Sprigionare gli affetti

 

Lettera di un figlio detenuto a un padre che non c’è più

 

di Tonino Madonna, Carcere di Lauro (AV)

 

Più la società fuori sembra ignorare il carcere, più cresce "dentro" la voglia di farsi sentire, di impedire di essere cancellati. E così, anche dalle piccole carceri del sud escono nuove voci, nuovi giornali: come a Lauro, in provincia di Avellino, dove è nato "Anagramma", una rivista che il suo coordinatore, Beppe Battaglia, così definisce: "Una socialità smarrita che va cercandosi, una scuola che non richiede e non conferisce titoli, un cantiere terapeutico, una fornace ribollente che informa di sé, un progetto teso a riannodare i fili ammazzati…". Da Anagramma pubblichiamo la testimonianza di un detenuto, dedicata a un tema particolarmente doloroso, quello degli affetti devastati dal carcere, dei sensi di colpa di un figlio nei confronti del padre, della morte che in galera è, se possibile, ancora più dolorosa.

 

La Redazione

 

Ciao! Oppure debbo dire "uè stò quà" com’era mia consuetudine, per stabilire il contatto. Te ne sei andato, senza neppure salutarmi.

Ti ricordi, mi dicesti in agonia, a cavallo del trapasso: "Domani dovrai essere tu ad accompagnarmi al comune". Ed io, seduto al tuo capezzale, ascoltavo quelle tue frasi sconnesse. Ma la presenza delle guardie violentarono quel momento intimo; come quando si violenta un neonato, e per tantissimi anni ho vissuto in quel dolore e disprezzo per tutto ciò che violenta. Hai spirato solo dopo che mi hai visto. Avrei voluto piangere, singhiozzare e, perché no, andar di testa!

Scusami, perdonami non ne sono stato capace; pensavo che, se mi fossi sbattuto, avresti sentito il tintinnio delle catene che mi portavo dentro.

Lo sai, sono stato "negativo" dalla nascita, nonostante i tuoi insegnamenti, e adesso mi confesso con la speranza di esorcizzare il sonno perché ti sogno spesso.

Ma non ti fai mai vedere, vedo tutti i nostri cari, a volte ci parlo pure, ma tu non ti fai vedere!

Quale il motivo? Quali sono i tuoi rancori verso me?

L’altra notte ti ho sognato, un sogno che ho vissuto nella realtà. Ti ricordi, riuscisti ad intrufolarti dove era permesso solo ai miei simili. Riuscisti a sentire il nostro motto (rincorrere i nemici e abbatterli...). Mi guardasti, ti scesero le lacrime e te ne andasti. Perché l’altra notte non ti sei fatto vedere? Ho scavato dentro me, per capire il perché non ti fai vedere, ma non ho trovato niente per giustificare il tuo comportamento.

Aiutami, ti prego, è indispensabile in questa fase della mia vita; è importante avere il tuo consenso; tu sai che è nella mia indole mandare alla malora chi non è d’accordo con me.

Sarei capace di mandare alla malora anche Dio, ma sia tu che lui, attualmente, mi servite! Ho bisogno di te e di lui, mi servono le vostre benedizioni, i vostri perdoni, perché mi trovo su un sentiero a me sconosciuto, quello "positivo". Se la partenza sarà handicappata, l’arrivo non ci sarà!

Ti ricordi quando ti dissi che non riuscivo più a piangere? Questa cosa mi faceva male. Avevo bisogno di sfogarmi, ma tu prendesti questa cosa ancora come una malattia.

Ricorderò sempre il medico che mi portasti a casa.

Questo è il motivo principale del mio messaggio... Pà! Sta cambiando qualcosa dentro di me e sono sicuro che fra non molto ci riuscirò.

Credimi le prime lacrime le dedicherò a te, perché tu, solo tu, sarai l’artefice di questo miracolo!

Ciao, ti vorrò sempre più bene!

 

L’ultimo soldato matto

Non mi era mai passato per la testa che un giorno io sarei andato a trovare una mia compagna detenuta, effettuando un colloquio "dall’altra parte del bancone"

 

Un detenuto in permesso affronta la gioia, la sofferenza, le umiliazioni del colloquio, come lo vivono di solito i familiari

 

A fare colloquio con le persone detenute possono essere madri, padri, figli, mogli, mariti, ma comunque persone libere; poi ci sono colloqui in cui, per esempio, marito e moglie sono in carceri diverse, e uno dei due chiede di "essere tradotto" con la scorta a colloquio con l’altro, e ci sono in fine colloqui, come quello raccontato qui di seguito, dove un detenuto in permesso chiede di incontrare la sua compagna che sta in carcere e non può ancora usufruire di permessi premio. Ma la testimonianza di Massimiliano è particolare anche per un altro aspetto: il suo è un rapporto affettivo nato da una corrispondenza da carcere a carcere, cominciata per cercare sollievo dalla solitudine e comprensione da parte di chi sta vivendo i tuoi stessi problemi, e diventata qualcosa di più.

 

La Redazione

 

"Ristretti" a colloquio

 

Non mi era mai passato per la testa che un giorno io sarei andato a trovare una mia compagna detenuta, effettuando un colloquio "dall’altra parte del bancone".

È stato comunque un susseguirsi di emozioni, certamente molto belle, ma per certi versi anche angoscianti.

Entrare in un carcere, come persona libera, sottoporsi all’ormai obbligato rito della perquisizione, entrare in quella piccola sala per abbracciare una persona cara, è qualcosa che mai, prima d’ora, avevo sperimentato e preso in considerazione.

Ancora prima di varcare l’entrata di quel carcere, sentivo in me crescere sempre più un insieme di fortissime emozioni: la voglia di abbracciare finalmente la persona con cui avevo condiviso oltre un anno di fitta corrispondenza, la paura di scoprire di non essere ciò che lei magari si sarebbe aspettata, l’imbarazzo del "primo incontro", la consapevolezza di dover poi lasciare lì dentro una persona per me davvero speciale.

Pur avendo trascorso oltre 10 anni di detenzione, ho provato ugualmente una strana sensazione, quando prima dell’entrata a colloquio sono stato sottoposto al controllo da parte dell’agente, che accortosi del mio "impaccio" mi ha subito chiesto se era la mia prima volta!!! In verità il mio impaccio non era dovuto alla mia "prima volta", ma al fatto che la mia testa non riusciva a non pensare che dopo pochi minuti, finalmente, sarei stato di fronte alla mia compagna. Pensavo a questo e cercavo di immaginarmi lo stato emotivo in cui poteva trovarsi lei, che già poche ore prima era stata informata del mio arrivo.

Dopo la perquisizione di rito, sono finalmente stato accompagnato verso una piccola sala dove si svolgono i colloqui, e nel breve tragitto per la testa mi sono passati davanti mille pensieri, che sono improvvisamente svaniti appena i miei occhi hanno potuto incontrare quelli della mia compagna. L’emozione iniziale è poi stata seguita da quella di un abbraccio che, seppur breve, è riuscito a racchiudere in sé molto più di quanto io stesso avrei voluto esprimere con le parole.

Dopo un primo momento d’imbarazzo, tenendoci per mano ho provato una sensazione davvero incredibile, come se in fondo io e lei ci conoscessimo da sempre. Questo ha fatto sì che il nostro colloquio non fosse semplicemente un incontro di sguardi, ma anche di parole, di dialogo e allo stesso tempo di disagio, per il costante controllo visivo da parte dell’agente, che sembrava non distogliere un solo secondo lo sguardo da noi.

Un colloquio durato due ore, che avrei voluto non finisse mai, ma che ad un certo punto è stato interrotto dalle inesorabili lancette di un orologio che sembravano correre all’impazzata; certo oggi quel colloquio, dentro di me, ha un valore indescrivibile, ma ricordo ancora adesso la strana sensazione che ho provato quando, uscendo da quel carcere, mi sono reso conto di aver dimenticato qualcosa: una parte di me.

Mai come in quel momento ho pensato a quelle proposte che da più parti erano state lanciate, per restituire un po’ di dignità agli affetti, a quei valori che nessuno ha il diritto di negare.

Persino un semplice abbraccio, in quel momento, è diventato una specie di furto; in realtà la cosa più importante in quel momento, era trovarsi l’uno di fronte all’altro, senza alcuna pretesa. Ma la sensazione di avere comunque gli occhi puntati addosso, pronti quasi a gridare "allarme allarme", è riuscita a bloccare persino i battiti dei nostri cuori, facendoci sentire colpevoli per il semplice fatto di provare un affetto.

Nonostante questo, però, c’è qualcosa dentro ognuno di noi, che ci permette di voler bene ugualmente, magari anche solo con lo sguardo, o tenendo stretta una mano; questo ancora non ci è stato negato e, nel frattempo, non possiamo che augurarci che, come già tanti paesi civili hanno fatto qui in Europa, anche in Italia presto possa essere approvata una legge che consente di mantenere saldi quegli affetti che oggi, fra impedimenti e regole a volte incomprensibili, rischiano troppo spesso di naufragare nel vuoto, quel vuoto generato da una condanna fatta di mesi e anni che ti privano d’ogni cosa più elementare ed umana, come gli affetti delle persone care, che restano ogni volta imprigionati... fuori da una sala-colloqui. Uscendo da quel carcere, vedendolo allontanarsi sempre più, ho capito quanta sofferenza si possa provare, quando si lascia là dentro una persona a cui si vuole bene; molte volte ho pensato a queste cose, ma mai prima d’ora avevo compreso ciò che realmente si poteva provare al termine di un colloquio, quando ci si incammina verso la strada di casa.

Adesso non resta che aspettare "la prossima volta", ma nel frattempo, io e la mia compagna sapremo d’avere con noi qualcosa che porteremo sempre dentro al cuore e che un giorno, si spera, potrà vedere anche tutelato e garantito quel diritto all’affettività che è da sempre radicata in ognuno di noi.

 

Massimiliano Ruggiero, Casa di Reclusione di San Gimignano

 

 

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