Donne Dentro

 

Ri/educazione - Re/inserimento

 

Ma il carcere è piuttosto "educazione" a corazzarti contro il senso di impotenza e a non farti coinvolgere da tutto ciò che ti circonda fino a diventare cinico

 

di Giulia

 

Rieducazione e reinserimento: due parole che si sentono spesso, o per meglio dire sono alla base dei discorsi degli "addetti ai lavori" che si occupano di carcere. Sono considerate come "fine" da raggiungere, ma… dovrebbe essere così, e non lo è! Dovrebbe (condizionale) con accanto il SE, se si verificano tutta una serie di circostanze, ma con i SE spesso non si va da nessuna parte, e tanto meno in carcere.

RI/EDUCAZIONE: cos’è? Per molti detenuti, se non per la totalità, questa parola non ha molto senso. Del resto, "SE" fosse possibile RIEDUCARE, ci sarebbero sicuramente meno recidivi. Possiamo invece parlare di:

"EDUCAZIONE" al crimine, questo è reale (forse per troppi): un esempio banale, quanto vero, è entrare in carcere per un semplice furto e uscire sapendo come poter fare una rapina. Tra i detenuti c’è scambio di informazioni su atti illegali, normale visto l’ambiente promiscuo in cui si vive

"EDUCAZIONE" a corazzarsi contro il senso d’impotenza, contro l’impossibilità a scaricare impulsi emotivi, che portano rabbia e un’aggressività che va controllata. E per controllarla ci vuole razionalità: bisogna costruirsi dei muri a difesa della propria sopravvivenza. Ognuno ovviamente ha i suoi metodi. Chi si chiude, chi diventa iperattivo, chi piange, chi diventa amorfo, chi s’impasticca e si fa "scivolare" addosso il periodo di detenzione

"EDUCAZIONE" a non farti coinvolgere da tutto ciò che ti circonda, a sdrammatizzare, fino (a volte) a diventare cinico o essere considerato tale. Poi, se di per sé una persona ha già un carattere considerato "forte", il carcere "EDUCA" ad esserlo di più, a coltivare la durezza, la ruvidità, la severità.

 

Dunque realmente e nei fatti il carcere con fini "ri/educativi" non c’è, e non c’è poi il "re/inserimento" nel tessuto sociale. Prima di questo passo, che dovrebbe consistere nel reintegrarsi nella società, esserne accettati, tornare a farne parte, una persona reclusa dovrebbe infatti essere preparata. Quindi servirebbe un passaggio intermedio tra carcere e dopo carcere. Difficilmente accade. Si danno permessi per questo, ma generalmente non sono consoni allo scopo da raggiungere. Già, perché in permesso chi ha una famiglia in qualche modo inizia un riallacciamento dei legami affettivi, ma chi è solo o è detenuto lontano dal suo ambiente famigliare (facile che capiti) va in permesso presso strutture a loro volta chiuse o comunque in un certo qual modo protette e non trova le condizioni vere che dovrà affrontare all’uscita dal carcere.

La vita reale fuori dal carcere non è statica, risucchia. Un "ristretto" dopo anni di chiusura totale vissuta a ritmi e spazi condizionati e determinati da altri, fa fatica, non è a suo agio, si perde. Questo provoca ansietà, paure, angosce. Una sensazione di vacillamento in uno spazio-tempo che non sente suo. Anche lì avrebbe bisogno di supporti: non dati "per forza" (ti costringo a farti aiutare), ma intesi come una porta aperta dove se vuole uno può essere libero di entrare o no.

Questo fatto, questa esigenza di non essere "ributtati nel mondo" senza un aiuto, non vengono presi in considerazione. E anche il lavoro all’esterno con un Articolo 21 "extramurario" o una semi-libertà sono occasioni sì, ma fortemente condizionate a loro volta. Queste "opportunità" di lavorare fuori dal carcere dovrebbero servire a procurarti un "re/inserimento" futuro. A parole è facile, un detenuto esce in semi-libertà, svolge un lavoro, si guarda due negozi, rientra in carcere. Certo incontra persone che non vivono la sua stessa condizione, disposte ad accettare la sua situazione con (naturalezza mi pare esagerato) benevolenza. Un’altra specie di protezione.

Ma quanti ristretti si ricostruiscono una vita nella città dove sono "ospiti temporanei" di un carcere? Credo pochi. Di conseguenza, seppure semiliberi o in Articolo 21, quando a Fine Pena se ne andranno e torneranno nella loro città, si potrà dire di loro che sono "RE/INSERITI?".

Certo la mia convinzione personale, e di tante altre detenute, sarebbe che bisogna costruire dal carcere un cammino futuro, ma in concreto non mi sembra attuabile. Perché?

Ci sono prima di tutto i TRASFERIMENTI: spesso ti allontanano e non ti è dato certo di scegliere. E così un percorso iniziato si interrompe bruscamente e ti ritrovi a ricominciare tutto da capo. Poi manca spesso una FORMAZIONE LAVORATIVA adeguata (sono poche le strutture carcerarie in grado di darla). E in fine i PUNTI DI RIFERIMENTO, che una persona dovrebbe sempre avere, come gli affetti, un luogo in cui abitare, il lavoro, spesso vanno persi durante la detenzione. È un ripartire da zero! Sempre a parole ci si dice che esistono: i Servizi Sociali, le Cooperative di lavoro, le Associazioni "umanitarie". Ma chissà perché una volta che ci viene tolto l’appellativo di ristretti, torniamo ad essere un "NIENTE". Nessuno ha più interesse per noi! Dunque le uniche soluzioni possibili che ci rimangono sono accettare lavori poco qualificati, mal pagati e frustranti, comunque non in grado di consentirci una vita "decente", e una "riqualificazione" sociale, lavorativa, umana quantomeno dignitosa.

Questo appiattimento della dignità personale spinge molte volte a non avere più speranza, a non credere più in niente, a considerare la propria vita come non degna di essere vissuta, se non nell’unico contesto che precedentemente ci ha portato in carcere.

La vita di una persona che sbaglia pare un elastico che ritorna punto e a capo da dove sembrava cambiare rotta

 

Storia di Anna Maria raccolta da Giulia

 

Sono detenuta nella Casa di Reclusione di Venezia, non sono giovanissima, ho quarantacinque anni, sono madre di due splendidi bambini, e vorrei raccontare come il sistema giudiziario ti può chiudere possibilità che ti sei costruita con molta fatica, dopo un errore commesso nel lontano 1991.

Nel periodo in cui ero in detenzione domiciliare presso l’Istituto "Opera Don Calabria" ho cercato di aiutarmi, con l’appoggio di altre persone, a mettere un po’ di ordine nella mia vita sballata, fatta di falsità, sfruttamento, immaturità, squallidità. L’input a ricostruire una vita sbagliata è partito da me, ma qualcosa che mi ha ancora di più convinta che ero sulla strada giusta è stato l’incontro che ho avuto con il mio attuale compagno. Un uomo che ha rafforzato con il suo amore la fiducia in me stessa.

Un incontro casuale: all’istituto c’erano sia donne che uomini, le donne coabitavano con le suore e gli uomini con i preti. Un giorno andai alla sezione maschile perché avevo il desiderio di confessarmi. Dovetti attendere in quanto don Giusto, con cui volevo parlare, era occupato con un amico. All’improvviso lui entrò accompagnato da questo amico. Un flash, due parole di saluto, una stretta di mano. Il caso volle che lui e io da quel momento ci prendessimo per camminare insieme lungo il percorso della vita. A settembre 1999, terminata la mia detenzione, presi il "treno del sole" per trasferirmi al nord. Dove il mio compagno, da cui ho attinto molta forza, lavorava e viveva da tempo.

Mentre ero ancora in detenzione, ricordo che lui passò i suoi venti giorni di ferie presso l’istituto per poter stare vicino a me ed ai miei figli. La famiglia divenne numerosa, perché lui ha tre figli. Sia in detenzione che nel primo periodo del mio trasferimento al nord, i miei figli vivevano in affidamento presso una parente lontana, non avendo io famigliari stretti.

L’affidamento lo feci in quanto avevo non paura, ma il terrore che mi fossero tolti e dati in adozione a qualcuno. Volevo pagare il mio debito con la società e costruirmi una nuova vita. Ero determinata e credo che non chiedevo molto. Una vita normale, ricomponendo non uno ma due nuclei famigliari, perché il mio convivente ha riconosciuto come suoi i miei due figli, che ora portano il suo cognome. Questo dimostra anche la serietà dei suoi sentimenti, è un uomo con principi sani, onesto.

Il motivo per cui sono salita al nord da sola era anche perché volevo riuscire a capire chiaramente se questo rapporto affettivo era una cosa seria, con basi solide.

Mi trovai lavoro in un maglificio. Insieme arredammo la nostra modesta casa. Facemmo progetti per il futuro. Mi sembrava un sogno. Il mio passato si stava allontanando velocemente. Tutto sembrava si fosse fermato sul marciapiede della stazione di Napoli, da cui ero partita. Cominciammo a parlare con assistenti sociali, giudici del Tribunale dei minori, per organizzare l’arrivo di Chiara e Alex, i miei bambini.

Dentro mi sentivo rinata, conta molto essere mamma, compagna, amica. Ero artefice di ciò che veramente volevo. Un sogno. Ebbene sì, un sogno e… come tutti i sogni che al risveglio svaniscono, il mio il 17 aprile del 2001 si infranse. I carabinieri vennero in fabbrica, erano le 10.30, avevano un mandato di cattura. Ero sconvolta, non riuscivo a crederci, continuavo a chiedere: "Siete sicuri?". E sì, ero proprio io la persona che cercavano, volevano.

Sono di nuovo in carcere. Il reato è del 1991, ogni giorno mi chiedo perché. Certo, il mio rapporto affettivo di coppia permane, ma devo ricominciare da capo… i servizi sociali, il Tribunale paiono rendermi ancora più difficile la corsa verso la vita normale.

Mi sento sempre rispondere di avere pazienza, che tutto si aggiusta. Chi realmente mi vuole aiutare si trova sempre porte sbarrate, ostacoli insormontabili. Ho sbagliato, ho anche pagato. Ho fatto quattro anni di carcere in passato e con questo sono già a cinque. Mi pare una cambiale. I creditori vengono a riscuotere proprio quando con molta fatica stavo integrandomi.

Non è il peso della reclusione che più mi fa soffrire, è la lontananza dalla mia famiglia, più vado avanti più mi rendo conto di quanto sarà difficile ricostruire un rapporto con loro. Ci sono delle alternative, perché non attuarle? Perché chi ha un determinato ruolo deve accanirsi in questa maniera su di me e non solo (non sono l’unica persona presa dentro una spirale come questa)? Perché non guardare oltre? Perché non valutare che è più proficuo, realistico, umano dare una opportunità di riscattarsi in altro modo? Una detenzione domiciliare con l’obbligo di lavoro, controllata dalle forze preposte, non potrebbe essere sufficiente per far sì che io sconti il mio debito, il mio errore di 11 anni fa? Come persona credo di avere il diritto di vivere una vita decente con la mia famiglia.

La vita di una persona che sbaglia pare un elastico. Oggi sbagli, paghi, ti rimetti in carreggiata, ma non hai pagato abbastanza, la tua vita ritorna punto a capo da dove sembrava cambiare rotta. È costruttivo? Certo io continuo a combattere, non mollo, il desiderio di avere una vera famiglia mi rende forte, ma non vorrei che il dolore, la frustrazione provocata dal non vedere risultati concreti sovrasti il mio giusto credo nella possibilità di eliminare, o perlomeno sfocare, il timbro indelebile che bolla la persona nel momento in cui ha deviato dalla carreggiata.

Tutto è cominciato quando avevo solo tredici anni

Un matrimonio in Albania, poi l’illusione di una "luna di miele" in Italia

 

La storia di Laura è stata raccolta nel carcere della Giudecca da Sandra e Gena

 

Quella che segue è la storia di Laura, una ragazza albanese di vent’anni, ora in carcere, che ha deciso di aprirsi e raccontare quello che le è successo per cercare di liberarsi da un peso troppo opprimente per una donna così giovane.

"A tredici anni, al mio paese, ho conosciuto LUI. LUI che ha dieci anni più di me, ed era bello, ricco e forte. Io pensavo di essere stata baciata dalla fortuna solo per averlo conosciuto, e dopo che lui si era dichiarato innamorato, mi sentivo non una principessa, ma una regina. Vivevo per lui, nella mia mente c’era solo lui. Solo ora, a distanza di tempo, il ricordo di quei momenti mi fa paura.

Praticamente mi sentivo totalmente dipendente e pensavo che senza di lui sarei morta. A quattordici anni mi sono sposata e sono andata a vivere a casa sua. E il sogno continuava.

Ma ben presto, dopo pochi mesi, lui mi ha proposto di venire in Italia per fare un giro. Dentro di me era la luna di miele tanto desiderata.

Una notte partiamo, io, lui, un suo amico e la moglie del suo amico, saliamo su un gommone con molte altre persone a bordo. Arrivata in Italia scopro che lui aveva già preso una casa in affitto per noi quattro.

Dopo qualche giorno ho notato qualcosa di strano nel suo comportamento con me, e ho cominciato a parlare di questo con la moglie del suo amico. Ed è stato allora che lei mi ha spiegato brutalmente che se io ero in Italia era solo per lavorare come prostituta, e che lei mi doveva insegnare il mestiere.

Io ero piccola, innamorata, e pensavo che fosse uno scherzo, però mi vergognavo a parlarne con lui, e comunque pensavo di essere sicura che lui non volesse. Però piano piano ho cominciato a capire che, se anche mio marito di questo non mi parlava direttamente, era quello che pretendeva da me. La sua amica continuava ad insistere per insegnarmi come comportarmi, ed io mi sentivo sempre più pressata e angosciata.

Sono passati due o tre mesi, e poi lei ha iniziato a darmi queste "lezioni". Vivevo un incubo e speravo sempre: domani sarà diverso. Ma una sera quella donna mi disse che dovevo cominciare a lavorare. ERO TERRORIZZATA.

Mio marito, senza parlare, ci ha accompagnate in auto sul posto. Siamo scese, lui è andato via ed io ho cominciato. Ricordo ancora i primi clienti che si fermavano, mi guardavano, vedevano che ero bambina e nonostante le insistenze dell’amica di mio marito andavano via, dicendo che in Italia si va in galera per questo.

Poi è arrivato il primo che ha accettato. Così è iniziato il mio calvario. Dopo una settimana mi hanno lasciata da sola in strada. Lui mi accompagnava, mi lasciava, continuava a girare sempre attorno, poi mi riaccompagnava a casa e mi chiedeva i soldi, che erano, di solito, circa un milione. Mi diceva: non preoccuparti, sono tutti per comprare cose per te.

Dopo un po’ però cominciò a pretendere sempre più soldi e, se si accorgeva che un cliente veniva da me per più di due o tre volte, mi picchiava. È successo anche che mi ha spezzato un dito e sono andata in ospedale. Al ritorno lui mi ha chiesto perdono e mi ha promesso che non sarebbe più successo. Invece tutto è continuato come prima. Non potevo chiedere aiuto alla mia famiglia perché lui mi minacciava, ho tentato di scappare ma lui mi ha ripreso e dopo è stato peggio.

Sembra assurdo dire una cosa del genere, ma il mio arresto è stato anche l’inizio della liberazione da questo inferno. Dopo due anni di sofferenze e riflessioni ho una certezza: quella vita non la voglio più fare".

 

 

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