Giustizia riparativa

 

Che cosa accade quando si odia

Quella sottile linea rossa che unisce tutte le esperienze delle vittime

È la “perdita del prima”, è una perdita ontologica di un senso di fiducia nei confronti del mondo, che non ci sarà mai più, e su questo mai più, noi che ci occupiamo di giustizia riparativa cerchiamo invece di fare delle scommesse e di immaginare dei futuri credibili

 

di Adolfo Ceretti

Professore Straordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca e

Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano

 

Grazie, davvero grazie a tutte e a tutti. Sono emozionato ma felice di prendere la parola in questo contesto. A Ornella e ai componenti della Redazione di Ristretti Orizzonti voglio dire che “siete grandissimi” e che state facendo a tutti un grande dono, soprattutto a chi si occupa di mediazione reo-vittima – e io lo faccio da 14 anni insieme a tante persone che sono sedute intorno a questo tavolo e di fronte a me in questa sala. È un motivo di grande orgoglio sapere che questi temi iniziano ad avere delle ricadute così importanti.

Stavo commentando con Federica Brunelli, con la quale sono stato in Sud Africa nel 2006, invitato da alcuni componenti della Commissione per la Verità e la Riconciliazione in occasione della celebrazione dei 10 anni della sua istituzione, che noi oggi siamo seduti in una sala che ricorda tantissimo gli incontri della Commissione. Sono presenti vittime di reati di terrorismo, ci sono autori di reato e c’è un pubblico. Tutti insieme cerchiamo di capire, tutti insieme stiamo cercando di costruire un linguaggio capace di essere significante rispetto alle esperienze di vittimizzazione.

Vorrei partire da alcuni temi che chi mi conosce avrà ascoltato altre volte. C’è una sottile linea rossa che unisce tutte le esperienze delle vittime, e che riguarda sia chi subisce un furto di un portafogli sia chi è sopravvissuto ad Auschwitz, e questa sottile linea rossa consiste, a mio avviso, in ciò che ho definito “la perdita del prima”. Tutti voi, oggi, avete ascoltato Manlio Milani e Andrea Casalegno. Loro hanno parlato di questa “perdita del prima”, che consiste in una perdita ontologica della fiducia nei confronti di quel “mondo” che è capace di donare anche “sicurezza” e che loro hanno detto che non tornerà “mai più”. Su questo “mai più”, chi si occupa di “giustizia riparativa” cerca invece di investire, per creare le condizioni in cui rei e vittime possano iniziare a scommettere su dei futuri credibili – rispettando naturalmente le sensibilità di ogni persona coinvolta. Per accedere ai programmi di giustizia riparativa nessuno deve sentirsi forzato a fare nulla di quello che non si sente di fare. E allora si può cominciare a lavorare anche sul “senso di colpa”. Ne ha parlato Manlio Milani, per dire quello che ha provato e prova per essere sopravvissuto alla strage di Piazza della Loggia.

Il ricordo va qui a Yolande Mukagasana, una signora ruandese che ho incontrato in occasione di un Convegno che ho organizzato nel 2004 per ricordare i 10 anni del genocidio ruandese. Yolande è sopravvissuta, mentre suo marito e i suoi tre figli sono morti sotto i colpi di macete. Yolande ha provato a nominare, nel corso della sua Conferenza, e lo ha fatto con emozione, il dolore indicibile per la perdita delle persone a lei più care. Ha parlato della ferita ancora aperta e del senso di colpa che prova per essere sopravvissuta. Un aspetto che mi lascia stupefatto, ascoltando l’intervento di Manlio Milani – e non è la prima volta –, è che non riesco a cogliere neanche un atomo di rancore nelle sue parole, anche se il rancore è normale che accompagni la quotidianità delle vittime di reati così gravi.

Vorrei ora condividere con voi proprio una definizione del rancore, una definizione straordinaria, che ha fornito un ascoltatore radiofonico della BBC nel corso di una telefonata volta a testimoniare la sua esperienza di vittima. L’ascoltatore ha parlato di un sapore acre e disgustoso che diceva di portarsi dentro, di una rancidità, di un disgusto che continuava a tornare identico a se stesso, e al quale non riusciva a dare un nome. Invitato dal conduttore della trasmissione (questa citazione la trovate in un bel libro di Renato Rizzi, “Itinerari del rancore” pubblicato da Bollati Boringhieri) a spiegarsi, questo ascoltatore ha esclamato (cito a memoria): “Provare rancore è bere un veleno e aspettare che gli altri – i perpetratori – muoiano”. Provate a riflettere, a fare una conversazione interiore a partire da questa frase: io bevo un veleno e quindi ne subisco tutti gli effetti negativi, ma desidero che gli altri – i miei perpetratori – muoiano.

La giustizia riparativa ha quale obbiettivo – tra gli altri – quello di aiutare le vittime a rielaborare questo ri-sentimento. Ma come? Seguendo i percorsi che individualmente e/o collettivamente vittime e rei possono rinvenire insieme ai mediatori.

Veniamo dunque a riflettere sull’odio. Sono stato molto toccato dalle parole di Casalegno, perché rivelano consapevolezza ma difficoltà ad avviarsi a compiere quei passi che forse in un contesto come questo possiamo iniziare a proporre. Ciò non tocca – meglio: non sfiora – i contenuti del suo discorso, nel senso che non intervengo per contraddirlo o, peggio ancora, per correggerlo. L’ultima cosa al mondo che compete a un mediatore è quella di sovrapporsi alle parole di altri. Vorrei invece, insieme a lui e a voi tutti, cercare di capire che cosa accade quando si odia. Casalegno ha affermato che si può uccidere senza odiare, ed è proprio da qui che vorrei ripartire. Attualmente sto scrivendo con un mio giovane collega, che si chiama Lorenzo Natali, un libro che si intitolerà “Cosmologie violente”. Questo libro, in uno dei suoi capitoli, ricostruisce i “soliloqui” di alcuni autori di reati violenti, sondando quello che si dicono le persone violente quando commettono un reato violento, come si parlano, che cosa si raccontano, come autoriflettono rispetto a quello che stanno per fare, come si autogiustificano – perché è raro che questi delitti avvengano in una dimensione di non-pensiero.

E allora, che cosa è l’odio? Proveremo a rispondere insieme a Roberta De Monticelli, una filosofa molto attenta ai temi delle emozioni e dei sentimenti sociali, che l’odio è una disposizione che mira al cuore dell’odiato. Già, colpire al cuore… uno slogan tristemente noto. L’odiante sente l’altro come essenzialmente malevolo, l’odio identifica l’“altro” con questa volontà di male e punta al cuore, cioè al sentire che fonderebbe questo volere. L’odio – si sa – presuppone l’odio. Questo è un punto importante. Non c’è vero odio che come reazione all’odio. È molto curioso: non si odia mai per primi. Provate a riflettere… Se noi odiamo è perché qualcuno ci ha fatto del male. Ma allora dove inizia questa catena, perché qualcuno inizia a odiare, che cosa sta e che cosa avviene alla base di questo processo? Qui si fanno spazio discorsi del tipo: io lo odio perché lui è diabolico, perché lui è il diavolo. Come si può non odiare un Kapò nazista, come si può non odiare qualcuno che commette una strage? Ma letto a questo livello il problema diventa un gatto che si morde la coda, perché non riusciamo a rispondere alle domande che ci stiamo ponendo.

 

Per avere giustizia noi dobbiamo essere “contati per uno”

 

Per tentare di uscire da questo empasse dobbiamo chiederci come possiamo reagire a qualcuno che ci ha fatto del male. Possiamo reagire in tanti modi. Innanzitutto in modo rancoroso, smarrendoci e cominciando a chiederci: perché, perché io, perché è accaduto a me? Un’altra possibilità è quella di iniziare a negare, e dirsi che l’orrore che è accaduto è accaduto, ma non a me né ai miei cari. Si cerca, insomma, di prendere le distanze negando o diniegando. Ma la questione dell’altro inteso come diabolico torna e si riversa nuovamente su di noi. E allora dobbiamo prendere consapevolezza che dirsi che questa cosa non proviene da me, non proviene da noi e che lui è il diavolo e io sono chi ha subìto esige una risposta che non va individuata in categorie psichiatriche, psicoanalitiche, nella patologia, perché i reati violenti – noi criminologi lo sappiamo – non sono commessi in modo rilevante dalle persone che sono portatrici di disturbi psichici (questo è uno dei grandi miti che la criminologia degli ultimi quarant’anni ha contribuito a ridimensionare). Per rispondere, dunque, torno alle parole di Casalegno: che cosa precede l’odio di chi odia per primo? Questo è il punto. E la risposta appunto è che lo “sguardo di chi odia” non vede mai il volto di un “altro”. Detto altrimenti, come si può uccidere qualcuno che io non conosco? “Semplicemente” perché individuo nella mia vittima il fantasma di un universale. La vittima diviene un “universale personificato”.

Per spiegare questo pensiero difficile vi leggo una frase di Maurizio Puddu, che è stato Presidente dell’Associazione italiana Vittime del terrorismo, e che è riportata nel bellissimo libro/interviste di Giovanni Fasanella “I silenzi degli innocenti”: “Noi per loro eravamo politici, consiglieri, dirigenti senza volto, senza una identità specifica, ci odiavano soltanto perché democristiani, eravamo dei numeri per alzare la graduatoria dell’orrore. Quando le persone non sono contate per una, non c’è giustizia”. Ecco ben spiegato il concetto che vi stavo porgendo. L’odio ideologico si dà perché il nemico appartiene a un altro gruppo. E vi appartiene prima ancora che noi possiamo (ri)conoscerlo. Ciò contraddice un principio altamente connaturato alla “questione giustizia”, e cioè che per avere giustizia noi dobbiamo essere “contati per uno”. Sia rei che vittime. Se non siamo “contati per uno”, e quindi non abbiamo diritto di essere “riconosciuti” nel nostro ruolo di vittime (ma anche di rei) e come persone, non ci saranno mai verità e giustizia.

Il problema è che nel momento in cui si attivano certi meccanismi, le persone smettono di “contare per uno” gli altri, e iniziano a identificarli con coloro che chiamiamo “universali personificati”. Che cosa significa? Significa che iniziano a odiare una persona non necessariamente perché e “lei”, ma semplicemente perché appartiene a un gruppo diverso dal suo, altro dal suo. In un certo senso qualcosa di simile sta accadendo in Italia in questi giorni con i Rom… È qualcosa sulla quale occorre riflettere in profondità.

Di più. L’odio tende alla ripetizione, l’odio non ha oggetto perché nel suo darsi chi lo veicola sembra del tutto indifferente all’individualità: è come lo sguardo di Medusa, che paralizza. Questo sguardo precede il gesto di chi uccide. Ripensiamo alle parole di Casalegno e comprenderemo che l’incapacità di “sentire l’altro” quale “altro possibile di un dialogo”, l’impossibilità di “contarlo per uno” e di identificarlo, invece, quale soggetto autonomo che vive di vita propria pur appartenendo a un “universale”, fa sì che chi odia rivolga questo sentimento nei confronti delle categorie assiologiche del nemico.

Anni fa ho fatto una mediazione insieme ad alcuni collaboratori che sono in questa sala, Francesco Di Ciò per esempio. In mediazione sono venuti due skinhead e un ragazzo di un Centro sociale. I due skinhead avevano ferito con un coltello e preso a bastonate il ragazzo del Centro sociale: quando avvengono questi fatti sono sempre preceduti da forme di autoidentificazione globali di ciascuno con la propria comunità di appartenenza, che aiuta a giustificare ogni sorta di male – fino allo sterminio fisico – nei confronti dell’avversario – colui che si oppone al mio gruppo e, di conseguenza, alla mia identità comunitaria. Ecco, tale genere di “cancellazione” è quello su cui devono lavorare i mediatori. Se, da una parte, desideriamo lavorare sulla sofferenza delle vittime, per renderla meno intollerabile, per quanto riguarda gli autori di reati violenti è sull’“effetto di cancellazione” dell’“altro”, sulla cecità che precede il gesto deviante – la mancanza di una struttura che permette di accogliere l’“altro” quale “altro possibile” di una relazione – che occorre intervenire.

Chiudo ricordando ancora con De Monticelli che non solo chi odia per primo è sempre un “altro”, ma anche che chi odia per primo in realtà non odia, perché qualcosa di terribile è già avvenuto al suo sentire: il suo ritrarsi dal livello propriamente personale di apertura alla realtà, il suo chiudersi alla percezione dell’“altro” come tale.

La mediazione reo-vittima è uno spazio in cui incontrare gli altri, in cui gli altri possono diventare altri possibili di una relazione. La mediazione non è connotata da nessun buonismo perché nessuno pretende che tra i confliggenti debba scoppiare la pace… L’importante è che nei suoi spazi e tra i suoi attori si dia la possibilità di un “mutuo riconoscimento”. Vi ringrazio per avermi ascoltato, e a presto.

Le parole chiave della mediazione

Una giustizia che propone l’uso di “un ago per ricucire quello che si è rotto”

La giustizia riparativa prova a capire se esista un modo per “prendersi cura” di queste relazioni rotte, se esista la possibilità di occuparsi degli effetti negativi che queste fratture lasciano in tutte le persone coinvolte

 

di Federica Brunelli

mediatrice dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano

 e di DIKE Cooperativa per la mediazione dei conflitti

 

Mi occupo di mediazione, lo faccio a Milano insieme a un gruppo di persone, che si sono conosciute e sono “cresciute” insieme al professor Ceretti. Vorrei cercare di rimanere nel solco e nel clima della giornata, quindi cercare di parlarvi della mediazione mediante il linguaggio “del sensibile” che ci avete permesso di incontrare questa mattina, e non attraverso una lezione astratta e teorica.

Seguendo l’indicazione di Olga D’Antona, vorrei provare a individuare alcune parole chiave, che sono state pronunciate e utilizzate questa mattina, le quali incontrano perfettamente alcuni dei nodi tematici più importanti della mediazione e della giustizia riparativa.

La prima parola che vorrei proporvi è giustizia, attraverso il suo contrario, ingiustizia. Come è possibile trovare risposte significative alla domanda di giustizia che nasce da un’ingiustizia patita e commessa?

La giustizia riparativa, quale giustizia che ripara e che propone l’uso di “un ago per ricucire quello che si è rotto” con la commissione di un reato, è una giustizia che prova a lavorare in modo inedito sulle esperienze ingiuste; e la mediazione ne è strumento, lo strumento principale, perché presuppone l’incontro fra le persone. La giustizia riparativa propone di considerare il reato come abbiamo fatto noi, questa mattina: abbiamo capito che la commissione di un reato non si traduce semplicemente con “il violare una norma”, abbiamo capito - Manlio Milani ce l’ha spiegato bene - che il reato è un evento dopo il quale le persone perdono completamente “il senso delle relazioni con gli altri”. Il reato rompe delle relazioni importanti, dei patti fiduciari, e questo accade sia quando le persone si conoscono già prima del fatto, sia quando le persone si incontrano per la prima volta proprio con la commissione del reato.

Se ciò che si frattura è il senso della relazione con l’altro, la giustizia riparativa prova a capire se esista un modo per “prendersi cura” di queste relazioni rotte, se esista la possibilità di occuparsi degli effetti negativi che queste fratture lasciano in tutte le persone coinvolte: gli autori di reato, le vittime, le vittime secondarie (come i familiari degli autori di reato e delle vittime), la comunità; se esista, infine, la possibilità di ritrovare un significato delle relazioni con gli altri. È un modo per guardare dentro alle norme, per provare a far emergere la sostanza del bene giuridico protetto dalla norma penale, che è stato offeso.

Una seconda espressione che è emersa dalla riflessioni di stamattina riguarda il parlare con. Ancora Manlio Milani ci ha detto “sono pronto al dialogo”. Gli spazi di mediazione sono dei luoghi fisici e simbolici nei quali è possibile “prendere la parola”. Potremmo dire che la mediazione è fondamentalmente un’esperienza narrativa, uno spazio e un tempo per narrare la propria storia, insieme all’altro. Nelle definizioni internazionali del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite che descrivono e definiscono la mediazione, si ritrova costantemente un’espressione, che è “partecipare attivamente”. La mediazione viene sempre descritta come una procedura nella quale vittima e autore di reato, insieme alla comunità, partecipano attivamente alla risoluzione della questione emersa con l’illecito. “Partecipare attivamente” significa proprio, in primo luogo, avere la parola, avere restituita la possibilità di parlare. Nessuno parla al nostro posto nella mediazione, non vi è nessun linguaggio esperto che possa sostituirsi alla nostra parola. Dunque, un’esperienza molto diversa da quella che si sperimenta nei luoghi tradizionali della giustizia, come i tribunali.

 

La mediazione è un incontro di narrazioni

 

Ogni mediazione apre alla narrazione individuale (ogni incontro, fra l’altro, è sempre preceduto da colloqui individuali) ma soprattutto alla narrazione che avviene in uno spazio dialogico. Il punto decisivo è proprio questo: è l’incontro di narrazioni, lo scontro, l’intreccio, lo scambio di parole dell’uno e dell’altro a divenire fondamentale e a rappresentare un’opportunità di trasformazione. È l’io che narra di sé, che narra dell’altro, che è narrato dall’altro e viceversa l’altro che narra di sé e che narra di me.

Ma cosa si narra in mediazione? Che cosa raccontano le persone? Sono tanti anni che ci occupiamo di questo tema e in questo tempo abbiamo partecipato a tanti incontri di mediazione fra autori di reato e vittime.

Abbiamo ascoltato, sempre, il grande desiderio che le persone hanno di raccontare cosa è successo loro: non tanto i fatti, come sono andate le cose da un punto di vista oggettivo, quanto piuttosto la dimensione esistenziale legata ai fatti, i vissuti, i valori, la propria storia. Leggevo un libro, venendo in treno, “La promessa di Durrenmatt”, e nelle prime pagine c’è scritto che “un fatto non può mai tornare come torna un conto”, “c’è sempre qualcosa di incalcolabile - dice Durennmatt - di incommensurabile, che sfugge al conto. Il caso singolo resta sempre fuori dal conto”.

Ho pensato alla mediazione e a come chi vi partecipa non racconti mai semplicemente dei fatti precisi, ma piuttosto cerchi di rendere visibile l’incommensurabile, come incommensurabile è il fatto “che una mattina di maggio c’erano un uomo e una donna che si scambiavano un saluto con la mano, e quel saluto era un sogno di democrazia”. Questa è la “storia” che chi narra può sentire il bisogno di esprimere in uno spazio di mediazione.

Riprendo un’altra parola che è stata evocata molte volte oggi, la parola verità. Durante le mediazioni, ascoltiamo un grandissimo bisogno, una grandissima ricerca di verità, che significa il bisogno di dire la propria verità, ma anche ascoltarla dall’altro. La mediazione rappresenta uno spazio in cui ci si interroga, e in cui si può portare il nostro bisogno di sapere.

Questa tensione al sapere riguarda certamente i fatti, come sono andate le cose esattamente, con quale dinamica, dove sono le responsabilità, ma è anche un bisogno di comprensione che riguarda qualcosa di più profondo. Sempre Manlio Milani, questa mattina, ci ha detto che desidera capire “quali sono i meccanismi che portano una persona ad uccidere”; è forse questa domanda che riporta all’interrogativo di “chi eri tu? Quale era la tua situazione morale quando hai compiuto una scelta? Quale la tua condizione personale in quel momento?”. È una tensione alla conoscenza che riguarda il “chi è l’altro”.

 

Riconoscere l’altro non significa arrivare a riconoscere che l’altro è come noi

 

Un’altra parola importante è riconoscimento, strettamente legata alla parola responsabilità. I mediatori operano per facilitare percorsi di riconoscimento, e in questo lavoro la presenza dell’altro è decisiva, perché è a lui che io posso porre le mie domande fondamentali, ed è solo l’altro che può dare una risposta, ed è incontrando le risposte dell’altro che io posso misurare la sua verità. L’incontro con l’altro è l’incontro con il suo volto.

In mediazione non si può più far finta che l’altro non esista, perché c’è, è presente e si manifesta come persona, in quanto volto. Riconoscere l’altro non significa arrivare a riconoscere che l’altro è come noi (questo punto è emerso con chiarezza nell’intervento del professor Ceretti questa mattina), riconoscere l’altro significa poter avere uno spazio per sancire le differenze, per far sì che l’alterità di ciascuno possa manifestarsi, un’alterità che spesso è irriducibile, è incomprimibile all’altro; avere uno spazio per pensare che l’altro possa essere un altro possibile rispetto a me. L’incontro con il volto dell’altro ha a che fare con la responsabilità in modo profondo. Chiamare ciascuno alla responsabilità dell’altro fa capire perché la mediazione sia un’attività molto faticosa, molto impegnativa, per nulla buonista, per nulla indulgenziale. Prendo in prestito un’espressione di Adolfo Ceretti: il diverso sguardo a cui apre la giustizia riparativa riguarda anche la possibilità di considerare che la “responsabilità non sia soltanto per qualcosa, ma la responsabilità, che nasce durante un incontro di mediazione, sia una responsabilità verso un’altra persona”.

Chi è il mediatore? Non è un giudice, chiamato a decidere chi ha torto e chi ha ragione, a esaminare l’oggettività dei fatti, ma partendo dai fatti e dai ruoli che la legge ha assegnato a ciascuna parte (autore di reato/vittima) il mediatore prova ad aprire all’incontro fra “persone”.

Egli è un terzo equiprossimo, come afferma Eligio Resta, capace di essere vicino a tutte le parti, essere l’uno e l’altro allo stesso tempo. Una posizione diversa da quella del giudice, dalla sua neutralità, dal suo essere necessariamente né l’uno né l’altro. Il mediatore prova ad avvicinarsi a entrambe le persone, non come “tecnico” della comunicazione, ma partecipando all’esperienza dell’incontro.

L’ultima parola, anzi la penultima, che volevo proporvi è la parola riparazione.

Non nomino il perdono perché poche volte durante gli incontri di mediazione abbiamo ascoltato le parti pronunciare questo termine e ne abbiamo tematizzato il senso.

Molto più spesso ricorrono le parole comprensione, riparazione, trasformazione.

La riparazione che nasce da una mediazione non ha niente a che vedere con una compensazione, con il mero risarcimento economico. Per cercare di definire cosa sia la riparazione potremmo dire che essa consiste in “qualsiasi gesto che possa testimoniare che è avvenuto un riconoscimento fra le persone, un cambio di percezione fra loro, la disponibilità a costruire qualche cosa per il futuro”. Concretamente le proposte riparative che abbiamo incontrato hanno assunto varie forme: lo scambio di scuse sincero, un abbraccio, fare qualcosa per l’altro, fare qualcosa insieme, fare qualcosa per la comunità, scambiarsi una promessa di rispetto per il futuro; in alcuni casi è stato l’incontro di mediazione in sé ad essere sufficiente per le parti, altre volte l’esito è consistito nella definizione di regole per il futuro; la riparazione è sempre riparazione simbolica, perché “sta” per qualcos’altro, per un avvenuto riconoscimento e poche volte gli interessati hanno desiderato che si traducesse in forme dal contenuto economico, in una somma di denaro.

Provare a individuare una riparazione significa provare a lavorare per una trasformazione.

La trasformazione non riguarda il poter trasformare quello che è successo, perché sappiamo che qualunque esperienza di ingiustizia, una volta commessa, non può più essere eliminata, è iscritta nella storia una volta per tutte, e non ci può essere niente, nemmeno un’ottima mediazione, che la possa cancellare.

Ciò che si può provare a fare è vedere se è possibile trasformare il vissuto di ciascuno rispetto a quello che è successo. Significa non rimanere per sempre inchiodati in un punto, cominciare - come ci ha spiegato Olga D’Antona - a uscire dall’immobilità di un ruolo, che ci tiene fermi, in una specie di tempo perenne che non si evolve mai. La trasformazione riguarda la possibilità di immaginare qualcosa per il futuro, immaginare se esista la possibilità che in questo futuro sia compreso anche l’altro, e non ne sia escluso. La parola consenso è la parola con la quale desidero chiudere questo intervento. Questa è una parola importante per i mediatori.

La mediazione non può essere imposta, ha senso solo se è consensuale quindi solo se le persone possono scegliere di parteciparvi. Ed è consensuale anche nel suo svolgimento, perché tutto ciò che si fa in mediazione nasce da un consenso. Questa prospettiva vale certamente anche per la riparazione, che ha un significato se è frutto di una costruzione volontaria.

Per questa ragione cosa occorre fare per riparare non è mai stabilito dal mediatore, che lavora non a partire da percorsi già tracciati in anticipo, ma è deciso solo dagli interessati; deve poter essere qualcosa di significativo per loro, per entrambi e per questa ragione le riparazioni assumono spesso delle forme inedite, inimmaginabili all’inizio del percorso. La riparazione che nasce dal consenso può durare nel tempo, perché è veramente frutto di una scelta e non di un’imposizione. Grazie.

Il ruolo “forte” del volontariato

La comunità può essere un facilitatore del contatto, del confronto e del dialogo

Il volontariato può occuparsi anche di chi, toccato duramente dal reato, si è sentito solo, si è sentito non sufficientemente compreso, a volte neppure ascoltato

 

di Carlo Alberto Romano

docente di Criminologia all’Università di Brescia, presidente

dell’associazione di volontariato “Carcere e territorio” di Brescia

 

Una rapida analisi del ruolo narrativo che potrei giocare io oggi, e dell’utilità delle mie parole rispetto a quelle di chi mi ha preceduto, mi porta a pensare che io oggi sia l’autista di Manlio Milani e di Giuseppe Soffiantini, e forse dovrei non aggiungere altro e rimanere in quel ruolo, di per sé per altro apprezzabilissimo, perché condividere due ore di viaggio con Milani e Soffiantini è per me un momento di crescita notevole; in più c’è anche il ritorno, quindi sono davvero fortunato.

In realtà credo che in qualche modo, sempre giocando su questa rappresentazione, qualche riflessione ulteriore potrei lanciarla, e cioè forse è proprio vero che io sono un autista con un preciso compito in questo senso, con un compito come docente universitario, con un compito come responsabile di una associazione del privato sociale, fortemente radicata sul territorio e quindi fortemente in grado di proporre qualcosa al territorio.

Vedete, e ancora una volta vi chiedo di costruire una immagine insieme a me, peraltro già in qualche modo evocata da Adolfo Ceretti questa mattina, guardiamo questa sala e guardiamo cosa ci ricorda: a me, questa sala ha ricordato fortemente quale può essere il ruolo della comunità e del volontariato, là i detenuti, dietro una sbarra, una solita e solida sbarra che evidentemente non hanno chiesto loro ma che anche oggi li separa da noi, qui le persone che hanno parlato portando le loro testimonianze come vittime, avviluppandoci nel valore narrativo delle loro parole, e in mezzo noi, noi con le nostre resistenze, le nostre capacità, i nostri vissuti, il nostro inserimento sul territorio.

Ebbene, la comunità può essere un cuscinetto fra questi due elementi della diade autore/vittima, un cuscinetto che attutisce le parole, che possono rimbalzare, possono trovare interlocuzione, o possono limitarsi ad una semplice superficialità, oppure la comunità può essere un volano, può essere un propulsore, può essere un acceleratore, può essere un facilitatore del contatto, del confronto e del dialogo. Eviterò, dopo gli autorevoli interventi che mi hanno preceduto, di dissertare ulteriormente su quali possano essere nell’ambito della giustizia riparativa, gli interventi più opportuni; sono convinto che qualcosa si possa fare, e lo si possa fare in ambito comunitario.

Il volontariato, a mio parere, deve giocare un ruolo di tramite in queste iniziative, e lo può fare occupandosi sia degli autori di reato, soprattutto con riferimento a quelle sfaccettature di sofferenza della loro esecuzione penale che non sono previste dalla Costituzione e dalla nostra legge, ma così tenacemente diffuse nel nostro sistema penitenziario e sulle quali dobbiamo agire per fare in modo che tali sofferenze non si riverberino ulteriormente nei confronti di quei totalmente innocenti che sono i loro famigliari; ciò è perseguibile mediante la tutela dell’affettività e della genitorialità, l’implemento della formazione, e dell’inserimento lavorativo, tutti problemi la cui soluzione da sempre abbiamo delegato all’Amministrazione penitenziaria, quando sapevamo benissimo che l’amministrazione penitenziaria da sola non poteva essere esaustiva da questo punto di vista.

Inoltre il volontariato può occuparsi anche di chi, toccato duramente dal reato, si è sentito solo, si è sentito non sufficientemente compreso, a volte neppure ascoltato.

La signora D’Antona ha detto: un ponte, cerco un ponte… chi può fare il ponte? La comunità deve fare il ponte, e deve farlo sapendo coinvolgere tutti gli attori sociali, comprese istituzioni, cooperazione, associazionismo, scuola e università. Due autorevoli colleghi, certamente più autorevoli di me, siedono a questo tavolo, ma io chiedo loro, cosa fanno le Università da questo punto di vista, al di là degli interessi personali di qualcuno di noi, quanti sono i filoni di ricerca che troviamo su questo punto? Che capacità abbiamo di attrarre interesse, sviluppare ricerche, esportare conoscenza sul rapporto autore/vittima e sulle modalità di gestirlo in ambito comunitario?

Anche le istituzioni il più delle volte fanno interventi limitati, pochi euro per le vittime dei reati patrimoniali, certamente un aiuto ma non è di questo che dobbiamo accontentarci.

Dobbiamo chiedere di sederci ad uno stesso tavolo e di discutere di quanto abbiamo sentito dire magnificamente oggi, dobbiamo individuare percorsi di reciproca conoscenza, che non necessariamente portino ad una soluzione definitiva (non deve scoppiare la pace, come diceva giustamente Adolfo Ceretti) ma che non lascino neppure restare tutti nell’indifferenza reciproca, nascondendoci dietro alle diversità di ruoli, obiettivi e modelli.

Il problema esiste è ed sempre stato sottaciuto; ora che in qualche modo è riuscito ad emergere, credo che il nostro compito sia quello di sviluppare iniziative progettuali a favore di autori e vittime di reato, nascenti a seguito di un attento studio delle caratteristiche del nostro territorio relativamente alle vicende di criminalità che si susseguono quotidianamente. Vi è ad esempio una diffusa percezione di insicurezza sociale che, pur apparendo talvolta sovradimensionata rispetto alla realtà oggettiva considerata, necessita comunque di una risposta.

È inoltre evidente che la vittima da sempre vive una condizione di minor attenzione da un punto di vista normativo, sociale e valoriale rispetto agli altri protagonisti dello scenario delittuoso. Ciò ha ingenerato nelle vittime stesse e nelle loro reti di relazione un crescente sentimento di sfiducia nelle istituzioni e nelle capacità di intervento delle stesse.

Appare quindi opportuno pensare di avviare ipotesi progettuali che tentino di presentare sul territorio azioni di intervento concreto a favore delle persone che hanno subito una sofferenza conseguente ad un reato, i cui tratti salienti potrebbero essere:

apertura di sportelli o centri di supporto/ascolto anche non permanenti gestiti da personale volontario adeguatamente formato;

costruzione di una rete di connessioni con tutte le realtà istituzionali e del privato sociale che possano fornire un’apprezzabile contributo alla gestione delle problematiche conseguenti ad un processo di vittimizzazione;

collaborazione con le Università per la supervisione dei percorsi di assistenza e di mediazione sociale;

gestione sinergica con i servizi sociali degli enti istituzionali locali dei casi maggiormente rappresentativi del disagio conseguente alla sofferenza espressa dal reato, in particolare appare imprescindibile la collaborazione con Provincia, Comune, ASL, uffici giudiziari, forze dell’ordine e servizi del Ministero della Giutizia minorili e per adulti, istituti scolastici e altre realtà che tutelano le vittime di reato a diverso titolo;

promozione e sensibilizzazione della comunità sulle tematiche inerenti alle vittime di reato e ai processi di vittimizzazione.

Questo compito propulsivo riguarderebbe aspetti che il volontariato è in grado di affrontare in autonomia, soprattutto avendo come obiettivo principale quello di coinvolgere le parti sociali che tendono a disinteressarsi del problema o a pensare che sia sempre compito di qualcun altro affrontarlo. Sapessimo fare questo credo che per il volontariato sarebbe già fare molto.

L’esperienza riparativa può evitare la condanna?

La mediazione come forma alternativa alla pena

Il nodo vero della questione è se la condanna deve intervenire prima del processo mediatorio, o può essere evitata dall’esperienza riparativa

 

di Giuseppe Mosconi

docente di Sociologia del diritto, Università di Padova

 

Grazie a tutti per essere presenti a questo importante incontro e per il coinvolgimento che si respira in temi che sono davvero insoliti, rispetto soprattutto al clima attuale che aleggia attorno a questi problemi e a questo tipo di discorsi. Io vorrei riprendere un passaggio che trovo pregnante dell’intervento di Adolfo Ceretti, quando ha detto che con l’odio si combatte il fantasma di un universale, e che quindi il primo passo di una catena non interrompibile spesso muove da una scelta che non passa attraverso la conoscenza diretta della persona, ma si scontra con una rappresentazione astratta, generale che si rigetta. Ecco io credo che questa astrazione deformante sottenda, anche storicamente, l’idea del castigo e della punizione; quando cioè si punisce in astratto per la semplice violazione di un principio, mentre si colpisce concretamente una persona, più o meno inconsapevolmente. Se risaliamo alle radici storiche della pena, alla filosofia che la ispira, questo può facilmente emergere, ed è riferibile al fatto che la sofferenza inflitta alla persona è la reazione alla violazione che la persona rappresenta di un universale, di un bene giuridico tutelato in astratto, che non si vede riparabile in un altro modo se non attraverso una sorta di afflizione vendicativa. Dunque un’onda lunga di quella che è la radice culturale della vendetta. Su questo credo sia necessario riflettere, nel momento in cui si vuole affrontare e sviluppare un discorso, che vada a fondo sulla questione della riparazione.

Voglio subito mettere in rapporto tra loro altri due passaggi che mi hanno particolarmente colpito nei discorsi di oggi. Uno è quello della signora D’Antona, che diceva appunto che a lei non interessa tanto la sofferenza di chi ha violato la legge, quanto il fatto che questa persona riscopra, e si riappropri di quella parte positiva di sé, messa in crisi dalla sua parte negativa, in un conflitto che in fondo attraversa chiunque di noi; questo recupero della parte positiva, diceva ancora, segna la vittoria della società sul reato, la vittoria della società sul male. Ancora mi sembra importante quello che diceva Federica Brunelli, a proposito dell’importanza del consenso. Senza consenso non c’è per gli attori coinvolti in un processo mediatorio possibilità di successo, maturità, crescita, approfondimento. Ora noi ci troviamo, mettendo insieme questi elementi, di fronte ad una raffigurazione del come pensare una riparazione, del come gestire una riparazione, che non può non porci in termini di alternativa profonda, radicale, di fronte al fatto che questa avvenga prima o dopo una condanna penale. Assume quindi cruciale importanza il fatto che si disegni uno spazio, libero, dinamico, approfondito, in cui le due persone coinvolte, sono due persone, che hanno attraversato da punti di vista, da ruoli diversi questa esperienza a volte terribile, e che in questo senso si confrontano senza che sia avvenuto un giudizio, una definizione un etichettamento da parte di un intervento istituzionale, sulle loro persone.

 

Ma quale sarà la vittima del reato di immigrazione clandestina, o la vittima del reato di mendicità?

 

Certamente i discorsi che noi abbiamo sentito oggi vengono da esperienze particolarmente drammatiche, particolarmente cruente, e che pongono in termini appunto estremamente intensi, anche dal punto di vista emotivo, la presenza o meno di un giudizio, la presenza o meno di una condanna, però noi dobbiamo guardare anche alla normalità, diciamo così quotidiana, del comportamento illegale, cioè della piccola, o più o meno tale, criminalità, così detta corrente, quella che affolla le nostre carceri, che sta tornando a riaffollarle, dopo la breve parentesi del post indulto. Essa vede come protagonisti persone che spesso compiono attività illegali senza vittime, o con vittime non così ferite, o non così colpite emotivamente da quanto è avvenuto, e c’è tutto un universo, una dimensione in cui certamente c’è una relazionalità tra soggetti, attorno all’episodio illecito, attorno alla violazione della legge, in cui è possibile valutare l’effettiva dannosità sociale di un comportamento in relazione alle persone concretamente coinvolte, ma in cui le soluzioni non si presentano, se viste sotto questo profilo, così drammatiche, o così inarrivabili. Riusciremo a immaginarci quale sarà, rovesciando adesso il discorso per paradosso, la vittima del reato di immigrazione clandestina, o la vittima del reato di mendicità? Dunque mi sentirò vittima quando un mendicante tenderà la mano, o magari sarò io il primo a cercare la sua attenzione per riuscire a dargli qualcosa di cui penso abbia bisogno?

Ci sono delle situazioni che la concretezza della realtà sociale porta in termini di normalità, o di accettabilità, o comunque di gestibilità corrente, senza eccessivi conflitti e scontri, che la società può benissimo gestire, senza ricorrere all’afflizione, senza ricorrere alla condanna. Ma questa idea che ponevo prima è importante: la condanna deve intervenire prima del processo mediatorio, o può essere evitata dall’esperienza riparativa? Credo che sia un’alternativa determinante, perché il rapporto tra le persone, e ciò che le persone diventano non sono la stessa cosa, se la condanna sia intervenuta o non sia intervenuta. E se proprio vogliamo ritenere che il rapporto tra le persone sia più facile, più libero, più fluido, più sincero, più spontaneo, più condiviso, è necessario prevenire la frapposizione di questa rigida e astratta condanna che viene dal fatto che si considera il comportamento di un uomo come lesivo di un universo astratto, di un fantasma universale, come ho detto all’inizio richiamando Ceretti. Solo in questo caso ritengo che sia molto più praticabile, e molto più ottenibile un risultato profondo, sicuro, e stabile, che riconosca le persone per quello che effettivamente sono.

Al contrario una mediazione che intervenga dopo la condanna, e che si disegni come una aggiunta di afflizione, di espiazione, per raggiungere la riabilitazione, è a rischio di strumentalità e di scarsa sincerità, ma è anche quel tipo di riparazione che risveglia la vittima ad una esperienza e ad un coinvolgimento che aveva già allontanato e rimosso, come pure si diceva questa mattina.

Ecco io sono sinceramente preoccupato del fatto che nella nostra legislazione, e nella nostra giurisprudenza, tenda a prevalere questo secondo orientamento, rispetto al primo, e che si parli di giustizia riparativa in fondo come misura accessoria a una forma di sanzione, per quanto, almeno per un certo periodo, alternativa al carcere, ma che si aggiunge alla sanzione penale già irrogata, già pronunciata. Credo che questo non vada nella direzione voluta dai testi internazionali, dai documenti del Consiglio d’Europa, o delle Nazioni Unite, che auspicano la mediazione come forma alternativa alla pena tenendo conto soprattutto, e del sovraffollamento delle carceri e delle deformazioni che la punizione, quantomeno prolungata, determina nella vita delle persone. Quindi ritengo che molti discorsi che abbiamo sentito oggi, vadano immaginati non solo nella drammaticità dei casi, che sono stati così efficacemente presentati, e che ritengo costituiscono una importantissima occasione di riflessione per tutti, ma visti più nella dimensione corrente, del tipo di illegalità che affolla le nostre carceri, e che nel clima che stiamo attraversando è inevitabilmente destinata ad affollarle ancora di più e in modo drammaticamente immotivato.

Dopo il 23 maggio: poche certezze, molti interrogativi

Il dolore che c’è “fuori” è entrato “dentro”

L’ascolto di chi ha sofferto e soffre è fondamentale per noi volontari e

per i detenuti, vale più di qualsiasi galera ai fini della rieducazione

 

di Rosanna Tosi

professore ordinario di Diritto Costituzionale, volontaria

al Polo Universitario della Casa di reclusione di Padova

 

Il convegno del 23 maggio è stato diverso da ogni altro: un’esperienza di crescita umana davvero rara.

L’ascolto delle vittime (nella gran parte dei casi dei parenti delle vittime) è una cosa che mi ha colpito a fondo, che non ho ancora del tutto elaborato e chissà se riuscirò mai a farlo completamente. Il dolore che c’è “fuori” è entrato “dentro”, chi ha provocato quel dolore o altro simile lo ha visto e sentito nelle parole, negli sguardi, nella rabbia, nei rimpianti, nelle difficoltà di chi quel dolore ha patito. Sono convinta che l’ascolto di chi ha sofferto e soffre sia fondamentale per noi volontari e per i detenuti, che valga più di qualsiasi galera ai fini della rieducazione. Se considero questa una certezza, il convegno me ne ha lasciato poche altre, mentre è lungo l’elenco dei punti sui quali mi interrogo.

Il convegno non ha cambiato la mia opinione sulla posizione delle vittime rispetto al processo: continuo, cioè, a pensare che non sia in tale sede che ad esse debba essere riconosciuto uno spazio maggiore rispetto a quello che oggi si vedono assegnato. Il processo penale deve mantenere intatta la sua valenza pubblicistica, poiché il bene che protegge è un bene dell’intera società. Né – credo – il punto di vista delle vittime può assumere rilievo nell’esecuzione della pena, nella valutazione dell’accesso ai benefici da parte del condannato; pensare diversamente equivarrebbe a lasciare che la sanzione penale sia influenzata dai sentimenti delle vittime, con conseguenze tutte negative, anche sul piano dell’eguaglianza: c’è chi perdona, chi odia, chi è indifferente al numero degli anni di galera scontati dal reo, sentimenti diversi e tutti comprensibili finché non conducono a disparità di trattamento tra condannati.

È fuori dal meccanismo processo\sanzione che le vittime devono trovare risposte più adeguate, in un maggiore sostegno da parte dello Stato e dentro la società, giustificato dal fatto che accanto alla responsabilità individuale (quella di chi ha commesso il reato) esiste una responsabilità collettiva. Il sostegno si deve esprimere su piani diversi: sostegno economico, quando il risarcimento si riveli insufficiente, sostegno psicologico, per la ricostruzione di un percorso di vita dopo il dramma; oltre agli interventi che dovrebbero essere erogati dall’apparato pubblico, penso anche ad un sostegno diffuso negli incontri quotidiani, nella rete di relazioni di cui la vita di ciascuno è intessuta, ma anche su questo versante le cose non vanno bene. Olga D’Antona ce lo ha comunicato molto efficacemente: siamo impoveriti, non sappiamo entrare in relazione con il dolore, la sofferenza altrui ci spaventa e allora preferiamo ignorarla o banalizzarla.

La questione da cui muovono gli interrogativi per i quali mi pare sia ancora necessaria una riflessione è quella degli strumenti capaci di dare spazio all’ascolto delle vittime. È chiaro che si pensa subito alla mediazione penale e, infatti, se ne è parlato nel corso dello stesso convegno. Rimango, tuttavia, con molti dubbi.

 

Può funzionare la mediazione penale per i casi di reati gravissimi?

 

Può funzionare la mediazione penale per i casi di reati gravissimi? Solo per evidenziare una delle difficoltà che vedo, ricordo che la maggior parte degli omicidi si compie tra le mura domestiche: qui allora i parenti della vittima sono i parenti del reo, magari i figli. È il caso di parlare di mediazione penale o non siamo piuttosto in un’area dove occorre un ausilio psicologico per valutare l’opportunità di riprendere e coltivare relazioni parentali? Mi risulta difficile immaginare che le due cose possano sovrapporsi. E ancora: sempre nel caso di reati gravi (la morte di una persona cara, il danno prodotto da lesioni gravissime), l’elaborazione della vicenda da parte della vittima può richiedere un distanziamento che verrebbe interrotto dall’incontro con il reo; si dirà che la mediazione penale è sempre volontaria, ma il carico di una risposta negativa starà sulle spalle della vittima aggiungendosi come ulteriore sofferenza.

E il detenuto sarebbe davvero libero di rifiutare la mediazione penale, quando poi da quel rifiuto potrebbero essere tratte valutazioni circa il grado del suo ravvedimento? Accade che l’omicidio – penso ancora a quello all’interno delle famiglie – sia l’approdo aberrante di vite tormentate, e sarebbe ben comprensibile allora che il condannato rifiuti l’incontro con chi – a torto o a ragione – ritiene abbia concorso a creare quei tormenti.

Spostando l’attenzione su altro versante, mi pare che la mediazione penale non potrebbe realizzarsi, almeno non nei modi consueti, nei casi di reati a vittima indeterminata, quale il traffico di droga, ma, oltre a questo, moltissimi altri, i reati contro l’ambiente, le frodi alimentari, i reati finanziari, il che rischierebbe di oscurare – più di quanto già sia – il danno sociale che quei reati producono.

Non ho né la competenza né l’immaginazione per abbozzare una risposta agli interrogativi e ai dubbi che il tema del convegno ha sollevato. Ma qualche indicazione di percorso per continuare la ricerca forse si può intravedere. In primo luogo credo che gli strumenti per dare ascolto al dolore delle vittime richiedano di essere differenziati in relazione al tipo di reato: non si può immaginare che possa essere utilizzato lo stesso strumento per i casi di stupro e quelli di bancarotta fraudolenta. Se questo è vero, si può pensare che in talune circostanze sia necessario distanziare, in altre avvicinare. Intendo dire che, quando il danno subito dalla vittima è altissimo ed immediatamente correlato all’autore del reato (come – per fare un unico esempio – nel caso di stupro), probabilmente è preferibile evitare il contatto diretto tra autore e vittima di quello specifico reato, e cercare canali di comunicazione della sofferenza prodotta tramite la conoscenza di vicende analoghe. Nei casi invece di reati a vittima indeterminata occorre avvicinare l’autore del reato alle conseguenze concrete dei suoi comportamenti, che gli sia rappresentato in modo tangibile il danno conseguente alla violazione della norma penale.

Il convegno del 23 maggio ha dato avvio ad una riflessione importante e difficile; sono certa che Ristretti Orizzonti la saprà accompagnare con attenzione nei suoi sviluppi.

Un bisogno grande e disperato di legalità

Quando la società si interroga su quel bene raro e atteso che è la giustizia

L’incontro con le vittime dei reati ha fornito alcune delle parole utili

alla risposta alla difficile domanda del rapporto tra giustizia e legalità

 

di Giovanni Tamburino

Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia

 

Le attività sviluppate da anni nel contesto della redazione di Ristretti Orizzonti hanno identificato nel tema-legalità l’asse portante di un’idea declinata in un complesso di riflessioni ed iniziative. Una di queste ultime è stata il rapporto con alcune scuole finalizzato a trasmettere, attraverso la voce di chi ha fatto talune scelte sbagliate, criteri di giudizio relativi al significato della legalità. Agli allievi vengono dati strumenti per capire meglio l’importanza delle regole sociali, la cui accettazione contribuisce alla sicurezza più delle nozioni di controllo e minaccia. Legalità significa rispetto dell’altro. Significa riconoscimento delle relazioni personali. Nel nostro Paese c’è un bisogno grande e disperato di legalità dinanzi ad atteggiamenti di arroganza e alla presentazione, anche da parte di personaggi dotati di importanti posizioni istituzionali, del successo come obiettivo da cercare ad ogni costo, sia pure con l’imbroglio e la corruzione. Mi è sembrato perciò quanto mai apprezzabile che alcuni detenuti abbiano trovato la forza d’animo di incontrare i giovani ponendosi al servizio di un obiettivo di recupero di legalità. La loro testimonianza, fondata sull’esperienza dell’errore e delle sue conseguenze, possiede una capacità di convinzione che può essere maggiore di quella proveniente dalle fonti ufficiali, perché è nota la tendenza dei giovani – d’altronde non senza motivo - di assumere posizioni di contestazione nei confronti del mondo preconfezionato degli adulti.

L’iniziativa di riunire le vittime dei reati in un incontro che si è svolto nel carcere di Padova il 23 maggio scorso rappresenta un passo ulteriore nel percorso di ricostruzione personale e sociale perseguito da Ristretti Orizzonti. Un passo che ha abbattuto con coraggio e “senso profetico” un’altra delle barriere che rischiano di tenere il carcere separato dalla parte della società che tenta di affrontare i problemi della pena.

Centinaia di persone hanno ascoltato la voce delle vittime: parenti di persone uccise da autori di gesti di terrorismo, figli e figlie, congiunti o vittime dirette, che da un tragico giorno, talora lontano decenni, non sono più le stesse e vivono soffrendo, ricordando e interrogandosi. Tra queste centinaia di persone, i detenuti che hanno voluto e organizzato l’incontro. Al di là dei momenti di commozione, così profonda che nessuno potrà dimenticarla, l’incontro è stato importante perché ci si è posti in relazione con una realtà che induce ad affrontare il problema della giustizia, oltre la stessa legalità.

Sappiamo quanto è difficile rispondere alla domanda che cosa sia la giustizia. Eppure sentiamo, e lo sperimentiamo storicamente, che la legalità non esaurisce l’idea di giustizia, perché non ogni legalità realizza la giustizia. L’incontro con le vittime dei reati ha fornito alcune delle parole utili alla risposta alla difficile domanda del rapporto tra giustizia e legalità. Chi ha parlato – avvertendoci che la stessa classificazione di “vittima” è inadeguata: “sono una persona come gli altri”, ha detto Casalegno – ci ha fatto capire che la scelta di legalità è importante in quanto comporta il rifiuto della sofferenza inutile, della violenza irreparabile, della sproporzione dei valori di chi uccide per denaro o per una ideologia elevata a idolo. Ecco esemplificata e testimoniata la giustizia che fonda la legalità.

La grande palestra del carcere di Padova ha trovato quel mattino ciò che ci aiuta a pensare la giustizia. Mi sembra un passo nella buona direzione, che consentirà ulteriori avanzamenti di maturazione e non dovrà avere regressioni. Le persone che ascoltavano o parlavano, erano tutti, pur nelle diverse condizioni di detenuti operatori o vittime, la stessa società che si interrogava e trovava alcune parole di risposta su quel bene raro e atteso che è la giustizia.

La posizione professionale dei Magistrati di Sorveglianza

Il convegno più bello

Un convegno che ha sollevato molti interrogativi, e uno in particolare: in presenza di un condannato che ha intrapreso un cammino di autentica revisione critica, quanto debbono incidere sulla decisione del magistrato l’enormità del male commesso, la quantità di dolore provocato, la gravità dei danni subiti dalla vittima?

 

di Giovanni Maria Pavarin

Magistrato di Sorveglianza di Padova

 

È stato davvero inutile l’invito a osservare il massimo silenzio nel corso dei lavori, rivolto a inizio giornata da Ornella Favero ai numerosissimi partecipanti alla giornata nazionale di studi “Sto imparando a non odiare”, tenutasi il 23 maggio 2008 nella mai così affollata palestra della Casa di reclusione di Padova: silenzio assoluto, attenzione tesa allo spasimo e autentica commozione interiore hanno infatti caratterizzato l’audizione dei notevolissimi contributi offerti da una rappresentanza di vittime di reato che oggi possono essere definite “eccellenti” non tanto per la notorietà delle vicende che le hanno viste coinvolte, quanto piuttosto per l’altissimo spessore umano dei loro interventi, che hanno subito catturato l’attenzione - che ho avvertito del tutto vera ed autentica - loro dedicata dai numerosi autori di reati presenti.

Non c’è nulla di uguale nelle parole via via pronunciate da Andrea Casalegno, Olga D’Antona, Silvia Giralucci, Manlio Milani e Giuseppe Soffiantini: hanno raccontato le storie delle vittime di alcuni tra i reati più gravi ed eclatanti commessi in Italia negli ultimi decenni, ai quali ognuno di loro ha reagito a modo suo, dando però conto delle ragioni che le hanno portate a condividere una giornata a contatto con i detenuti della Casa di reclusione di Padova.

Tra quanti incontri, dibattiti, convegni e conferenze cui in questi anni mi sia capitato di partecipare, questo è stato in assoluto quello del quale conserverò il ricordo più bello. Ed è naturale, credo, che ciò sia avvenuto. Anzitutto per l’assoluta centralità del tema proposto, a lungo preparato dagli stessi detenuti che ne hanno fatto oggetto di approfondito dibattito all’interno della redazione di Ristretti (v. n. 2/ 2008, pag. 1 ss.).

E poi perché uno degli aspetti più pregnanti - che finisce per coincidere col significato stesso della pena - riguarda proprio la riflessione che il condannato deve avere il coraggio di intraprendere sulle proprie condotte antigiuridiche in relazione alle conseguenze negative prodotte sulle vittime.

Scrive Graziano Scialpi a pagina 27 dell’ultimo numero di questo giornale: “…un passo fondamentale, a mio parere, sarebbe favorire il confronto tra le vittime e gli autori dei reati. Perché, nella mia ormai decennale esperienza carceraria, sono giunto alla ferma conclusione che, salvo rare eccezioni, solo questo tipo di confronto può portare ad una vera svolta, a quella rieducazione auspicata dall’articolo 27 della Costituzione. Se questo confronto può essere utile alla vittima del reato, per il detenuto diventa un passo quasi irrinunciabile. Perché, diciamocelo chiaramente, alla maggioranza di noi detenuti delle vittime non importa nulla. Non ci pensiamo proprio per niente... il detenuto medio non solo non pensa alle vittime dei propri reati, ma si sente lui stesso una vittima…”.

Come ricordato da Marino Occhipinti all’inizio di giornata, in passato si è preferito incentrare il dibattito su temi quali i diritti del detenuto, la salute in carcere, l’affettività, le misure alternative alla detenzione, eccetera: è stato davvero emozionante, dunque, vedere che l’asse dell’attenzione si è fermato quest’anno su questo tema cruciale, che vede per la prima volta spostare il baricentro dell’attenzione del condannato al di fuori della sua base d’appoggio.

L’instaurazione - se e quando possibile - di ogni opportuno rapporto tra autori di reato e vittime costituisce un passo fondamentale per la riparazione delle conseguenze derivanti dal reato, soprattutto di quelle che non possono essere valutate sotto il profilo economico.

Rimando comunque all’integrale lettura degli atti del convegno (e soprattutto all’illuminante analisi del prof. Adolfo Ceretti, che ha per così dire sminuzzato - demolendole - le ragioni dell’odio) per la miglior comprensione di quanto vi è stato detto. Altro motivo per il quale di questa giornata conserverò il ricordo più bello è costituito dal fatto che anche la posizione professionale dei magistrati di sorveglianza ne dovrebbe - a ben vedere - uscire un po’ più compresa.

Questo magistrato vive spesso un grave dilemma, nel quale rischia di rimanere schiacciato: quando è il momento di decidere se e quando concedere i benefici penitenziari, ha maggiore importanza la posizione del detenuto che aspira ad ottenerli o la vittima dei suoi reati?

In presenza, ad esempio, di un condannato che ha intrapreso un cammino di autentica revisione critica, quanto debbono incidere sulla decisione l’enormità del male commesso, la quantità di dolore provocato, la gravità dei danni subiti dalla vittima?

E, in tutto questo, è giusto o no che abbia un peso l’opinione pubblica? È giusto o no che nell’esercizio della discrezionalità svolga un qualche ruolo il clima politico-culturale dominante, che inneggia all’effettività della pena e che si dimostra pronto a cambiare le regole penitenziarie in corso d’opera (cioè anche nei confronti di coloro che il reato l’hanno già commesso e si trovano già in carcere)?

Da questo punto di vista, è intuitivo che la messa in correlazione tra vittime e rei, proprio per la positività degli strabilianti risultati che ne possono derivare, non può che comportare lo “sdoganamento” morale e sociale di tutto l’apparato normativo (fin qui - per fortuna - non ancora intaccato nei suoi connotati essenziali) che prevede diversi gradi di modulazione della pena detentiva, fino a giungere, nella parte terminale di essa, alla sua trasformazione in misura alternativa al carcere.

Al termine degli interventi, sono uscito dal carcere pensando che il bilancio degli stimoli che avevo ricevuto quel giorno era questo: l’ideale di una societas perfecta sarebbe che il reo, raggiunta la consapevolezza del male prodotto dal reato, non chieda più nulla per sè, desiderando anzi l’espiazione come una componente della giusta riparazione del male commesso, e che la vittima, all’opposto, chieda essa stessa la liberazione del colpevole, dichiarandosi non interessata alla prosecuzione della sofferenza del carcere nei confronti di un reo che ha davvero elaborato nel suo intimo quali sconvolgimenti le abbia provocato e che sia disponibile a darsi da fare per contribuire ad eliderli o almeno ad attenuarli.

Il fatto che si tratti di un ideale metafisico non è davvero una buona ragione per rinunciare ad aspirarvi.

Concludo questa breve nota esprimendo il più vivo ringraziamento a tutti coloro che hanno pensato ed attuato l’idea di questa importantissima giornata.

A Bollate, un laboratorio di riflessioni sulla pena e sulla riparazione

L’esperienza del progetto “Riparare” in Lombardia

Un progetto nato con il compito di stimolare la riflessione sulla giustizia

riparativa e, in certa misura, persino di sperimentarla nell’ambiente carcerario

 

di Francesco Di Ciò

di Dike Cooperativa per la mediazione dei conflitti

 

e di Claudia Mazzucato

della Università Cattolica Sacro Cuore di Milano

 

Non è semplice offrire una definizione completa e condivisa di riparazione e di giustizia riparativa. La Risoluzione delle Nazioni Unite sui Principi base sull’uso dei programmi di giustizia riparativa (2002) chiama giustizia riparativa quel procedimento in cui “la vittima e il reo e, se appropriato, ogni altro individuo o membro della comunità lesi da un reato partecipano insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte dall’illecito penale, generalmente con l’aiuto di un facilitatore”. Più interessante ancora, ai fini del Progetto qui presentato, è la definizione di esito riparativo fornita dall’ONU e cioè un “accordo raggiunto come risultato di un procedimento di giustizia riparativa” che contempla “risposte o programmi quali la riparazione, le restituzioni, il lavoro di utilità sociale, miranti a rispondere ai bisogni individuali e collettivi e alle responsabilità delle parti e a realizzare la reintegrazione della vittima e del reo”.

Timidamente, ma significativamente, il paradigma della giustizia riparativa sta cominciando a trovare spazio anche in Italia – soprattutto in ambito minorile e nel procedimento penale del Giudice di pace. Tale attenzione, da parte della società e del diritto, è motivata dal riconoscimento che i percorsi di giustizia riparativa “sono profondamente affini ai più alti ideali di civiltà democratica, perché nonostante il reato, quei percorsi rimangono ancorati al consenso e al dialogo: (…) attraverso il riconoscimento reciproco che innesca interessanti dinamiche motivazionali di rispetto spontaneo delle norme e stimola, costruttivamente, a far seguire i torti – compresi quelli di rilevanza penale – da operosi interventi volti alla riparazione”.

Ma lo sviluppo della giustizia riparativa non è affidato solo agli interventi concreti di mediazione e riparazione consentiti dai nuovi ‘sotto-sistemi penali’ appena citati.

Coerentemente con quanto indicato dalle Linee guida in materia di inclusione sociale a favore di persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, emanate di recente dal Ministero della Giustizia, la diffusione della cultura riparativa è veicolata anche, forse soprattutto, da fondamentali azioni di sensibilizzazione della collettività orientate a sviluppare una cultura dell’accoglienza, del rispetto, del reinserimento grazie al confronto aperto su temi quali la legalità, la sicurezza sociale, la mediazione dei conflitti e la riparazione. Simili azioni paiono davvero in grado di contrastare la diffusione di un clima di paura e di discriminazione e di proporre autentici e duraturi cambiamenti nella società civile.

All’interno di questo scenario culturale si colloca la proposta del PROGETTO RIPARARE - Percorsi di attività di pubblica utilità svolta da autori di reato, realizzato in alcuni istituti penitenziari lombardi da Co.lomba (Conferenza lombarda enti di servizio civile), grazie a un finanziamento della Regione Lombardia. Una parte del progetto è stata affidata ad un gruppo di esperti di giustizia riparativa con il compito, per l’appunto, di stimolare la riflessione su e, in certa misura, persino di sperimentare la giustizia riparativa nell’ambiente carcerario. Hanno preso avvio, quindi, due attività parallele, una presso la Casa di reclusione di Milano-Bollate e una presso la Casa circondariale di Bergamo, identiche per finalità, ma molto differenti per modalità di svolgimento.

Per quanto riguarda Milano Bollate, il lavoro sulla giustizia riparativa è stato realizzato proponendo dei ‘laboratori’ di riflessione dedicati ai temi dell’ingiustizia, della pena e della riparazione da svolgersi in differenti contesti: il carcere (che ha visto la partecipazione di un gruppo di volontari detenuti) e la scuola (si è trattato nella specie di una scuola superiore serale, con studenti-lavoratori eterogenei per età e provenienza professionale).

 

La “domanda di giustizia” e il “sentimento dell’ingiustizia” che abitano ciascuno di noi

 

Il percorso ha previsto, dapprima, incontri separati con ciascun gruppo (scuola/carcere) durante i quali gli argomenti sono stati affrontati a partire dalle esperienze e dai vissuti dei partecipanti, con l’ausilio di alcuni contributi teorici e attraverso varie metodologie attive (esercizi, giochi di ruolo, visione di brani di film, uso di immagini, eccettera).

Questi incontri sono serviti a “prepararsi” a due momenti di confronto diretto tra i gruppi, svolti entrambi all’interno dell’Istituto di Bollate. Tali ulteriori occasioni hanno offerto ai partecipanti la possibilità di dialogare, anche animatamente, e scambiarsi i frutti delle riflessioni maturate durante il percorso anche grazie ai giochi di ruolo e agli esercizi di ascolto. Il che ha consentito davvero di sperimentare in prima persona il significato e lo spirito della giustizia riparativa e, dunque, di condividere pensieri, dubbi e scoperte riguardo alla ‘domanda di giustizia’ e al ‘sentimento dell’ingiustizia’ che abitano ciascuno di noi. I partecipanti hanno potuto ragionare, attivamente e insieme (per riprendere la definizione delle Nazioni Unite poco sopra riportata) sul senso e sul significato della riparazione, sulle sue caratteristiche, sugli oggetti della riparazione, sulle condizioni necessarie per riparare, sul perché desideriamo e possiamo ‘riparare’ le ingiustizie.

Tenendo conto della particolarità e della delicatezza dei contenuti e dei contesti, sotto il profilo metodologico, il progetto ha proposto un percorso di apprendimento mediante la condivisione e il confronto, con particolare attenzione al coinvolgimento attivo dei partecipanti ai quali è stato offerto uno spazio in cui narrare e, per certi versi, rappresentare le proprie esperienze di ingiustizia e i propri ‘cammini di riparazione’. I formatori si sono proposti come soggetti imparziali, garanti di un setting ‘sicuro e confortevole’ (cfr., di nuovo, Basic Principles), con il compito appassionante di facilitare la comunicazione fra le persone, riconoscendo e valorizzando le diversità e la ricchezza di prospettive differenti. L’intero percorso ha rispettato scrupolosamente i principi di volontarietà, confidenzialità e assenza di giudizio. Ed è proprio per rispettare la ‘confidenza’ pian piano maturata in quello che è diventato ‘un’ gruppo, che non ci sentiamo di entrare nei contenuti specifici, né tanto meno di pubblicare oggi quanto di prezioso è emerso nei laboratori.

Nella casa di reclusione di Bergamo, Leonardo Lenzi (Cooperativa Dike, Università Cattolica) e Sergio Manghi (Università di Parma), insieme a Co.lomba, hanno affrontato la giustizia riparativa a partire niente di meno che dalla "testata mondiale" di Zidane: ma di questo, se vorrete, vi racconteranno i protagonisti in una prossima occasione.

 

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