Attenti ai libri

 

Vittime che non vogliono nutrirsi di odio

“Spingendo la notte più in là”

Quella violenza che genera altra violenza e sempre dolore

 

di Elton Kalica

 

Discutere in carcere di un libro come “Spingendo la notte più in là”, di cui è autore Mario Calabresi, il cui padre, Commissario della questura di Milano, fu ucciso la mattina del 17 Maggio 1972, può avere effetti dirompenti: perché scardina alcuni luoghi comuni, come quello che all’odio si debba rispondere con l’odio, e perché impone di confrontarsi con un dolore “calmo”, composto, mai urlato, che forse fa più male a chi ha commesso reati dell’odio stesso, ma è un male salutare, che costringe a crescere. E, in fondo, i detenuti, che hanno accettato di raccontare i sentimenti, che ha provocato in loro la lettura di questo libro, questa presa di coscienza personale la testimoniano bene. Imparare a rinunciare all’odio e alla vendetta.

 

Imparare a rinunciare all’odio e alla vendetta

 

Ieri, nella mia cella surriscaldata dall’estate padovana, ho letto il libro di Mario Calabresi che racconta i momenti di dolore, di rabbia, di disperazione attraverso cui sono passate alcune famiglie che hanno, come denominatore comune, quello di essere vittime del terrorismo.

Io sono straniero, e ho notato che quando si parla dei cosiddetti terroristi rossi, si fa riferimento a una categoria speciale di detenuti, perché loro hanno sempre studiato e scritto molto, si sono interessati di giornalismo, di cultura, di politica. Personalmente non mi piacciono le categorie, non amo neppure dividere i condannati per categorie di reato, la trovo una separazione ingiusta che fa credere ad alcuni che il loro reato è meglio di quello degli altri. Ma dopo aver letto questo libro, ho deciso di ammettere per un momento che esista una divisione per categorie, e ho capito che questa divisione esiste anche tra le vittime e crea una categoria speciale di vittime, che sono quelle del terrorismo. E alcune di loro però hanno qualcosa in più, che è la rinuncia all’odio e alla vendetta.

Durante un incontro organizzato all’interno del carcere di Padova con Olga D’Antona, la vedova del giurista ucciso dalle Brigate rosse, con grande sorpresa ho sentito come lei, tra le lacrime, rivolgendosi a noi detenuti, diceva di sentirsi fortunata perché non permetteva che al suo dolore fosse unito anche l’odio. E oggi ho scoperto che lei non è sola, ma che un’altra vittima del terrorismo, Mario Calabresi, ha escluso dalla sua vita l’odio, e ha deciso di vivere con un po’ più serenità nel cuore, senza dimenticare certo, ma sempre con dignità e con ragionevolezza.

Non tutti i famigliari delle vittime ci riescono, ed è comprensibile: perdere un proprio caro è il dolore più grande che può colpire una persona. Ma io voglio consigliare a tutti di leggere le testimonianze di Olga D’Antona e di Mario Calabresi, perché considero una grande fortuna l’esistenza di queste persone straordinarie, soprattutto per chi, come me, si trova in carcere.

Poter conoscere delle persone così disposte al dialogo ha aperto gli occhi a molti di noi. Chi ha commesso un omicidio si ritrova poi per anni a combattere con l’isolamento, con le difficoltà della vita carceraria, e può succedere che non pensi nel modo giusto al male che ha fatto. Mentre ascoltare Olga D’Antona che ricorda la sua solitudine, o leggere Mario Calabresi che racconta la sua vita senza un padre, è una importante occasione per fermarsi e riflettere. Tanti dei miei compagni detenuti lo hanno fatto, perché hanno visto materializzarsi i famigliari delle proprie vittime, e hanno visto negli occhi il dolore che loro stessi hanno causato. Ma io credo che questa riflessione debba essere fatta da tutti i cittadini, perché queste vittime hanno da insegnare cose che non si trovano da nessun’altra parte. Loro infatti non usano le proprie storie per chiedere vendetta, non lanciano allarmi sulla sicurezza e non evocano la forca. Invece, con semplicità e intelligenza, raccontano quanto dolore e quanta sofferenza c’è dietro ogni reato.

 

Quello che conta davvero è il ripudio della violenza

 

Io credo che quello che il libro di Mario Calabresi mi ha fatto percepire in modo chiaro è che la violenza in sé è spietata, e che porta morte, ma anche distruzione, perché distrugge comunque la vita di tutti i famigliari, sia di chi ha ucciso sia di chi è stato vittima.

Allora, secondo me, il messaggio che Calabresi lancia non è tanto quello del perdono o della fratellanza, quanto il ripudio della violenza. Io mi guardo intorno, qui in carcere, e vedo persone rovinate, cariche di anni di galera; vedo le loro famiglie distrutte che percorrono centinaia di chilometri per andare a trovare il loro caro da un carcere all’altro, in giro per l’Italia. E tutto questo perché tanta gente, chi per soldi, chi per un’idea, chi per soddisfare il proprio piacere, ha accettato, per raggiungere il suo scopo, di usare la violenza. Ma vedo che anche chi vive fuori a volte non si rende conto della vera natura della violenza, e non capisce che quando interiorizzi sentimenti violenti come la vendetta o il farsi giustizia da sé, alla fine rischi sempre di non riuscire a dominare i tuoi istinti, e ti lasci andare, facendo del male, facendoti del male.

Allora si deve leggere questo libro anche per conoscere in ogni più piccolo dettaglio il dolore delle vittime e per ricordarsi in ogni momento della vita che la violenza è la causa di tutti i mali, perché genera altra violenza e sempre tanto dolore. Mai giustizia.

Per noi che la violenza l’abbiamo usata, discutere delle vittime crea un comprensibile disagio. É difficile, per esempio, ammettere che ogni tipo di reato porta con sé violenza, nessuno escluso: lo spacciatore spesso si difende sostenendo che vendere droga non crea una violenza, ma la madre del ragazzo che per la prima volta la compra vedrà il rapporto familiare deteriorarsi, e niente sarà più come prima; chi ruba, invece, spesso i reati li “monetizza”, li riduce al valore degli oggetti rubati, senza avere la percezione chiara che una persona che subisce un furto perde soprattutto la sicurezza che provava prima, quando chiudeva la porta di casa e si trovava fra i suoi ricordi, i suoi affetti, con la sensazione di essere in un luogo amico. Fare i conti allora con le storie di vita di chi ha subito una violenza credo significhi per noi capire fino in fondo che ci sono perdite che non si esauriscono in una vita distrutta, ma i cui effetti continuano all’infinito, e sono fatti anche di tutti i piccoli momenti sereni della quotidianità di una famiglia che i figli del commissario Calabresi non avranno mai indietro.

Un libro che insegna a rispettare le vittime

 

di Franco Garaffoni

 

Per un detenuto, qualsiasi reato egli abbia commesso, durante la carcerazione arriva inevitabilmente il momento di confrontarsi con se stesso e con le proprie vittime. E quello è il momento più duro.

Ritrovarsi a dover accettare le proprie responsabilità comporta un grande lavoro su se stessi e non sempre questo percorso porta ad una completa accettazione del danno arrecato. La ricerca di una qualsiasi giustificazione, il nascondersi dietro inesistenti alibi appare la scelta più percorribile, ma questo non aiuta la verità, e non fa star meglio. Leggendo il libro di Mario Calabresi, la cosa più straordinaria mi è sembrata il fatto che lui è una vittima che in certi momenti del suo racconto tenta anche di giustificare lo Stato, quello stesso Stato che a distanza di moltissimi anni ancora non è stato capace di appurare la verità su quel periodo terribile che furono i cosiddetti anni di piombo, che non è ancora in grado di svelare i retroscena che costarono la vita a uomini delle istituzioni, a cittadini comuni, a operai, a sindacalisti, ma anche a giovani che sbagliando buttarono le loro vite in funzione di una idea.

Ad esempio, sembra umanamente assurdo che la famiglia Calabresi non sia stata avvisata della concessone della grazia a uno dei condannati per l’omicidio del loro caro, eppure, nonostante l’indignazione, nel libro troviamo parole come “ci sono cose che devono essere fatte nell’interesse generale, che può non coincidere con quello dei familiari delle vittime, e se lo Stato, la Magistratura, il governo o il presidente della Repubblica pensano che un atto sia corretto, necessario, motivato, allora non possono certo farsi paralizzare dai dolori privati”. Se mai un domani dovessi incontrare Mario Calabresi, mi piacerebbe stringergli la mano, e ringraziarlo perché, a tanti colpevoli di reati, come il sottoscritto, il suo libro insegna molto, e spero che ci avvicini a capire e a rispettare le vittime e il loro dolore aiutandoci a non cercare giustificazioni, ma ad affrontare senza ipocrisia le nostre responsabilità.

 

 

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