del resto non mi importa nulla, perché io finalmente sto tornando ad una vita normale, ho ritrovato la mia strada, riprendo a vivere dopo tanti anni di morte civile e di isolamento”.

Voglio concludere, tornando ancora una volta a questa iniziativa: abbiamo bisogno di parlare, hanno bisogno di parlare soprattutto le vittime, hanno bisogno di parlare anche gli autori di reati, hanno bisogno di parlare anche i famigliari dei detenuti, perché c’è un dramma, c’è una tragedia sommersa, nascosta, di cui nessuno parla, che è quella dei tanti famigliari che hanno figli o congiunti in galera, come anche i famigliari delle vittime dei terroristi o ex terroristi, c’è un dramma anche in quelle famiglie, vite spezzate, vite bruciate anche in quelle famiglie.

C’è bisogno di parlare di tutto questo, di rielaborare questa esperienza, per iniziare un percorso di guarigione, e io concludo allora ringraziando personalmente gli organizzatori di questa iniziativa, perché voi avete avuto il coraggio di fare oggi quello che in questo paese, per decenni, non sono riusciti a fare, non c’è riuscito il potere politico, non sono riuscite le istituzione dello Stato, non sono riusciti a farlo gli intellettuali, cioè tutti coloro che per mestiere avrebbero il dovere e l’obbligo di fare quello che voi avete fatto oggi. Grazie.

 

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